A cura di Patrizia Mancini
Il 21 settembre 2013 alle 4 del mattino la polizia fa irruzione in un immobile nel quartiere Lafayette a Tunisi, arrestando Nejib Abidi, cineasta e militante, il regista Abdallah Yahia, il tecnico del suono Yahia Dridi, il compositore Slim Abida il pianista Mahmoud Ayad, il clarinettista Skander Ben Abid e due studentesse, Amal e Aya. Il motivo ufficiale: consumo di hashish (crimine previsto dalla legge 52/1992, art. 1, 2, 4 e 5, per il quale non esiste la condizionale!) accusa già utilizzata frequentemente sotto la dittatura di Ben Alì per imprigionare giovani dissidenti. Il giorno prima, rientrando a casa, Nejib aveva scoperto la sparizione di due dischi rigidi che contenevano il materiale grezzo del suo documentario in corso di montaggio, documentario che parla dei viaggi della speranza dei tunisini che all’indomani della rivoluzione hanno deciso di mettere in pratica la libertà appena conquistata, ma che hanno trovato la morte in mare o dei quali non si hanno più notizie. Il documentario-inchiesta svela le complicità fra la polizia e i passeurs, narra le lotte delle famiglie dei dispersi, ma rappresenta anche una denuncia delle politiche migratorie dei paesi europei e degli accordi segreti fra Berlusconi (vecchio amico di Ben Alì) e Beji Caid Essebsi, primo ministro all’epoca dei fatti, sulla pelle dei tunisini immigrati in Italia. Un argomento che sicuramente disturba entrambi i governi, italiano e tunisino. Il giorno dell’irruzione la polizia ha sequestrato illegalmente altro materiale registrato da Nejib e Abdallah Yahia. Attualmente Nejib e altri tre sono in libertà provvisoria, mentre Yahia Dridi, Abdallah Yahia, Slim Abida e Mahmoud Ayad si trovano ancora in detenzione preventiva nel carcere di Mornaguia.
Avevamo previsto di basare l’intervista a Nejib Abidi sulla situazione dei suoi compagni in carcere, la strategia della difesa e sulla legge contro il consumo di stupefacenti, ma gli ultimi tragici avvenimenti ci hanno costretto a chiedere al regista, ma soprattutto al militante di inquadrare la situazione dal suo punto di vista.
Il 23 ottobre 2013, a due anni esatti dalle prime elezioni libere in Tunisia avrebbe dovuto cominciare il “dialogo nazionale” fra i partiti dell’opposizione e il governo per cercare di uscire dalla crisi profonda in cui si trova la Tunisia dall’uccisione di Mohamed Brahmi il 25 luglio scorso. Mentre alcune migliaia di persone erano scese in piazza per fare pressione sul governo e chiederne le dimissioni, a Sidi Ali Ben Aoun nella regione di Sidi Bou Zid, in una imboscata venivano uccisi da un gruppo di terroristi jihadisti otto militari della Guardia Nazionale e qualche ora più tardi a Menzel Bourghiba, nella regione di Biserta,due poliziotti sono stati uccisi da un commando di terroristi che li ha attaccati all’entrata della città.
Puoi dirmi cosa pensi della situazione attuale in Tunisia?
Penso che ormai da molto tempo a livello politico si sia sviluppata una strategia del panico che è diventata lo strumento principale per governare il paese, un paese che vive una continua instabilità economica, sociale e politica, un paese che patisce la disfatta dei programmi politici dei partiti, sia al potere che all’opposizione. Credo che il terrorismo sia una strategia internazionale per gestire i conflitti e che ora venga esportata nel microcosmo tunisino per mettere la parola fine alle dinamiche delle lotte sociali, per controllare e limitare lo spazio pubblico. In altre parole, per installare definitivamente una nuova dittatura che utilizzerà gli stessi meccanismi di quella precedente. Dunque, quanto sta accadendo in Tunisia ora non è che l’allestimento e la realizzazione di questo piano del terrore, della paura e del panico che mira a liquidare tutto ciò che è attualmente in movimento e per svuotare le strade dalle rivendicazioni e dalle lotte. In realtà, niente di nuovo, non si tratta di nuova strategia: abbiamo già assistito a questo fenomeno in Algeria, in Egitto e ora in Siria. Ora siamo arrivati alla fase finale e operativa.
Ma chi c’è dietro questa strategia?
