Stefano Pontiggia
Per qualcuno a Redeyef la festa è iniziata la sera di domenica 26 ottobre. La lista elettorale del sindacalista Adnan Hajji era già certa di aver raggiunto il suo obiettivo, consentendo al candidato indipendente di raggiungere il numero di voti necessari ad aprirgli le porte del prossimo Parlamento. I caroselli di auto e camioncini stracolmi di giovani e ragazzi, che avevano riempito un tempo quotidiano solitamente vuoto e disperante, erano comparsi nuovamente per esprimere la gioia di un risultato cittadino, 4000 voti su un totale di circa 7700, probabilmente al di là di ogni aspettativa ma comprensibile alla luce di almeno tre motivi: la stessa figura di Hajji, un simbolo del movimento sociale del 2008 e un fils du bled, un figlio del paese, ma anche il supporto della sua grande famille, fondamentale per la gestione della campagna elettorale, e la delusione per i tre anni di governo del partito islamico Ennahdha, acuita dal suo rifiuto di riconoscere ai ragazzi morti nelle rivolte di sei anni fa lo status di martiri della rivoluzione.
La domenica sera, mentre nel quartiere del souk risuonavano canti e suoni di tamburi, a poca distanza i membri del Front Populaire, seduti contro un muro, attendevano ansiosi i risultati definitivi commentando con un sostenuto distacco la perfomance del rivale: «Adnan è un amico», sentivo ripetere, «ma che vuoi che faccia in Parlamento? È da solo, senza partito. Vedremo come riuscirà a lavorare». Rispetto al 2011, quando in città i partiti ora riuniti nella formazione di sinistra avevano raccolto circa 1700 preferenze, questa volta l’asticella si è fermata attorno a quota 900, nonostante la spinta impressa dall’arrivo del leader Hamma Hammami, capace di riempire la sala delle feste “Les milles et une nuit.”
La campagna elettorale, imperniata soprattutto sul tema dello sviluppo locale e della necessità di reinvestire nel bacino minerario parte dei proventi della produzione dei fosfati, era trascorsa in un’atmosfera apparentemente tranquilla, il segno più evidente i caroselli dei vari partiti, ma non erano mancati i momenti di tensione. Alcuni giorni prima del voto, alle porte di Metlaoui alcuni militanti di Nidaa Tunes avevano accolto con pietre e bastoni il corteo del sindacalista Hajji che si approntava a riunire i suoi sostenitori nel meeting di chiusura. Alcune voci affermano che questa azione abbia rappresentato una risposta ad aggressioni subite dalla stessa Nidaa a Redeyef.
La giornata del voto, trascorsa senza incidenti, non ha potuto mascherare la sua eccezionalità nella sonnolenta attesa dei risultati: «Oggi è un giorno speciale», mi dice un amico, «anche il souk è rimasto chiuso». Eppure le dita di molti, soprattutto i giovani, sono rimaste pulite (1), segno che per la maggior parte della popolazione la politica è diventata un argomento di discussione, ma non ancora un campo reale di partecipazione.
Il risultato emerso dalle urne ha danneggiato in particolare il partito islamico Ennahdha che ha perso più della metà dei voti conquistati tre anni prima, in linea con il trend nazionale, ma in controtendenza rispetto al fenomeno di regionalizzazione del voto che l’ha visto vincere in molti Governatorati del sud, compresa l’area di Gafsa, mentre il destourien (2) Nidaa Tunes, emerso dalle urne come principale forza del paese, ha raccolto i suoi consensi principalmente a nord e sulla costa. A livello regionale, secondo i dati non definitivi pubblicati sul sito Internet dell’ISIE, il partito islamico ha conquistato il 27,16% dei voti, seguito da Nidaa Tounes con il 20,97%. Le due formazioni hanno conquistato due seggi a testa mentre i restanti tre sono stati spartiti tra il Front Populaire (5,44%), la lista indipendente guidata da Hajji (5.03%) e il partito Al Moubadra (4,44%).
Il giorno successivo alla domenica elettorale, mentre visitavo le sedi di alcuni partiti, ho percepito la sensazione di un possibile cambiamento. Le strade risuonavano ancora dei clacson dei vincitori, e davanti alla sede del partito Watad i membri del bureau del Front Populaire avevano ritrovato il sorriso: il loro capolista, Amar Amroussia, era stato eletto in Parlamento, si poteva festeggiare con colpi di fucile a salve come vogliono le abitudini locali. La mia vicinanza alle persone con cui vivo da sei mesi mi faceva pensare che finalmente il bacino minerario di Gafsa avrebbe avuto in Parlamento dei portavoce dotati del carisma e dell’autorità necessarie a regalare a quest’area un destino diverso fatto di investimenti locali, servizi più efficienti e migliori prospettive di lavoro, e tuttavia non posso ignorare le ambiguità di questa transizione.
