Santiago Alba Rico
Domenica 21 settembre Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed e Skander Ben Abid, tutti giovani, tutti musicisti, cineasti, artisti ed attivisti, tutti dapprima impegnati nella lotta contro la dittatura di Ben Alì e ora per una vera democrazia, sono stati arrestati mentre lavoravano all’ultimo film di Nejib. L’accusa formale è quella di “consumo di sostanze illecite”, un reato che il codice penale vigente sanziona con pesantissime pene detentive. Curiosamente, proprio alla vigilia dell’arresto era stato rubato il disco rigido del computer di Nejib che conteneva tutto il materiale grezzo del suo documentario. Di cosa parlava questo documentario? Del “traffico della morte”, per utilizzare un’espressione di Dali Ghazi, ovvero del commercio di esseri umani nel Mediterraneo, una pratica che implica il coinvolgimento di almeno tre attori (il trafficante, il governo locale ed i paesi cosiddetti “di accoglienza”) e che ha provocato in questi ultimi anni la scomparsa in mare di decine, centinaia, forse migliaia di tunisini e subsahariani.
Quali che siano le vere ragioni di questo arresto, è indubbio che si stia utilizzando un reato “comune” per togliere dalla circolazione –come ai tempi del dittatore Ben Ali- dei giovani che disturbano per la loro sensibilità sociale e per il loro impegno politico. Questo è molto grave. Ma non meno grave, perché ne costituisce il presupposto, è il fatto che a due anni e mezzo dalle giornate rivoluzionarie del gennaio 2011 continui ad esistere una legge che permette simili abusi. Di fatto, a due anni e mezzo dalla rivoluzione, continuano ad esistere le stesse leggi, gli stessi giudici e la stessa polizia. Di chi sono strumento? Del Ministero dell’Interno e del partito Ennahda? Hanno un proprio progetto autonomo? Le fragili istituzioni tunisine stanno forse galleggiando su un’oscura macchia di petrolio che lambisce quasi tutti partiti politici e quasi tutte le strutture dello Stato?
Dopo l’assassinio, lo scorso 25 luglio, di Mohamed Brahmi, deputato del Fronte Popolare, la Tunisia sta sprofondando nel fango di una crisi che continua a paralizzare il Paese. Quell’attentato criminale che ha coinciso con il golpe militare in Egitto, ha proiettato sulla transizione tunisina l’ombra del deragliamento democratico: l’opposizione, attratta dal modello egiziano, ha cavalcato una collera giusta per fare un salto nel vuoto. Il Fronte Popolare che fino a quel momento si era mantenuto equidistante tra la destra islamista e la destra laica, ha ceduto al canto delle sirene dei fulul del vecchio regime e si è fusa con l’Unione per la Tunisia, la coalizione guidata dal “bourghibista” Caid Essebsi per formare –all’egiziana- il Fronte di Salvezza Nazionale, con il seguente programma di minima: scioglimento del Governo e dell’Assemblea Costituente, formazione di un gabinetto e di un consiglio di “esperti” che, rispettivamente, gestiscano la transizione e redigano una Costituzione “realmente democratica”. Un’intensa mobilitazione di piazza, parallela alle più o meno esplicite invocazioni all’intervento militare, e l’abbandono del Parlamento da parte di 70 deputati, hanno indotto ad agosto il Presidente del Parlamento stesso, Ben Jaafar, a sospendere le sedute dell’Assemblea. Da allora il Paese si trova invischiato in una specie di gelatina spessa e tremolante, col rischio che qualsiasi nuovo colpo possa far crollare questo fragile ed incoraggiante processo.
