Mario Sei
Era il 6 ottobre 1999 quando, davanti alla Commissione Stragi del Parlamento, Fulvio Martini, per sette anni a capo del SISMI, racconta con orgoglio, naturalmente senza spiegarne i dettagli, che il colpo di stato del 1987 per mettere al posto di Bourghiba il generale Zin Abidine Ben Ali fu soprattutto opera dei servizi segreti italiani e di due figure di spicco della recente storia d’Italia: Giulio Andreotti e Bettino Craxi. Non è certo un caso se quest’ultimo, in fuga dopo le condanne per corruzione e finanziamenti illeciti, ha poi scelto la Tunisia come luogo di residenza e se i suoi figli hanno continuato fino all’ultimo ad avere profondi intrecci con Ben Ali e il suo clan.
Dal 7 novembre 1987 fino al 14 gennaio scorso, il regime di Ben Ali fu considerato dalla stampa e dalle diplomazie occidentali un esempio da seguire, per la sua moderazione, per i successi economici e sociali ottenuti, per aver sconfitto il pericolo islamista, per essersi saputo presentare come meta ideale per turisti e tour operators. Era chiaro a tutti che si trattava, in realtà, di un regime ferocemente repressivo, con una censura che arrivava ad essere persino ridicola tanto era esagerata, con un tasso di disoccupazione altissimo, che nella fascia d’età tra i 15 e i 30 anni supera il 40%, e con un sistema di corruzione che avvolgeva l’economia nazionale, gestito in modo mafioso da due famiglie: quella di Ben Ali e quella, numerosa e vorace, della moglie, Leila Trabelsi.
Insieme, le due famiglie si mangiavano il 40% del PIL, oltre che appropriarsi di proprietà e ricchezze dello stato. Che fosse realmente così lo sapevano tutti: tutti i funzionari d’ambasciata, tutti gli imprenditori stranieri che necessariamente dovevano negoziare con la famiglia Trabelsi, tutte le agenzie di stampa e i vari giornalisti che per qualche ragione si erano occupati della Tunisia.
Tutti lo sapevano eppure, per anni, il regime venne variamente “premiato” da istituzioni internazionali: nel 2005 l’Onu scelse proprio Tunisi come sede per la seconda fase del Vertice Mondiale sulla società dell’informazione (VMSI); la Banca Mondiale, in riconoscimento del successo nella realizzazione di riforme strutturali in campo economico ed educativo, fu particolarmente generosa nell’elargire fondi ed aiuti; nel novembre 2008, durante una visita ufficiale, il direttore dell’FMI Dominique Strauss-Kahn, dichiarò alla stampa: “Prevedo una forte crescita per la Tunisia quest’anno. La politica economica adottata dal governo, è una politica sana e costituisce un modello da seguire per molti paesi emergenti.” E’ difficile credere che Strauss-Kahn non sapesse nulla delle rivolte scoppiate pochi mesi prima nel sud del paese, nel bacino minerario di Redeyef, in cui furono uccisi molti manifestanti e incarcerati a decine. La gente della regione, cioè una vasta zona del paese per cui non era nemmeno immaginabile alcuna “crescita economica”, protestava contro la corruzione e la disoccupazione cronica.
Altrettanto sorprendente è il dato statistico dell’ultimo rapporto di Transparency International sulla corruzione, in cui la Tunisia risultava meno corrotta di paesi europei quali Italia, Romania e Grecia.
Improvvisamente, il 14 gennaio tutto cambia. Verso le cinque del pomeriggio, dopo che la rivolta aveva travolto la capitale e che dalla mattina migliaia di manifestanti avevano cominciato a riempire le strade, Ben Ali salì su un aereo per lasciare definitivamente la Tunisia. Da quel momento, e come per magia, cade la maschera dell’ipocrisia: le diplomazie occidentali e la stampa mondiale condannano l’orribile dittatura e inneggiano alla rivoluzione del popolo tunisino. Qualche governo ha vissuto, certo, dei momenti d’imbarazzo, in particolare quello francese, troppo in ritardo nel prendere le distanze da Ben Ali, ma nel complesso non c’è stato nessuno scandalo per questo magico e improvviso apparire della verità.
