Debora Del Pistoia- Responsabile Cospe in Tunisia
Soussa, Tunisia. 26 giugno 2015. L’attentato più sanguinario della storia del paese, a soli tre mesi dall’attacco del Bardo, in un venerdì di pieno Ramadan e a colpire una zona turistica, visibile, esposta. Un atto eclatante. Ancora una volta viene ribaltata la logica che si era disegnata in questi anni, da quando, nel 2011, il fenomeno che si definisce “terrorismo” aveva instaurato la strategia della tensione nel paese. Questa volta in maniera piuttosto esplicita a essere target sono il turismo, l’economia e lo Stato. Le vittime confermate sono 40, un bilancio che rischia di aggravarsi considerando che i feriti sono 36, molti dei quali in gravi condizioni. “Altri 12 milioni di feriti”, recitano i social media, è tutto il popolo tunisino ammutolito. Un atto che mette a nudo un paese lacerato da problemi identitari, economici, sociali e di sicurezza, senza dimenticare le responsabilità politiche.
Dal maggio 2011, gli scontri tra forze dell’ordine e gruppi armati e gli attentati hanno visto soccombere 203 persone (97 agenti di sicurezza, 64 civili, 76 individui armati), oltre a circa 300 feriti. Un fenomeno che si è aggravato a partire dalla fine del 2012 e inizio 2013, e non sorprendentemente proprio in parallelo allo svilupparsi di un clima di tensione politica, sociale ed economica nel paese, in un concatenarsi di eventi che hanno generato un circolo vizioso. Ciò nonostante, un’analisi critica del terrorismo e delle radici di un fenomeno che è ormai radicato nella società non è ancora stata avviata. Una riflessione seria fatica ad essere promossa sia da parte delle organizzazioni della società civile, sia da parte dello Stato, residuo di 50 anni di dittatura e spesso incapace di rispondere in maniera adeguata a quanto si muove nel paese reale. Dopo che coloro che avevano cercato di mettere in luce la deriva dei movimenti jihadisti in Tunisia sono stati attaccati perché accusati di diffondere un’immagine negativa del paese (non da ultimo David Thompson con il suo documentario “La tentazione del Jihad” del 2013), ecco che gli eventi superano la riflessione.
Mentre il dibattito sulla crisi del turismo, settore motore del paese, si accende e diventa il fulcro della discussione anche fra i responsabili governativi, qualcuno chiede al governo in carica e al Ministero degli Interni le dimissioni immediate e una piena assunzione di responsabilità per una situazione sempre più fuori controllo e di rischio prevedibile. Responsabilità che pesano come macigni nella gestione della deriva della sicurezza nel paese, disseminate di incompetenza e apatia, di promesse inattese di riforme dell’apparato del Ministero degli Interni e misure speciali già annunciate dai vari governi succedutisi dopo la rivoluzione, ribadite dopo i terribili fatti del Bardo.
Più che soffermarmi sulla brutalità di quanto avvenuto ieri, di cui peraltro le dinamiche e i dettagli sono ancora in corso di verifica – se giammai saranno poi dichiarati ufficialmente – mi sembra utile approfondire le reazioni e le prima risposte politiche di quest’attentato. Risposte che ci preoccupano, come preoccupano gran parte della società civile che in questi ultimi quattro anni sta lottando con le unghie e con i denti per portare avanti il processo di transizione nel paese e che vive oggi, ancora una volta, un colpo duro. Risposte che promettono una svolta particolarmente repressiva.
Come già sperimentato dopo l’attacco del Bardo con la proposta di una nuova legge di protezione delle forze dell’ordine, definita incostituzionale dalle maggiori organizzazioni di diritti umani tunisine e internazionali, anche oggi la risposta al terrorismo rimane focalizzata solo sulla sicurezza.
