Patrizia Mancini
Alcuni hanno sacrificato le loro vite per la liberazione del loro paese da una dittatura feroce e soffocante, alcuni portano nei loro corpi i segni delle ferite da pallottola, altri ancora hanno subito amputazioni di un arto o sono inchiodati per sempre ad una sedia a rotelle. Sono le vittime della repressione delle sollevazioni popolari che vanno dal dicembre 2010 al gennaio 2011 e anche oltre. 338 morti e circa 2000 feriti. Ora dimenticati e nuovi reietti della società tunisina, eppure è grazie anche al loro coraggio se la democrazia, pur tra molteplici ambiguità e problemi, si va instaurando per la prima volta in Tunisia. Il nuovo governo provvisorio, insediatosi all’indomani delle elezioni, aveva deliberato alla fine del 2011 un risarcimento preliminare di ventimila dinari (circa 10.000 euro) per chi aveva perso un familiare e tremila dinari per i feriti ( circa 1.500 euro). I tribunali, al termine dei processi a carico dei responsabili , avrebbero in seguito dovuto definire l’ammontare della rimanente somma da indennizzare. Ciò, nella stragrande maggioranza dei casi, non è avvenuto, in quanto le sentenze tardano ancora ad arrivare o lasciano impuniti i livelli alti di responsabilità per le uccisioni. Il motivo principale di tale grave disfunzione sembra essere il fatto che i giudizi sono in mano ai tribunali militari che , secondo le leggi in vigore, sono gli unici abilitati a giudicare crimini commessi da poliziotti o membri dell’esercito. Ma madri, fratelli, figli non stanno chiedendo soldi, vogliono conoscere i nomi dei responsabili, vogliono conoscere le dinamiche di quelle tragiche giornate di repressione. E i feriti vogliono l’accesso a cure adeguate: molti di loro infatti lottano ancora con i postumi delle lesioni da arma da fuoco, soccorsi in rare occasioni da medici volontari in Francia. Alcuni tornano dal Qatar, dove il governo a maggioranza islamica li ha mandati a curarsi, in condizioni peggiori di quando sono partiti. A marzo 2012, cioè a poco più di un anno dal ferimento, è deceduto Mohamed Ben Romdhane, lasciando una moglie e tre figli.
E quando protestano, vengono ignorati o selvaggiamente caricati come il 3 aprile 2012 davanti al Ministero dei Diritti dell’uomo. Eppure, le loro famiglie continuano a fare sit in di fronte ai tribunali militari ogni volta che si tiene una sessione dei processi che riguardano le uccisioni e i ferimenti avvenuti durante le rivolte che cominciarono nella regione di Sidi Bou Zid, a Thala, Kasserine, fino ad arrivare alle più ricche città della costa, nei quartieri del Kram e nella stessa Tunisi. Entrano in aula con i ritratti delle vittime (“martiri” nell’accezione culturale dei tunisini), con le loro storie a fior di labbra, pronte per essere ripetute, il dolore rappreso sui volti e gli occhi asciutti. E spesso i soldati di guardia non vorrebbero neppure farli entrare, proprio a causa di quelle foto, a volte atroci, che disturbano, scioccano, turbano o, più insidiosamente , ricordano che anche dei militari sarebbero coinvolti nelle uccisioni. Come è successo per Ahmed Ouerghi, colpito in fronte da un proiettile mentre esultava a Tunisi per aver cacciato, insieme ad altri ragazzi del quartiere, le milizie di Ben Alì che seminavano il terrore. Il presidente della Repubblica Moncef Marzouki porta sempre una medaglietta sul petto con la foto di questo giovane, ma Fatma, sua madre, è furiosa perché le ha detto che è stato ucciso per errore. Come può essere possibile, data l’estrema precisione del tiro? E Noura, una giovane operaia di 22 anni, colpita da quattro proiettili, mentre era all’interno di un louage (taxi collettivo). E come per Amine Alkarami , la cui uccisione il padre, Hassan, mi racconta con dovizia di particolari: “Il 17 gennaio mio figlio, 28 anni, era alla finestra dell’Ospedale Regionale di Biserta quando è stato raggiunto all’orecchio sinistro da un proiettile ed è morto. Le successive perizie balistiche hanno accertato che l’arma utilizzata era proveniente da un fucile di massima precisione fornito di un mirino in grado di ingrandire sei volte l’obiettivo, usato dall’antiterrorismo per la liberazione degli ostaggi. Il proiettile che lo ha ucciso proveniva dal primo piano della scuola tecnica militare che si trova di fronte all’ospedale regionale” Proprio il caso di Amine fu portato alla ribalta, nell’agosto scorso, da una inchiesta del giornalista di Nawaat.org, Ramzi Bettaieb(http://nawaat.org/portail/2012/09/01/tunisia-the-case-of-amin-alkarami-reveals-the-identity-of-an-army-sniper), in cui Hassan Alkarami svela i vari tentativi di nascondere i risultati delle indagini. Lo stesso giornalista ha avuto accesso ad alcuni documenti che rivelano l’identità del tiratore scelto, il soldato n. 655 Mohamed Assabti Ben Misbah Ben Mohamed Mabrouk. Tali files rilevano inoltre innumerevoli contraddizioni nelle deposizioni del militare, ma ad oggi sono gli unici che finalmente portano all’identificazione di un responsabile appartenente all’esercito tunisino.
Vale la pena ricordare qui le conclusioni a cui era giunta il 4 maggio 2102 la “Commission d’investigation sur les dépassements et les violations” ,presieduta da Taofik Bouderbala: “non ci sono stati tiratori scelti e il Ministero degli Interni non era dotato di una struttura composta da snipers.” Tuttavia, basandosi sui riscontri balistici, lo stesso rapporto conclusivo non nega l’esistenza di tiratori di precisione. Anche qui, dunque, contraddizioni e una fretta, alquanto sospetta, di scagionare gli ex responsabili della sicurezza nazionale e lo stesso ex premier del 2° governo provvisorio Caid Essebsi che, a sua volta, aveva negato la presenza di tiratori scelti dell’esercito nella repressione a Kasserine e in altre regioni.
Vale la pena ricordare qui la vergognosa sentenza del tribunale militare del Kef che aveva in carico il processo per le vittime di Thala, Kasserine, Tajerouine e Kairouan (22 vittime e 602 feriti): il 13 giugno 2012 viene dichiarato il non luogo a procedere per una serie di altissimi funzionari di Ben Alì fra cui Ali Seriati, responsabile della sicurezza presidenziale, Mohamed Fria, ministro degli Interni, Moncef Laajimi, comandante dei BOP (brigate speciali di pronto intervento)
L’evidente mancanza di neutralità dei tribunali militari e l’ incapacità o non volontà del governo attuale di attuare una vera giustizia transizionale bloccano la democrazia e impediscono ai cittadini tunisini di riconciliarsi con il proprio passato recente. E’ urgente rivedere le procedure giudiziarie e riformare tutta la giustizia in modo che essa divenga indipendente dal potere esecutivo, in particolare dal Ministero degli Interni che anche dopo Ben Alì sembra essere più potente e influente che mai.
E soprattutto occorre dare una risposta alla domanda delle famiglie” Chi li ha uccisi?”
http://www.agoravox.it/Tunisia-le-famiglie-delle-vittime.html
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