Per qualche giorno, dopo quel sanguinoso 14 gennaio, i riflettori del mondo intero rimangono puntati sulla Tunisia; in poco tempo la rivoluzione del popolo tunisino, senza alcuna connotazione religiosa e definita dai media occidentali “rivoluzione dei gelsomini”, diventa ovunque un simbolo positivo. Ma mentre nei paesi occidentali si colora di toni romantici, per i popoli di altri regimi musulmani è un potente stimolo che da loro il coraggio per scendere nelle piazze e protestare contro gli stessi mali: repressione feroce, corruzione, povertà, assenze di futuro. Le strade di Giordania, Yemen, Algeria, si riempiono di manifestazioni che vengono regolarmente represse nel sangue. A poco più di due settimane dalla fuga di Ben Ali, è l’Egitto che esplode, riproducendo uno scenario molto simile, e anche in questo caso lo “stato moderato” di Mubarak diventa in poche ore un’oppressiva tirannia. La “Rivoluzione dei gelsomini” è quindi scomparsa dalla scena, l’attenzione è tutta rivolta verso l’Egitto, epicentro del mondo arabo. Ma la logica della storia è molto diversa da quella dell’industria mediatica dell’informazione, e così come nessuna “democrazia” può mai diventare una tirannia nel corso di 48 ore, nessuna rivoluzione può mai compiersi in pochi giorni.
In Tunisia la rivoluzione non è per nulla finita, anzi qualcuno comincia persino a chiedersi se sia mai cominciata, se sia trattato di una vera rivoluzione o dell’ennesimo rimpasto cosmetico, deciso a tavolino, per dittature diventate improvvisamente scomode.
Anche per chi vive la situazione dall’interno, non è facile trovare risposte definitive. Esistono, inoltre, realtà molto diverse tra le varie province. Se per certi aspetti si ha la sensazione d’essere nella totale anarchia, ciò che è naturale in una rivoluzione, per altri è come se il “passaggio dei poteri” si sia svolto senza traumi. Le misure da stato d’emergenza sono state perlopiù sospese, a parte un coprifuoco ridotto da mezzanotte alle quattro e la presenza dei militari nelle strade, che è discreta nella capitale, più massiccia in altre città.
Tra la gente si respira un certo sentimento d’insicurezza, motivato dalla probabile presenza di milizie armate di Ben Ali ancora in circolazione e dall’aumento di furti e aggressioni; bisogna ricordare che la polizia è stata assente dal territorio per diversi giorni, a causa del momentaneo vuoto di potere e di scioperi organizzati dagli stessi poliziotti. A far aumentare la tensione contribuisce il rincorrersi di notizie e voci, spesso false o amplificate, che circolano attraverso il passaparola o internet. I giornali e le televisioni locali, a parte qualche cambio di direzione, sono gli stessi dell’ex-regime e oltre a non godere di particolare fiducia, sono stati finora perlopiù incapaci di raccontare in modo trasparente l’evolversi della situazione, difficile dire se per reali difficoltà o per una volontà precisa.
Da qualche giorno nella capitale la vita sembra aver ripreso il suo corso normale, ma in altre città del sud o del centro continuano a esserci rivolte e la polizia continua a uccidere. L’ultimo fatto di una certa gravità avvenuto a Tunisi è stato un attacco contro il ministero dell’interno da parte di un gruppo di poliziotti, probabili seguaci dell’ex rais, avvenuto lunedì 31 gennaio. I fatti sono stati raccontati in diretta sulla rete privata Hannibal TV per bocca dello stesso ministro degli interni, Farhat Rajhi, che nella stessa occasione ha anche annunciato il pensionamento anticipato di diversi alti responsabili della sicurezza nazionale e la nomina di nuovi governatori per le 24 province dello stato. Dalla lista dei 24 si è poi scoperto che 19 erano esponenti del’RCD (Rassemblement Constitutionnel Démocratique), il partito-stato del presidente, e che in molti casi si era trattato di un rimescolamento delle carte. Le proteste non sono mancate e i morti di sabato e domenica, a Le Kef o a Kebili, si devono in gran parte a questo. In diverse regioni continuano, in effetti, manifestazioni di protesta che chiedono le dimissioni dei governatori appena nominati.