Sostanzialmente c’è il denaro, ci sono gruppi che hanno forti interessi economici che vogliono mantenere il controllo, gente che non ha alcun interesse a che ci sia un vero processo democratico perché ciò svelerebbe il livello di corruzione in cui sono coinvolti, loro e istituzioni del paese, quali la polizia, l’apparato giudiziario e i media. In realtà c’è una obiettiva convergenza di interessi fra parte dell’opposizione, il partito islamico e le grandi famiglie di imprenditori per spartirsi la torta. Ti posso fare dei nomi, uno su tutti quello di Slim Rihai (1) o di Chafik Jarraya (2), quest’ultimo in passato legato alla famiglia della moglie di Ben Alì e che ora intreccia diversi rapporti con islamici libici. E’ una situazione confusa, dai contorni incerti, ma sono certo che esista una rete mafiosa fra media, uomini d’affari e politici assetati di potere. In questa alleanza sono presenti anche personaggi dell’opposizione al governo.
Nel mese di agosto, quando era in corso il sit in del Bardo, è avvenuta la strage di soldati a Jabel Chaambi (3), mentre il 23 ottobre, durante le manifestazioni dell’opposizione, quelle di Sidi Ali Ben Aoun e di Menzel Bourghiba. Una coincidenza piuttosto singolare, direi. E in questo caso affermo chiaramente la responsabilità di Ennahda in quanto è stato il loro lassismo che ha reso permeabili le nostre frontiere al traffico d’armi e a un andirivieni di personaggi legati all’estremismo religioso e jihadista. Sono loro che hanno partecipato a incontri ufficiali con l’organizzazione salafita jihadista di Ansar al Sharia che adesso lo stesso governo ha dovuto solo dichiarare fuori legge. In particolare era Sadek Chorou, un pezzo grosso di Ennahda, che partecipava alle loro manifestazioni
E dato che la Tunisia non si è potuta dotare ancora di una polizia repubblicana e di un vero sistema democratico, andrà a finire che la repressione colpirà tutti in modo indiscriminato. Del resto è di ieri la lettera della Guardia nazionale che chiede al governo di applicare delle misure d’urgenza, tra le quali il divieto di manifestare durante questa fase. Credo che ci si stia avviando verso una nuova dittatura.
E i giovani che pensano di fare in questo caso?
Noi non abbiamo paura, continueremo a contrastare questo sistema con i nostri mezzi, il rap, il cinema, non ci arrenderemo. Forse riusciranno a far paura al cittadino tunisino medio, ma non ai giovani disoccupati e senza speranza nel futuro che proprio per questo motivo non hanno niente da perdere. Noi non abbiamo soldi o finanziamenti: perciò continueremo a fare quello che facciamo ogni giorno con la street art, le caricature, i graffiti sui muri, i film e i documentari. Sono queste le nostre uniche armi contro il potere. La lotta si intensificherà con gli stessi mezzi che abbiamo utilizzato da sempre. Non abbiamo alcuna fiducia in questo cosiddetto dialogo nazionale, un dialogo che si svolge fra partiti alla cui testa ci sono le stesse persone da almeno vent’anni, la maggior parte corrotte e che non sono riuscite a rinnovare le modalità di funzionamento dei loro apparati. Il “loro”dialogo nazionale produrrà solo dei pezzi di carta. Hanno sempre emarginato la gioventù tunisina, appartengono ad un’epoca passata, al medioevo della politica, tutti, senza eccezione, compresi quelli che ancora fanno riferimento all’Unione Sovietica. Non sono loro che produrranno un vero cambiamento.
Ultimamente ci sono stati moltissimi casi di soprusi polizieschi e processi contro i giovani. Cosa sta succedendo?
La gioventù tunisina è politicamente incontrollabile e rappresenta una vera spina nel fianco del potere e un problema per tutti i partiti. Nel momento in cui si stava creando una fitta rete nazionale di dialogo fra i collettivi di giovani delle varie regioni e si stessero discutendo nuove forme di organizzazione e di lotta, si è scatenata un’ondata di arresti attraverso tutto il paese, utilizzando sia il repertorio delle accuse classiche, ossia consumo di cannabis e ateismo, sia processando i giovani che hanno assalito i posti di polizia o le sedi dell’RCD(il partito di Ben Alì) durante la rivoluzione, giovani che hanno risposto con le pietre alla polizia che sparava in testa alle donne e agli uomini di Kasserine e Thala e di altre città. Ogni giorno abbiamo un appuntamento davanti a un tribunale per un processo contro qualche giovane, ogni giorno c’è un arresto, ma ciò sta creando una solidarietà enorme che credo potrà trasformarsi in una alternativa politica, quella dei giovani tunisini. (per una lista solo parziale degli arresti, dei processi e degli abusi polizieschi: http://www.dinamopress.it/news/a-dialogo-con-patrizia-mancini-redattrice-di-tunisie-in-redorg )
Dunque, non si tratta puramente di un problema di libertà di espressione?