Quale futuro attende il paese? Molto dipende da due passaggi cruciali, la formazione del governo e l’elezione del Presidente della Repubblica, e questo ha meno ha che fare con il problema della laicità che con la prossima politica economica. Il risultato del voto è stato accolto dai media nazionali e internazionali come una chiara vittoria del popolo tunisino contro due fantasmi: la paura, soprattutto la paura di cambiare in caso un governo non sia soddisfacente, e l’islamismo. In questi tre anni un’inedita battaglia politica si è polarizzata nello schema dialettico Islam-laicità, di cui ha approfittato soprattutto Nidaa Tounes sin dalla sua fondazione nel 2012 grazie a un discorso modernista e alla sua capacità di cavalcare le paure suscitate da un’escalation di atti terroristici e di violenza politica diffusa. Eppure, nonostante il discorso politico enfatizzi la questione religiosa, la quale afferisce alla definizione di un’identità collettiva e al progetto sociale ad essa collegato, occorre evitare le schematizzazioni eccessive: l’esperienza religiosa è spesso fondante anche per chi partecipa ad ambienti comunisti e modernisti, e una parte del voto a Nidaa arriva proprio dagli ambienti islamici.
La formazione del governo è dunque il primo rebus da risolvere. Con chi Nidaa Tounes cercherà un’alleanza? Il partito ha conquistato 84 dei 217 seggi disponibili, e alcune forze di minoranza come Afek Tounes, formazione liberale più volte accusata di intrattenere legami con membri del disciolto Rassemblement Constitutionel Democratique (RCD) di Ben Ali, e Al Moubadra, altro partito liberale formato da ex membri del RCD, potrebbero essere due interlocutori. Un’alleanza con Ennahdha sembra difficile dal momento che il partito pare orientato a non votare alle presidenziali il candidato di Nidaa Tounes, l’ottantottenne Beji Caïd Essebsi, al centro della vita politica tunisina da parecchi decenni e più volte ministro sotto Bourguiba nonché presidente del Parlamento durante il governo di Ben Ali.
L’elezione presidenziale è la seconda chiave di volta di questa lunga transizione, perché potrebbe riproporre una situazione di egemonia di un solo partito pur se in un quadro giuridico e costituzionale notevolmente cambiato. Il presidente della Repubblica, secondo la Costituzione, è contemporaneamente a capo della Corte Costituzionale, che come in Italia ha il compito di vigilare sull’operato di governo e Parlamento. La vittoria di Essebsi significherebbe una forte concentrazione del potere verso un solo partito, con la conseguenza che il controllato avrebbe un forte potere di influenzare la scelta del controllore.
Le nuvole più grosse, tuttavia, non sono rappresentate dall’islamismo, dal rischio del terrorismo e dalla sua ambigua gestione, né dalle evidenti continuità, a livello dei personaggi politici, tra l’antico regime e questa fase di transizione. Il vero punto di domanda è il futuro economico del paese, il cui Parlamento è composto in misura soverchiante da partiti ultra-liberali ben visti dalle grandi istituzioni internazionali e dalle potenze occidentali. Ci si aspetta una politica economica di tagli, privatizzazioni e accordi economici a vantaggio dei Paesi occidentali, come fu a partire dalla crisi della metà degli anni Ottanta e come avvenuto anche con i governi tecnici e politici successivi alle elezioni del 23 ottobre 2011.
Una parte del paese ha ancora voglia di giustizia, di processare i responsabili della morte di chi scese in strada tre anni fa e di rinnovare i centri nevralgici del vecchio regime, mai toccati in questi anni, come la polizia e il Ministero dell’Interno. Questa parte del paese, attenta a segnalare gli arresti dei «giovani della rivoluzione» e a denunciare gli abusi perpetrati in nome dell’applicazione della legge antiterrorismo e di quella antidroga, hanno disertato la giornata di voto e iniziano a riconoscere nelle strade i segni di un ritorno a una pratica di controllo che ricorda molto da vicino la polizia politica. Un’altra parte, maggioritaria, cerca solo una vita tranquilla, la possibilità di accedere a un benessere negato dalla corruzione e dall’inflazione crescente che ha eroso il potere di acquisto dei singoli e delle famiglie. Queste persone chiedono solo normalità, il diritto a vivere e lavorare nel luogo in cui si è nati, che «si rubi di meno», come mi ha detto mesi fa un ragazzo con cui condividevo la mia prima casa a Tunisi.
È in nome di queste richieste, che riecheggiano solo parzialmente lo slogan rivoluzionario «Pane, libertà e dignità nazionale», che il nuovo Parlamento è chiamato a legiferare. Sarà esso in grado di ricucire i rapporti con una popolazione che tanto velocemente si è disamorata del gioco politico? Riusciranno le istituzioni nello sforzo di sostenere e finalmente realizzare le richieste della rivoluzione? Serve ancora tempo prima di avere una risposta, e mentre si staccano dai muri i cartelloni elettorali e si ripiegano gli striscioni, lascio il sud tunisino pensando che forse dopo questa giornata nulla sarà più come prima, ma che un futuro roseo per la Tunisia ancora non è stato scritto.
(1) In Tunisia, a dimostrazione del voto e per impedire brogli, si usa far intingere l’indice nell’inchiostro
(2) Il partito Nidaa Tounes afferma di collocarsi nella continuità del Destour (Costituzione), il partito di Bourghiba.
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