Martedì scorso quattro poliziotti della Guardia Nazionale sono stati uccisi in un attacco terrorista a Boulaaba, nella provincia di Kasserine, vicino alla frontiera algerina: questo era l’attentato più recente verificatosi in Tunisia. Da due anni, in quella regione del Paese, si succedono scontri e imboscate intorno al monte Chaambi, in un conflitto endemico nel quale è difficile distinguere tra jihadismo e contrabbando di frontiera (armi, benzina, droga). L’attentato del 18 marzo nella capitale, invece, segna una svolta inquietante nell’attività di quei gruppi che, legati a Al Qaeda-Maghreb e Ansar Sharia, proiettano la propria ombra dai Paesi vicini. Innanzitutto perché, per la prima volta, si colpiscono in maniera indiscriminata civili e stranieri: finora le vittime di questi attacchi erano membri delle forze di sicurezza oppure, come nel caso di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi, personaggi politici scelti premeditatamente per il loro attivismo di sinistra. Diversamente dallo stillicidio di morti nella regione centro-occidentale, ignorati da tutti, la visibilità mediatica dell’attentato del Bardo -che improvvisamente inscrive la Tunisia nella trincea antiterrorista internazionale- costringe il governo a reagire in modo chiaro e fermo, cosa che senza dubbio è una delle aspettative dei terroristi.
In secondo luogo, se l’attentato del 18 marzo segna un “prima” e un “dopo” è anche per la natura del suo obiettivo, naturalmente molto appetibile per chiunque voglia tentare una destabilizzazione radicale: la sede del Parlamento –ultimo residuo delle rivoluzioni democratiche del 2011, fallite nel resto della regione- spalla a spalla con il Museo del Bardo che offre il più bel campionario di mosaici romani del mondo e rappresenta al tempo stesso la storia pre-islamica della Tunisia e il turismo, la maggior fonte di entrate di un Paese devastato dalla disoccupazione, dall’inflazione e dal debito estero.
Il Parlamento, sorpreso in piena seduta e –a quanto sembra- obiettivo principale dell’attacco, in quel momento stava discutendo una legge contro il terrorismo che molti di noi considerano liberticida e anticostituzionale. E’ ovvio che l’attacco di mercoledì è tutto tranne che un invito a sospendere la sua approvazione e applicazione.
E’ facile e certamente corretto collegare ancora una volta questo salto qualitativo del jihadismo armato in Tunisia al fallimento delle rivoluzioni del mondo arabo ed al ritorno, nella loro massima espressione, degli zombi del passato. Il rovesciamento di Gheddafi, con il suo incontrollato dilagare di armi in ogni direzione, e la radicalizzazione e internazionalizzazione della lotta contro il regime di Bachir Assad in Siria (divenuta oggi una guerra civile settaria) hanno aperto la porta a gruppi e correnti radicali che nel 2011 erano in evidente retrocessione e che, ancora minoritari, sarebbero scomparsi se si fossero minimamente realizzati i sogni di giustizia sociale, democrazia e dignità che i giovani reclamavano in quello stesso 2011. Quanti trovano paradossale che Al Qaeda e l’Isis siano arrivati nell’unico Paese dove quella rivoluzione ha trionfato, almeno sul piano formale, e che per di più ci siano tra i 1.500 ed i 3.000 tunisini che combattono in Siria (il maggior numero di volontari del mondo) non dovrebbero dimenticare che questa “formalità”, che ha lasciato fuori le rivendicazioni e le istanze dei più politicizzati e dei più sfavoriti, è al tempo stesso il punto in cui può rompersi la linea di galleggiamento della fragile transizione tunisina. E che questa “formalità” disturba molti, islamisti radicali come nostalgici attivi del vecchio regime.
La Tunisia, che ha resistito all’onda di ritorno della controrivoluzione violenta, vive in una crisi permanente da quando ha rovesciato il dittatore Ben Ali: una successione di crisi economiche e crisi politiche abilmente gestita, contro il desiderio di rottura, da apparati dello Stato profondo, i cui piani destabilizzatori sono stati regolarmente alimentati e giustificati da gruppi jihadisti che perseguono esattamente lo stesso risultato: impedire ad ogni costo la nascita di una vera democrazia. Se in Tunisia non si è verificata l’involuzione violenta subita dall’Egitto è stato solo perché gli USA e la UE hanno costretto questo Stato profondo a negoziare con il pragmatico e timoroso Rachid Ghannouchi, leader del partito islamista Ennahdha; ma non dimentichiamo che la vittoria, alle elezioni legislative e presidenziali, dell’anziano Caid Essebsi è stata ottenuta in nome della “sicurezza” e nel bel mezzo di un “allarme terroristico” che il partito vincitore ha maneggiato oscenamente a proprio favore. In un momento in cui la disoccupazione giovanile raggiunge i suoi livelli più drammatici, la repressione poliziesca contro settori di attivisti continua ad aumentare e si intravede una definitiva riabilitazione del vecchio regime in nome della “riconciliazione”, l’attentato di mercoledì scorso fornisce nuove armi ai nemici della democrazia e dello Stato di Diritto.
Come dopo la morte di Chokri Belaid, la Tunisia è in stato di shock. Le prime reazioni commuovono per la loro compostezza ed il loro orgoglioso nazionalismo, ma tanta è la paura e così forte la tentazione all’involuzione che il rischio di veder prevalere, grazie al panico securitario, un ambiente favorevole all’autoritarismo e contrario alle poche libertà individuali conquistate in questi anni, non è cosa da sottovalutare. Per questo alcuni blogger, attivisti e militanti, hanno diffuso appelli a scuotersi dalla paura, uscire in piazza e visitare il Museo del Bardo, mentre chiedono ai media di non dimenticare il resto dei problemi –quelli sociali ed economici, soprattutto- e al governo di non approfittare della tensione per far approvare leggi liberticide.
Il 24 marzo inizierà a Tunisi il Forum Sociale Mondiale, il cui comitato organizzatore ha condannato l’attentato (che cerca di “far fallire la transizione democratica e creare tra i cittadini un clima di paura”) ed ha confermato lo svolgimento dell’evento. Il Forum sarà una buona occasione per mettere alla prova tanto la serenità e la vitalità dei tunisini quanto le convinzioni democratiche del governo e delle forze di sicurezza.
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