I primi commenti del Presidente della Repubblica puntano il dito sui movimenti sociali che in questi ultimi mesi hanno animato il paese, primo tra tutti quello legato alla campagna “Winou el pétrole” (dov’è il petrolio), stigmatizzano ogni tipo di sciopero e manifestazione di malcontento che si sono succedute ultimamente in tutte le regioni della Tunisia. Definite da Essebsi (il presidente della Repubblica) come campagne denigranti e che indeboliscono lo Stato tunisino e la sicurezza, in un momento invece in cui si invoca l’unità nazionale. Lo stato risponde con la repressione. E c’è da chiedersi quindi se siano veramente i movimenti sociali o piuttosto lo Stato a minacciare la sicurezza del paese.
Sarà il Primo Ministro in una conferenza notturna invece ad annunciare le misure approvate dal governo per rispondere a quanto accaduto il 26 giugno. Tutte le decisioni prese nel vertice d’urgenza della Kasbah preannunciano un giro di vite, già propagandato dopo l’attacco del Bardo, ma con una serie di punti precisi che per la prima volta mirano direttamente anche alle organizzazioni della società civile. Il governo prevede infatti una revisione integrale della legge relativa alle associazioni, promulgata nell’ottobre del 2011 e che ha permesso lo svilupparsi del panorama associativo odierno. Questa revisione verterebbe in particolare sugli aspetti finanziari, perché, da quanto dichiarato dallo stesso Primo Ministro Essid, spesso i finanziamenti dei gruppi terroristi sarebbero veicolati attraverso le organizzazioni, ma pone chiaramente dubbi di arbitrarietà nell’interpretazione che fanno tremare la società civile. Gli statuti di associazioni e partiti politici che non rispecchiano lo spirito della Costituzione tunisina verranno inoltre decretati fuori legge, mettendo seriamente a rischio formazioni politiche come Hezb Tahrir, partito che mira a instaurare uno Stato islamico, ma che non ha mai praticato la violenza dalla sua creazione negli anni ’80 e che è stato legalizzato nel 2012 dal governo. Vietare questi partiti significherebbe spingere i propri aderenti alla clandestinità e gettarli in un vortice di radicalizzazione ancora maggiore, rischiando di avere effetti controproducenti e di amplificare il problema, in una logica simile a quello che succede in Egitto con l’interdizione dei Fratelli Musulmani.
Stessa riflessione vale per la stretta che colpisce direttamente i luoghi di culto. E’ prevista infatti per i prossimi giorni la chiusura di circa ottante moschee, definite fuori controllo da parte del Ministero degli Affari Religiosi, in quanto ritenute pericolosi nuclei di indottrinamento dei potenziali jihadisti. Singolarmente, proprio pochi giorni prima lo stesso Ministero aveva dichiarato che nessuna moschea era fuori controllo. Il governo programma di intensificare verifiche e incursioni anche nei domicili familiari segnalati come possibili nuclei di cellule terroristiche. In aggiunta, si decreta una maggiore militarizzazione del territorio, in particolare nelle zone turistiche costiere con la presenza di polizia turistica armata anche sulle spiagge e negli hotel, misura non ancora applicata nel momento in cui scriviamo questo articolo. Si contempla di definire molteplici aree come zone di operazioni militari chiuse e di coinvolgere forze militari speciali di riserva. Si sollecita altresì la collaborazione di tutti i cittadini e le cittadine tunisine nella lotta al terrorismo, promettendo premi in denaro per tutti/e coloro che denunceranno potenziali terroristi o segnaleranno informazioni per lo smantellamento delle cellule terroristiche. Dialogo come premio per la delazione, per il ritorno al controllo totale, alla regola del sospetto, un ritorno al pre-2011. L’appello è all’unione nazionale e alla collaborazione da parte di tutti i partiti e le organizzazioni della società civile, che verranno in seguito convocati per un dialogo nazionale sul terrorismo nel mese di settembre prossimo, dinamica già sperimentata per risolvere la crisi politica del governo nel 2013.
