Patrizia Mancini
Due anni di prigione senza attenuanti per “oltraggio alla polizia” e “complotto finalizzato alla violenza contro pubblici ufficiali”: questa la condanna inflitta il 13 giugno 2013 dal tribunale di Ben Arous a Alaa Eddine Yacoub, alias Weld 15, giovane rappeur tunisino. La sua colpa? Aver insultato la polizia nella clip “Bulicia Kleb” (I poliziotti sono dei cani). Il ragazzo conosce a fondo l’argomento, avendo già trascorso nel 2012 nove mesi di carcere per uno spinello ed è proprio dei maltrattamenti subiti che parla la sua canzone. Weld 15 rappresenta quella parte indocile della gioventù tunisina che non agisce la violenza, ma sublima la propria rabbia nella musica. E chiede rispetto da parte delle forze dell’ordine nei confronti dei cittadini, perché solo così potranno pretenderne a loro volta.
Al momento del verdetto amici e colleghi del rappeur hanno protestato e gridato contro il giudice e la polizia, incurante di dare una paradossale conferma alle accuse di Weld 15, ha cacciato i giovani fuori dall’aula e uno di loro ha spruzzato una sostanza urticante in dotazione (vedi video). Suona beffardo e certamente tardivo il comunicato stampa con il quale il ministro della cultura, l’indipendente Medhi Mabrouk, difende la libertà d’espressione e si rammarica della dura sentenza inflitta all’artista.
Nei giornali italiani? Finora neppure un rigo.
In Italia invece sicuramente è nota la vicenda di Amina Sboui, la militante tunisina delle Femen (anche se temiamo che il motivo della sua fama sia la modalità della protesta, piuttosto che le sue ragioni) che ora è in carcere e rischia pene pesantissime per “associazione a delinquere”, “profanazione di cimitero”,”attentato al pudore” e via elencando. Ma spentisi i riflettori sull’happening, anche in Tunisia pochi ne parlano. Ancora sanzioni sproporzionate per un gesto pacifico, non violento e la crudeltà ulteriore di non farle passare l’esame del bac, mettendo a repentaglio le sue possibilità future.
Proprio in questi giorni la Francia ha concesso l’asilo politico a Ghazi Mejri, condannato nel 2012 in Tunisia a 7 anni e mezzo di prigione per attentato alla morale: aveva pubblicato un libro satirico, “L’illusione dell’Islam”, con caricature del Profeta. Il suo amico Jeber Mejri non è riuscito a fuggire dal paese e si trova in carcere dove è stato spesso picchiato da altri detenuti a causa del suo ateismo dichiarato.
Inevitabile il confronto con le pene inflitte ai partecipanti all’assalto dell’Ambasciata USA del 14 settembre 2012: due anni con beneficio della condizionale e messa in libertà.
Ho citato solo alcuni casi fra i più eclatanti, ma potrei continuare a lungo, dato che un’impressionante serie di disfunzioni giudiziarie si è verificata nell’ultimo periodo in Tunisia, propria a ridosso dell’inizio del dibattito sull’ultima bozza costituzionale che, per la prima volta nella storia del paese, esplicita il diritto alla libertà d’espressione. E’ come se i giudici vivessero in un mondo a parte, in un paese parallelo dove nulla è successo un certo 14 gennaio 2011, un paese dove ancora imperano le leggi del dittatore e un servilismo mentale nei confronti dell’esecutivo che li spinge ad emettere sentenze selettive in funzione di chi si trova alla sbarra. Una schizofrenia tanto più inquietante quando si pensa alla lentezza con cui si svolgono i processi contro i cacicchi dell’ancien regime.
Un corpo a sé, impermeabile alle trasformazioni, seppur embrionali, che stanno attraversando la società tunisina, sprezzante nei confronti di quella gioventù che tanto ha dato alla rivoluzione, indifferente, lo ripeto, persino agli esito del dibattito costituzionale. Inoltre, come osserva Gilbert Naccache: “ le organizzazioni professionali si battono per l’indipendenza della giustizia con l’unico risultato, al momento, di promesse vaghe per l’avvenire. Ma queste stesse organizzazioni, bisogna dirlo, non hanno aperto bocca per protestare contro la maniera in cui loro colleghi hanno emesso sentenze contrarie allo spirito della rivoluzione, forse per una sorta di rispetto corporativo nei confronti di colleghi che hanno imperversato molto prima della rivoluzione”
E’ la forza, o meglio, la debolezza dell’abitudine? La dittatura nella testa? La corruzione sicuramente ancora presente? La mancanza di ricambio generazionale fra i ranghi dei giudici? L’influenza del governo della Troika? Forse è l’insieme di questi fattori che può fornire una chiave di lettura sufficientemente esauriente per comprendere i motivi della serie di inique sentenze emesse in questo periodo e anche in precedenza.