Al posto dell’esercito, in Tunisia è intervenuto il sindacato UGTT, uno Stato nello Stato, più pragmatico che ideologico, per proporre una soluzione che comporti il mantenimento dell’Assemblea Costituente e l’affidamento della gestione del governo, fino alle nuove elezioni, ad un gruppo di “indipendenti”: vale a dire, all’opposizione. Si è così formato un “quartetto” di mediazione del quale, insieme al sindacato, fa parte l’UTICA (la Confindustria tunisina), l’Ordine degli Avvocati e la Lega per i Diritti dell’Uomo. Il Fronte Nazionale di Salvezza, con un piede nella ragione e l’altro nel vuoto, lavora apertamente con il “quartetto” per far cadere il governo. La “troika” al potere, con gli islamisti di Ennahda in testa, ha accettato il dialogo, ma ha posto delle condizioni alla proposta: è disposta a lasciare il governo prima delle elezioni, ma non prima dell’approvazione della Costituzione, la cui bozza finale era già pronta per essere discussa il 25 luglio scorso.
Il punto è questo: governo e opposizione si contendono i posti di chi dovrà preparare le elezioni, ovvero si contendono un apparato statale controllato da non si sa chi e funzionale a non si sa quali interessi. Nel frattempo, senza Costituzione, senza una “legge per la giustizia transizionale”, senza una pulizia dell’apparato giudiziario e della polizia, si mantiene di fatto la legalità della dittatura, mentre i mezzi d’informazione, in mano all’opposizione, demonizzano un governo che ha già fatto abbastanza per screditarsi da solo.
Il precedente dell’Egitto avrebbe dovuto servire comunque, almeno alla sinistra, a rendersi conto di quanto fosse rischioso farsi prendere dall’ossessione dell’onnipotenza degli islamici e della loro presunta appropriazione di tutte le leve dello Stato.
Allo stallo istituzionale che rende possibile arrestare attivisti ed artisti impegnati perché hanno fumato uno spinello, si aggiunge la devastante situazione economica del Paese. Ebbene: la sinistra, attraverso il “quartetto” mediatore e lo stesso Fronte di Salvezza, ha accettato non solo di prolungare la legittimità della dittatura, utile tanto alla destra islamica quanto alla destra laica, ma anche di abdicare in qualche modo al proprio programma sociale ed economico. L’UTICA, la rappresentanza imprenditoriale tunisina, membro del “quartetto” mediatore nonché componente fondamentale dell’Unione per la Tunisia –la coalizione di destra alla quale si è associato il Fronte Popolare al fine di far cadere il governo- ha recentemente divulgato le proprie proposte per uscire dalla crisi economica. Tra queste menzioniamo: la criminalizzazione di ogni iniziativa che metta in pericolo il “libero commercio” o che “perturbi la vita economica”; il ritorno al sistema del subappalto e del lavoro precario; il congelamento dei salari; la condanna degli scioperi e delle proteste che possano insidiare la prosperità delle imprese; il finanziamento pubblico alle società private minacciate dalla crisi; il perseguimento di ogni forma di commercio informale.
E’ da notare che Ennahda, partito islamista neoliberale, condividerebbe volentieri questo programma con l’UTICA, ma proprio per questo sarebbe auspicabile che il Fronte Popolare non sacrificasse le sue battaglie sociali ai virtuali vantaggi di una lotta politica che indebolisce le piccole conquiste democratiche della rivoluzione e dalla quale non può uscire che perdente.
In Tunisia, come in Spagna, si lotta per costruire un vero Stato di Diritto (pensiamo agli attivisti galiziani, condannati a pene deliranti) ed una vera democrazia che permetta sia di esprimere le proprie idee sia di gestire le proprie risorse. Nulla di questo sarà possibile finché sarà vigente, di fatto, la legalità della dittatura e l’economia della dittatura. Senza Costituzione, senza leggi, senza Assemblea, questo vuoto gelatinoso si riempie di degrado politico: tranelli, cospirazioni, negoziati nell’ombra, colpi occulti o palesi da parte di tutti quelli che, dentro e fuori dalla Tunisia, continuano a guardare all’Egitto, nonostante tutti i suoi orrori, come a una “vera democrazia” e una “vera rivoluzione”.
Traduzione dall’originale in spagnolo a cura di Giovanna Barile
Follow Us