Certo che no. Anche se indubbiamente c’è da difenderla e ampliarla, spesso vi sono degli intellettuali che cercano di ridurre tutto alla lotta per la libertà d’espressione. Non è affatto così: la lotta è per la vita stessa, una lotta condotta da gente che ha 30-35 anni e che non ha un lavoro, la stessa gente che era marginalizzata sotto Ben Alì e che continua ad esserlo oggi, è la lotta dei giovani che continuano a rischiare la vita o a morire nel Mediterraneo, la lotta di quanti muoiono letteralmente di fame e che sono scesi in strada contro Ben Alì. Dunque esiste un problema sociale, economico e umano ancora da affrontare.
Nella lettera che Azyz Amami ha scritto a Edgar Morin si parla di giovani “resistenti”, che hanno preso posizione e per questo vengono processati. Che ne pensi?
Sono completamente d’accordo, si tratta esattamente di questo, della resistenza che facciamo. Del resto nel mio discorso alla presentazione del film del mio compagno Abdallah Yahia, “Un retour” parlavo della colonizzazione della Tunisia “dall’interno”, di quello che abbiamo visto nei posti di polizia, nei tribunali e nelle prigioni, di un popolo che vuole continuare a sognare e al quale invece quotidianamente viene rubato qualcosa quando lavora, quando parla, quando pensa… E’ contro questa colonizzazione di tipo nuovo che dobbiamo fare resistenza, certamente non con le armi, ma con i mezzi di cui parlavo prima. Della resistenza contro il potere, contro il terrorismo in giacca e cravatta che del resto non esiste unicamente in Tunisia, ma in ogni parte del mondo.
Parliamo del vostro arresto e della situazione in cui vi si trova il vostro gruppo
Innanzitutto, vorrei sottolineare che il giorno dell’arresto avevo constatato la scomparsa di due dischi rigidi dal mio appartamento. Poi i poliziotti, durante l’irruzione, hanno preso dal mio armadio, in maniera del tutto illegale, altri due dischi rigidi che mi appartenevano e due che erano di Abdallah Yahia. I poliziotti hanno usato come scusa il fatto che, essendo entrati in casa di gente che stava”fumando”, i dischi potevano essere prove. Mi chiedo di che cosa, dato che si tratta dei rush del documentario? Per caso nel film c’è gente che si sta facendo una canna? No, invece sapevano perfettamente che il lavoro sul documentario stava per terminare , che avrebbe partecipato a festival, che stavo lavorando insieme a Abdallah Yahia (che ha già vinto due premi per il suo lavoro), sapevano che il produttore Nasreddine Shili (condannato a 5 mesi di carcere per aver tirato un uovo in testa al ministro della Cultura, Medhi Mabrouk) prima o poi sarebbe uscito. Quindi si trattava di bloccare nuovamente il nostro lavoro che evidentemente disturba molto nelle alte sfere dato l’argomento dei migranti dispersi e della lotta delle loro famiglie. Nel film parlo della complicità della polizia tunisina con i passeurs e della marina Militare Italiana che avrebbe sparato su alcuni barconi di migranti, denuncio non solo le politiche migratorie, le politiche tout court dei due paesi, Tunisia e Italia, svelando gli antichi legami fra Ben Alì e alcuni politici italiani.
Alla fine il potere non vuole giudicarci, solo arrestarci e infatti non c’è ancora una data per il processo! Io sono il libertà provvisoria perché ho dichiarato di non aver fumato e perché il test è risultato negativo, ma non posso lavorare, Non posso muovermi tranquillamente in città e sono sotto costante controllo, sebbene non ci siano prove contro di me.
E i miei amici Yahia, Abdallah e Slim sono ancora rinchiusi nella prigione di Mornaguia in condizioni terribili.
1) Slim Rihai, controverso uomo d’affari e fondatore del partito UPL (Union Patriotique Libre). Presiede anche il Club Africain (associazione sportiva tunisina). Durante la dittatura di Ben Alì ha vissuto in Libia. Spesso al centro di polemiche per mescolare affari e politica e per i suoi rapporti con Gheddafi.
2) Chafik Jarraya , anch’egli personaggio assai discusso che avrebbe rapporti stretti con Abdelkarim Belhaj, ex capo militare della città di Tripoli, accusato dall’IRVA (associazione per la verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi) di essere il mandante degli omicidi politici in Tunisia. Jarraya, in passato, ha tessuto relazioni d’affari con membri della famiglia di Leila Trabelsi, moglie di Ben Alì.
3)Il 29 luglio a Jebel Chaambi, al confine con l’Algeria, otto soldati sono stati uccisi in un assalto di terroristi
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