FabioVicini
Lo spirito di #occupygezi e la complicata ambizione di superare le divisioni della società turca
“È morto un albero, si è svegliato un paese”
Ad oggi, a poco più di una settimana dallo sgombero di Gezi Parkı e a tre settimane dallo scoppio della rivolta, diversi gruppi di persone si stanno incontrando in alcuni parchi della città, diversi da Gezi, dove si organizzano in assemblee popolari e sperimentano metodi di democrazia diretta. Ed è proprio a questo che bisogna guardare per cercare di capire lo spirito che è nato al parco Gezi, quello che è stato e quello che può essere, in potenza, per lo sviluppo di una rinnovata società civile in Turchia.
Tutto era cominciato la sera di venerdì 31 Maggio, quando le forze di polizia municipale avevano dato fuoco alle tende di circa una cinquantina di attivisti che da inizio settimana avevano occupato il parco. Gli attivisti manifestavano contro il progetto comunale che prevede, oltre al consistente ampliamento di piazza Taksim (il centro simbolico di Istanbul e della Turchia), l’abbattimento di Gezi per ricostruire una caserma militare in stile ottomano, Topçu Kışlası, nella quale allocare un centro commerciale ed alcuni appartamenti di lusso. Dopo che per tutta la notte la polizia si era opposta al tentativo di un crescente numero di manifestanti di rimpossessarsi di Gezi Parkı facendo un uso sproporzionato della forza – mezzi TOMA (camion con idranti) e gas lacrimogeni ed urticanti sparati in mezzo alla folla –, nel primo pomeriggio di sabato 1 Giugno, i manifestanti erano riusciti a sfondare, rioccupare il parcoe prendere il controllo dell’intera zona circostante piazza Taksim.
Sono molteplici le motivazioni che quella notte hanno spinto una moltitudine di individui a partecipare agli scontri con la polizia e poi, letteralmente, affollare piazza Taksim e Gezi Parkı nelle due settimane di occupazione. Innanzitutto, ed alla base dell’occupazione del parco, c’era l’opposizione da parte di intellettuali, architetti, artisti e gruppi della sinistra ai progetti di rinnovamento urbano, che hanno determinato l’esproprio di centinaia di famiglie da alcuni importanti quartieri della città (uno su tutti Tarlabaşı, proprio a ridosso di Taksim) per costruirvi appartamenti e centri commerciali (AVM) destinati alle classi abbienti. Al fine di dare spazio a questi nuovi luoghi del consumo non si è esitato a chiudere posti simbolici, come il famoso cinema Emek e la storica pasticceria İnce, per far posto all’ennesimo AVM lungo strada dell’Indipendenza (Istiklal caddesi), la principale via della città che sale fino a Taksim.
Tuttavia quello che ha portato ad una partecipazione collettiva alle proteste è stato un senso condiviso di frustrazione di una fetta importante della società turca per quella che viene percepita come una deriva autoritaria da parte del governo del partito di ispirazione islamica della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), guidato da Recep Tayyip Erdoğan. Dalla fine del 2010 si sono infatti susseguite una serie di intimidazioni, arresti e processi a giornalisti, attivisti e studenti critici nei confronti del governo e vicini ai gruppi nazionalisti, laico kemalisti (che si rifanno ai principi del fondatore della repubblica, Mustafa Kemal Atatürk), o alla sinistra legata al movimento curdo del PKK che si sono diffusi grazie ad una blanda e facilmente abusabile legislazione antiterrorismo. A questo bisogna aggiungere i tentativi del governo di intervenire sempre di più nella regolamentazione degli stili e costumi della popolazione, introducendo leggi che limitano l’uso delle bevande alcooliche, oppure inibiscono l’espressione in pubblico di effusioni amorose, come è avvenuto nella metropolitana di Ankara, dove sono apparsi precisi avvisi che vietavano alle coppie di baciarsi.
Il fatto che durante i primi giorni della protesta le principali emittenti televisive turche avessero completamente ignorato le manifestazioni, insieme con la dura repressione da parte della polizia e gli attacchi verbali del primo ministro – il quale aveva derubricato la protesta ad atti di gruppi terroristici e di “vandali” (çapulcu) – non hanno fatto altro che rafforzare il senso di oppressione, impotenza e rabbia verso le politiche ed il linguaggio del governo. Si è così innescata una spirale di partecipazione alla protesta, alimentata dai social media che ha portato un crescente numero di persone a riversarsi in piazza Taksim, ma anche in altri quartieri della città quali Beşiktaş e Gazi. Da qui le manifestazioni si sono poi diffuse ad Ankara, Izmir, Mersin alla voce di “Ogni luogo è Taksim, in ogni luogo resistenza”.