Osservando l’evolversi delle cose, è ancora possibile parlare di rivoluzione? Prima di formulare una risposta ripercorriamo la cronologia degli eventi. Anche se in molte zone del paese la protesta e il malessere sociale duravano da tempo, la situazione comincia a precipitare il 17 dicembre, quando Mohamed Bouazizi, giovane laureato che per vivere faceva il venditore ambulante di frutta e al quale era stata sequestrata la merce, si da fuoco davanti al Municipio di Sidi Bouzid, piccola città del centro del paese. Nonostante la censura, le immagini circolano su facebook suscitando grande indignazione. Da quel momento si susseguono manifestazioni e scioperi in diverse città, sempre duramente represse. A Kasserine, tra l’8 e il 10 gennaio, le forze speciali del regime sparano sulla folla e uccidono una ventina di persone, spingendo alla rivolta l’intera nazione. Il 13 gennaio a Sfax, seconda città del paese, le strade si riempiono di manifestanti e il regime comincia a vacillare: il generale capo di Stato Maggiore Rachid Ammar, che aveva rifiutato l’ordine di sparare sulla folla, e il ministro degli esteri Kamel Morjane chiedono al presidente di partire per evitare il bagno di sangue. Ben Ali rifiuta e il giorno successivo la protesta arriva nella capitale: dalla mattina presto, davanti al ministero degli interni nel centrale viale Bourghiba, cominciano a radunarsi decine di migliaia di persone che chiedono le sue dimissioni. La situazione è grave e nel pomeriggio, convinto da Abdelaziz Ben Dhia, portavoce della presidenza, Ben Ali sale su un aereo, sicuro di tornare appena ristabilito l’ordine. Ben Dhia gli comunica il piano diabolico orchestrato insieme ad Ali Seriati, capo della guardia presidenziale: seminare caos e terrore con attentati imputati agli islamisti, mobilitare tutti gli aderenti del partito (RCD) per grandi manifestazioni che chiedono il ritorno del presidente, il quale sarebbe quindi potuto rientrare come salvatore della patria. Inizialmente diretto a Malta, poi a Parigi, sarà alla fine l’Arabia Saudita, probabilmente su pressione americana, che accetterà di accogliere Ben Ali.
L’esercito, nel frattempo, decreta il coprifuoco e la chiusura dello spazio aereo; il primo ministro Mohamed Ghannouchi annuncia alla nazione l’assenza del presidente e ne assume temporaneamente i poteri. Durante la notte la rivolta prosegue nei quartieri della capitale e le forze di polizia continuano a reprimere e uccidere. La mattina seguente, il generale Ammar dichiara che l’esercito si porta garante della costituzione, l’assenza temporanea del presidente si rivela essere un vero vuoto di potere e il Consiglio Costituzionale, nel rispetto della Costituzione, proclama il presidente del parlamento, Fouad M’bazaa, presidente della Repubblica ad interim. Il piano di Seriati, arrestato pochi giorni dopo vicino al confine libico, fallisce, ma i suoi sgherri continueranno per giorni a seminare il terrore.
M’bazaa incarica Ghannouchi di formare un nuovo governo a cui aderiscono, in un primo momento, sia i due partiti della finta opposizione già presenti in parlamento durante il regime Ben Ali, il PDP (Partito democratico progressista) e Ettajdid (Rinascita), sia l’UGTT (l’Union générale tunisienne du travail), l’unica e potente centrale sindacale, e il FDTL (Forum Démocratique pour le Travail et les Libertés). Nel governo proposto da Ghannouchi ci sono però molti esponenti dell’RCD, tra cui lo stesso ministro degli interni che aveva guidato la repressione dei giorni precedenti, e quindi l’UGTT e il FDTL ritirano il loro appoggio. Le proteste continuano, insieme alla repressione, in molte città: la gente chiede la dissoluzione del RCD e la formazione di un nuovo governo. Spesso in coordinazione con i militari, i cittadini organizzano comitati di quartiere per la propria sicurezza, soprattutto per difendersi da gruppi di miliziani armati e abbandonati a se stessi che seminano il terrore.