L’altro corpo separato dal vivo della società e che appare in qualche modo influenzare le dinamiche processuali è quello della polizia. Appare ancora lontano (ma è possibile?) il sogno di una polizia repubblicana, al servizio dei cittadini e rispettosa dei principi basilari dei diritti dell’uomo. Dopo l’abbaglio del Forum Sociale Mondiale in cui poliziotti sorridenti, gentili ed educati hanno fatto la loro magica comparsa, già la sera stessa della fine dell’evento gli stessi fermavano brutalmente e con banali pretesti militanti tunisini, quasi a dire “La festa è finita, rientrate nei ranghi”.
L’uso eccessivo della forza negli disordini del 19 maggio scorso a Cité Ettadamen e Cité Elentilaka contro alcuni gruppi salafiti ha provocato la morte del ventisettenne Moez Dahmeni, colpito da un proiettile. I genitori del giovane negano la sua appartenenza al gruppo estremista, a loro si è associato il giornalista free lance Ramzi Bettaieb che su Facebook riporta testimonianze e documentazione sui dettagli dell’azione della polizia.
Tale intervento ha sollevato cori di giubilo in molti cosiddetti progressisti tunisini, incapaci di scorgere in questa azione le avvisaglie di un ritorno in grande stile ai vecchi metodi e il pericolo di un allargamento indiscriminato della repressione. Certamente non si può negare un certo attivismo violento dell’ala salafita, ma la reazione della polizia nei poverissimi quartieri della banlieue tunisina è stato per i cittadini più attenti un deja vu amaro del quale avrebbero voluto fare volentieri a meno. Eppure la nomina del giudice Lofti Ben Jeddou a ministro degli Interni, a seguito del rimpasto dello scorso marzo, aveva fatto sperare in un cambiamento della situazione. Ben Jeddou è infatti il giudice che ha fatto luce sulle uccisioni avvenute a Thala e a Kasserine sulle terribili giornate dal’ 8 al 12 gennaio 2011 in cui 21 persone furono uccise e circa 400 ferite nella repressione della rivolte contro Ben Alì. E’ colui il quale aveva parlato di riforme e cambiamenti nel mistero per arrivare alla costituzione di un apparato securitario neutro e repubblicano. E l’annuncio, da parte sua, di una commissione d’inchiesta sui fatti del 19 maggio 2013, non può che far amaramente sorridere di fronte agli esiti nulli di tutte le altre commissioni istituite finora a seguito di vicende precedenti (la violenta repressione del 9 aprile 2012 all’Avenue Bourghiba, per citarne solo una) e di fronte alla poca trasparenza riguardo le investigazioni sull’uccisione di Chokri Belaid.
Il sistema giudiziario e quello poliziesco tunisini dunque si avvitano su se stessi ricreando ingiustizia e repressione, in contraddizione con lo spirito che ha ispirato la rivoluzione tunisina. Certo è che soltanto una mobilitazione continua, coerente e massiccia potrà permettere di arrivare ad una giustizia degna di questo nome. Finora ogni conquista post rivoluzionaria è avvenuta in questo modo.
Concludo con le recenti parole del politologo Chokri Hmed a proposito della nuova carta costituzionale:
“...è importante sottolineare un punto cruciale: senza istituzioni e dispositivi annessi, senza contro-poteri forti e garantiti, senza procedure fissate che permettano di istituzionalizzare e organizzare il dissenso e il conflitto, questo testo…rischia di rimanere lettera morta o, in tutti i casi, incapace da solo di garantire la democrazia politica e sociale alla quale aspirano tanti tunisini e tante tunisine”
(L’intero articolo di Chokri Hmed può essere letto qui in francese)
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