Detto questo, cos’è stata occupyGezi? Una espressione di rivolta ad un governo percepito come autoritario al pari delle cosiddette Primavere Arabe? Un risveglio della Turchia laica contro le politiche moralizzanti del governo? Un movimento ambientalista? Tutta e nessuna di queste, ed è soprattutto a quello che è progressivamente diventata e sta diventando che bisogna guardare. Infatti, al contrario di una stampa occidentale ansiosa di cavalcare l’onda dell’idea, dalle forti connotazioni orientalistiche, di un popolo che si ribella all’ennesimo dittatore del mondo musulmano, la protesta di Gezi Parkı non ha mai veramente ambito alla caduta del governo di Recep Tayyip Erdoğan. Quest’ultimo ed il suo partito guidano saldamente il paese dal 2002 e alle ultime elezioni politiche del 2011 hanno democraticamente ottenuto quasi il 50% dei voti. Inoltre, i principali organizzatori della protesta erano e sono ben consapevoli del fatto che al momento non c’è una vera alternativa politica all’AKP. Il principale partito di opposizione, il CHP (Partito Repubblicano del Popolo) ha storicamente dimostrato un’incapacità cronica di liberarsi dalla sua visione essenzialmente conservatrice, contraria al riconoscimento del popolo curdo ed ancora carica di anti-islamismo, e fornire un discorso nuovo in grado di rappresentare le istanze progressiste di una società turca in continua evoluzione.
Anche per questa ragione, il movimento di occupyGezi è stato ben attento a non farsi ricollocare nei vecchi schemi bipolari di laici-moderni-borghesi versus Islamisti-retrogradi-tradizionalisti che hanno caratterizzato la vita della Repubblica turca fin dalla sua fondazione nel 1923. Ha infatti respinto ogni tentativo da parte del CHP di fare propria la protesta, ma anche a quello di Erdoğan di appiattire lo spirito della manifestazioni lungo questa opposizione. Qui non intendo negare il fatto che la protesta ha inizialmente catalizzato gruppi portatori di vecchie ideologie, così come il fatto che, al di là di un piccolo gruppo di “Musulmani Anticapitalisti”, la presenza delle classi conservatrici alla fine è stata minima se non quasi nulla nella protesta. Tuttavia sin dai primi giorni dell’occupazione i principali gruppi del collettivo di Gezi Parkı – in particolare la piattaforma “Solidarietà a Taksim” (Taksim Dayanışması) – hanno stigmatizzato ogni tentativo di dare una eccessiva connotazione politica al movimento, si sono dimostrati aperti alla partecipazione di musulmani praticanti e hanno risposto con ironia agli attacchi verbali del premier.
I vari gruppi sono stati capaci di trasformare Gezi Parkı in un interessante esperimento di convivenza fra una moltitudine di istanze della società civile turca, accogliendo diverse associazioni (di armeni, curdi, aleviti, femministe, gay, socialisti, comunisti, anarchici), NGO, gruppi studenteschi ecc., che hanno sfilato e si sono riuniti nel parco in un fresco senso di condivisione, confronto ed unione su quelli che sono percepiti come i pericoli di una democrazia turca che continua ad avere una propensione a forme autoritarie di gestione del potere ereditate dall’epoca kemalista. Un fatto che ha colpito gli osservatori è stata la grande partecipazione giovanile alla protesta: una nuova generazione di persone che, secondo alcuni sondaggi, per il 70% si dichiara non affiliata a gruppi partitici o organizzazioni.
Questo genere di esperimento è il vero e più promettente lascito delle proteste di Gezi Parkı. Un esperimento che continua in decine di parchi ad Istanbul ed in altre città della Turchia, dove ogni sera centinaia di persone si incontrano per discutere su come portare avanti l’esperienza di occupyGezi, ma anche di come diffonderne le idee al resto della più scettica popolazione. Sebbene questi gruppi siano certamente simpatetici con una visione laica della società e quindi molto più vicini al CHP che all’AKP, quello che colpisce è la loro apertura e voglia di costruire assieme una nuova visione sociale e politica che superi le contrapposizioni interne che hanno storicamente segmentato la società civile nel paese. Se da un lato, nel medio termine, uno degli obbiettivi sarà probabilmente quello di organizzarsi in una nuova forza partitica, dall’altro i rappresentanti di occupyGezi sembrano essere consapevoli del fatto che la vera resistenza che essi stessi invocano nei loro slogans può mantenere la sua vitalità solo se sarà in grado di dar voce ad un cambiamento culturale che porti un pensiero politico nuovo, fresco, che sia definitivamente in grado di superare le diffidenze di lungo corso fra “laici” e “religiosi”, estremisti di destra e di sinistra, nazionalisti turchi e curdi, che ancora ostacolano lo sviluppo di una forma matura di democrazia nel paese.
[FabioVicini è ricercatore post-doc presso il Consiglio della Ricerca Scientifica e Tecnologica di Turchia]
http://www.lavoroculturale.org/ne-neoliberalismo-ne-kemalismo/
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