Patrizia Mancini
Non c’è stato nulla di scontato durante le “celebrazioni” del secondo anniversario dell’inizio delle rivolte tunisine che hanno portato alla fine della dittatura. A cominciare proprio da Sidi Bou Zid, il luogo dove Mohamed Bou Aziz si è dato fuoco. Il presidente della Repubblica Moncef Marzouki e il presidente dell’Assemblea Costituente Mustapha Ben Jafar sono stati cacciati da un coro di “Dégage” e da una fitta sassaiola che li ha costretti a una penosa ritirata, protetti dalle forze dell’ordine. Il Primo Ministro del partito islamico Ennahdha, Hamadi Jebali, da parte sua, ha ritenuto più saggio prendersi un congedo per malattia!
La popolazione non ha dimenticato le promesse di Marzouki fatte all’indomani della sua elezione: “Entro sei mesi ci saranno investimenti e risorse per la vostra regione”. A un anno da quelle assicurazioni, lasituazione economica dell’intera regione è notevolmente peggiorata rispetto all’anno precedente, come del resto a Siliana, dove il mese scorso il principale sindacato ha appoggiato le manifestazioni degli abitanti per le stesse identiche rivendicazioni non solo di Sidi Bou Zid, ma di tutte le regioni dell’interno della Tunisia. Qual è la differenza fra il periodo di Ben Alì e questa fase post-rivoluzionaria? Nessuna dal punto di vista dei diseredati, eccezione fatta per l’informazione che è condivisa e fatta circolare liberamente. Ma la libertà di espressione può essere sufficiente per chi non ha lavoro e alcuna speranza nel futuro?
In questa stessa giornata i ragazzi feriti durante la rivoluzione e i familiari delle vittime, per la maggior parte provenienti proprio da queste regioni dimenticate, si sono radunati a Tunisi, davanti alla sede dell’Assemblea nazionale Costituente: circa quindici giorni fa, per l’ennesima volta, Samir Dilou, portavoce del governo e Ministro della giustizia transizionale e dei diritti dell’Uomo, aveva annunciato la presa in carico delle cure per tutti i feriti, l’assunzione nella funzione pubblica per loro e per un membro di ciascuna delle famiglie che aveva perso un proprio caro durante la rivoluzione. Inoltre, aveva elencato tutta una serie di benefici e agevolazioni per venire incontro alle loro necessità. E tutto sarebbe stato fatto in poche ore! Solo parole, poiché ancora non è stata neppure stilata una lista definitiva degli aventi diritto.
Arrivo verso le 12.30: un tam tam su Facebook aveva fatto appello al sit in a seguito di una riunione fra associazioni delle vittime e semplici familiari cui si erano uniti, tramite video e dichiarazioni, militanti e blogger. Ciononostante, non ci sono molte persone, anche se alla spicciolata arrivano alcuni membri di Jabha Chaabiya (alleanza di partiti della gauche), femministe dell’Association des Femmes Démocrates, militanti dell’associazione Le Manifeste 20 Mars, le bloggeuses Henda Hendoud e Olfa Riahi, i giornalisti Ramzi Bettayeb e Kais Zriba di Nawaat. Poca solidarietà, dunque, da parte dei tunisini che pure devono a questi ragazzi con le stampelle o con gravi amputazioni la conquista di una pur fragile democrazia.
L’unico luogo dove è permesso manifestare è una delle entrate laterali del grande complesso del Bardo, giacché l’ingresso principale è sbarrato da un doppio filo spinato dietro il quale due pullman della polizia “difendono” i deputati. All’interno del recinto due carri armati dell’esercito.
La rabbia sale, forse anche per la delusione di trovare poco sostegno intorno a sé e alcuni ragazzi salgono sull’alta cancellata che li separa dalla sede dell’ANC. Io ascolto alcune storie intorno a me, come quella di Lofti J. di Tunisi, ferito da un proiettile alla caviglia alla Place Barcellone il 6 gennaio 2011. Nessun lavoro e quattro figli. O quella di Jamel M., ferito durante le mobilitazioni della Kasbah 1 il 28 gennaio 2011: ferite alla testa e al fondoschiena le cui cure, complicate, lo portano a viaggiare da un estremo all’altro della Tunisia, con le tessere che il governo gli ha fornito per le terapie, ma che fra 13 giorni scadranno e non verranno rinnovate. “Non vogliamo la carità, se avessimo un lavoro, potremmo pagarci le cure anche da soli!” Per accedere alle operazioni chirurgiche ha utilizzato il vecchio metodo della raccomandazione, probabilmente “oliando” la macchina burocratica tramite mazzette, come sotto Ben Alì.
Mohamed di Kasserine comincia a chiamare a gran voce i suoi compagni: “Andiamocene, qui non c’è nessuno che ci ascolta! La lotta la continueremo nelle nostre terre e chiederemo di esseri annessi all’Algeria, poiché il nostro paese non vuole sentire le nostre ragioni!”. È un momento forte, il furore è stampato sul viso paonazzo del giovane che a un certo punto stramazza al suolo svenuto. L’ambulanza arriverà solo dopo una mezz’ora abbondante, ma fortunatamente non sembra essere nulla di grave.
Le rivendicazioni del sit in sono scritte su un grande striscione giallo che i giovani hanno appeso a lato del cancello d’ingresso. Sono espresse in dieci punti dei quali i più importanti non fanno che riprendere le richieste che ormai da un anno e mezzo spingono i feriti e i familiari delle vittime a un infinito peregrinare fra tribunali, ministeri e sedi del governo: una lista definitiva delle vittime e dei feriti, procedure giudiziarie che ricostruiscano la catena delle responsabilità per i morti e i feriti della rivoluzione, la separazione del loro dossier da quello che riguarda l’amnistia generale (non vogliono essere considerati soggetti da “perdonare”!), che venga concretizzato l’impegno da parte del governo per l’assunzione nel pubblico impiego dei feriti e di un membro per ciascuna delle famiglie dei “martiri” e che sia dichiarato e rispettato il diritto alle cure mediche. Si esige inoltre che venga creata una struttura indipendente che si occupi dei loro dossier e che l’Assemblea Costituente si riunisca in una plenaria straordinaria dedicata all’esame dei loro casi, definendo in maniera chiara e inequivocabile le azioni da intraprendere e il relativo calendario.
Quali saranno questa volta le risposte del governo?
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