Nei giorni seguenti al 14 gennaio, con la polizia progressivamente sparita dalle strade, ci sono stati dei saccheggi, dei danni a luoghi pubblici, degli incendi di ville appartenute alle famiglie regnanti, ma non si è mai scatenata alcuna violenza da regolamento di conti, nessun linciaggio. La violenza, i proiettili e la morte sono sempre arrivati dai corpi di polizia o dalle milizie. Dopo il 14, seguono giorni di grande tensione e d’incertezza, interrotti domenica 23 gennaio da un evento che ha scosso la capitale: l’arrivo di migliaia di giovani, di donne e di uomini venuti da tutte le zone del paese, dalle zone minerarie del sud, Gafsa, Redeyef, dalle città più colpite dalla repressione, Kasserine, Thela. Sono decisi ad accamparsi nella piazza della Kasba, davanti all’edificio del primo ministro, per dire no al governo di Mohamed Ghannouchi e no all’RCD. Arrivano con le foto dei martiri, con le storie di umiliazione e repressione. Attorno alla piazza si crea una vera mobilitazione: molta gente della capitale si unisce alla loro protesta, in molti vengono solo per curiosità e dai racconti scoprono poi realtà terribili e sconosciute, l’evento attira moltissimi giornalisti stranieri. Oltre a molti sindacalisti di base, è anche l’ordine degli avvocati ad unirsi alla piazza nel chiedere un nuovo governo. La sera del 27 gennaio, sotto la pressione popolare e dopo lunghissimi negoziati, l’inamovibile capo del governo, Mohamed Ghannouchi, presenta una nuova lista di ministri che ha ottenuto l’accordo del sindacato e anche dell’influente ordine degli avvocati. La mattina seguente, il clima è teso nella piazza della Kasba: in molti sono decisi a continuare la protesta fino alle dimissioni del Primo Ministro Ghannouchi. Sindacalisti e avvocati discutono con la gente, cercando di convincerla ad accettare il compromesso e comunicando anche che l’esercito, presente fin dall’inizio con posti di blocco e mezzi pesanti attorno alla piazza, concede loro 48 ore prima di sgomberare.
L’epilogo sarà tuttavia ben diverso. Verso le cinque del pomeriggio, un piccolo gruppo di giovani, sicuramente manovrati, s’interpone tra l’esercito e le forze di polizia, schierate in gran numero a centinaia di metri di distanza fin dalla sera prima, e comincia a lanciare sassi. A quel punto, inspegabilmente, l’esercito si ritira e le forze di polizia avanzano. Nella piazza, affollata di gente, si scatena il panico e lo stupore. In molti, con le fotografie in mano dei fratelli, i figli o gli amici trucidati dai proiettili, raccolgono delle pietre per difendersi, ma pochi minuti dopo una pioggia fittissima di lacrimogeni cade sulla piazza, completamente accerchiata dalla polizia. Tutti scappano verso le stradine della Medina, unica via di fuga, e si riuniscono all’uscita, nel viale Bourghiba, dove tentano una manifestazione improvvisata. Ad attenderli ci sono però altre schiere di poliziotti che reprimono duramente i manifestanti, inseguendoli nei portoni delle case o nei bar dove si erano rifugiati. Il ministro degli interni negherà, in seguito, di aver ordinato lo sgombero e annuncerà l’apertura di un’inchiesta sui fatti di quel venerdì 28 gennaio.
Il triste e paradossale epilogo della Kasba – è quantomeno strano il comportamento di un governo che inneggia la rivoluzione del popolo e che, nello stesso tempo, reprime violentemente coloro che ne sono gli eroi – è stato anche l’epilogo della mobilitazione nella capitale e, per certi aspetti, l’epilogo della rivoluzione. Continuano rivolte e manifestazioni in diverse parti del paese, a Tunisi, nonostante proteste isolate e scioperi settoriali per rivendicazioni salariali o contrattuali, la vita, nel complesso, è tornata alla normalità. L’attuale governo, più che mostrare une reale volontà di rompere con il sistema del vecchio regime, sembra reagire alle richieste che provengono dalla piazza, con l’intenzione di conservare, più che possibile, lo status quo e, per il momento, mantiene il controllo della situazione.
Benché le cose siano ancora in evoluzione, è comunque possibile tentare un bilancio. Dopo un mese di rivolte e 234 morti, secondo l’ultima stima ufficiale, la rivoluzione in Tunisia ha segnato un momento di radicale rottura con l’ordine esistente? Se ci situiamo a livello politico ed economico, la risposta è perlopiù negativa. Esistono, certo, dei segnali di trasformazione: un’apparente, ma ancora ambigua, libertà d’espressione e la soppressione della censura, la legalizzazione di partiti che durante il regime di Ben Ali erano costretti alla clandestinità, il rientro di esuli politici, tra cui Rachid Ghannouchi, leader del partito a orientamento islamico Nadha. Queste trasformazioni sembrano però integrarsi nel quadro di un orientamento politico ed economico sostanzialmente immutato. Le coercizioni e i limiti dovuti all’attuale sistema globale non permettono, d’altra parte, di pensare ad uno sviluppo veramente alternativo.
Completamente diversa è la risposta se invece ci situiamo sul piano simbolico, emotivo, della coscienza collettiva, non solo tunisina ma mondiale. Su questo piano, il termine rivoluzione è pienamente giustificato e il 14 gennaio deve essere considerata una data storica. Il pianto liberatorio di Habib Ajroud, 54 anni e docente universitario, che la mattina di quel venerdi 14 manifestava davanti al ministero degli interni, o di Sonia Moussa, 33 anni e infermiera, nella piazza della Kasba, esprime la portata enorme di quanto è successo in Tunisia. Entrambi, insieme a migliaia di altre persone, milioni, se contiamo anche coloro che sono riuniti in piazza Tahrir in questi giorni, hanno pianto perché sentivano riemergere dal profondo una dignità repressa per decenni. Entrambi, raccontavano, potevano per la prima volta nella loro vita varcare spazi pubblici fino allora proibiti, e liberare una parola troppo a lungo taciuta. La rivoluzione tunisina ha infranto il muro dell’impotenza che paralizzava le coscienze e quale che sia lo sviluppo delle cose, niente tornerà più come prima.
Il 14 gennaio è una data storica di portata mondiale perché in un attimo ha dissolto la maschera dell’ipocrisia delle diplomazie occidentali, ha mostrato quanto sia falsa l’idea che nei paesi musulmani l’alternativa è tra dittatura o fondamentalismo. Nessuna agenzia di marketing riuscirà mai a trasformare i martiri in Tunisia o in Egitto in fanatici islamisti. Si tratta di giovani, donne e uomini morti per la loro dignità. Tutti lo vedono e lo capiscono. La loro morte fa vedere con evidenza assoluta, e nella storia sono rari momenti come questi, la separazione tra “buoni” e “cattivi”.
La rivolta in Tunisia è stata una rivoluzione perché ha mostrato, contro le false previsioni, che la storia non è finita. Parafrasando Marx, potremmo dire che in questo inizio di terzo millennio uno spettro si aggira nel mondo. Lo spettro della rivolta. Le rivolte in Tunisia e in Egitto hanno un carattere spontaneo e non contengono progetti alternativi di società, ma esse mostrano che l’attuale sistema mondo è insostenibile e che se ci scandalizziamo per le immense fortune di Ben Ali o Mubarak, è giunto il momento di scandalizzarci per la spropositata ricchezza dell’oligarchia capitalistica che detiene le redini del mondo.
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