A questo si somma una grave misura provvisoria e emergenziale che restringe la libertà di circolazione, già peraltro estremamente limitata, di tunisine e tunisini minori di 35 anni, a cui è stato vietato di lasciare il paese in caso di destinazioni sensibili (Egitto, Marocco, Turchia) o a cui è stata richiesta autorizzazione parentale, il tutto in maniera arbitraria e in assenza di legislazione specifica. A chiudere il quadro la disposizione per l’utilizzo di informazioni personali sensibili di cittadini e cittadine, misura anticostituzionale, e le proposte di legge ancora in discussione e i cui rischi di deriva autoritaria sono evidenti.
Nessun tentativo, anche approssimativo, di analisi dei legami che esistono tra l’islamizzazione del radicalismo della società e gli abusi perpetuati dalla polizia, la repressione e le ingiustizie a cui questo governo neoeletto non è ancora stato capace di far fronte né ha dimostrato la volontà politica di risolvere, ai diritti inattesi e alla dignità violata da parte delle istituzioni. Nessuna volontà di approfondire le ragioni per cui un numero elevato di giovani si stia lanciando verso l’alternativa più radicale, ma pur sempre l’unica, in un’epoca caratterizzata da un processo rivoluzionario fragile e di ritorno dei vecchi regimi.
Questo panorama ci ricorda che mettere in sicurezza un paese non si limita al promuovere una campagna pubblicitaria e propagandistica anti-terrorista, ma richiede un’osservazione seria che parta proprio da dove queste contraddizioni emergono. A partire dalla capacità e volontà politica di portare a termine processi di giustizia che facciano emergere le responsabilità politiche sin dagli abusi compiuti durante la rivoluzione. Che permettano di contrastare la piaga del clientelismo e della corruzione. Quest’ultima è di per sé responsabile della presenza di armi nel paese a causa dell’amnistia attuata nel 2012 e 2013 e dell’entrata delle armi in Libia attraverso la Tunisia, sotto pressione dell’Unione Europea e della NATO e grazie ad un accordo firmato dallo stesso Essebsi, che parla oggi di guerra al terrorismo. Nessun processo giudiziario si è infatti realizzato dall’avvio dell’escalation del terrorismo nel 2012, nessuna misura seria è stata presa per supportare le numerose famiglie che hanno osservato le partenze dei propri figli verso la Siria, nonostante avessero tentato invano di allertare e richiedere l’appoggio dello Stato e delle forze dell’ordine. Quei figli che recentemente si sono diretti verso il miraggio di giustizia sociale proposto dallo Stato Islamico, ma che spesso curiosamente militavano nelle file dei rivoluzionari nel 2011 per rivendicare la karama (dignità) e il cambiamento, o che in altri casi erano stati attratti in passato dalla harqa, la traversata via mare in direzione dell’Europa, con la stessa voglia di riscatto, libertà e diritti. Forse è stato anche il caso di Saif, l’attentatore di Soussa, ma non lo sapremo mai, visto che anche questa volta non potremo ascoltarlo e processarlo perché ucciso dalle forze dell’ordine a seguito dell’attacco e esibito come “bottino di guerra” su tutti i media tunisini.
Aprire un dialogo sociale e una riconciliazione nazionale, anche con le correnti islamiste moderate, in quanto parte integrante di questa società, è sempre più urgente per superare il conflitto identitario e la spirale della violenza.
In questo quadro, il popolo tunisino è frammentato e in larga misura in stato di incoscienza di fronte a quanto accaduto. Molti ricordano con nostalgia l’epoca della dittatura benalista, dimenticando che le grandi debolezze di oggi sono frutto anche di quanto compiuto dalle élite clientelari collegate al precedente regime e che tuttora sono al potere. E sono pronti a sacrificare le libertà in nome di una sicurezza promessa e sbandierata al ritmo di una retorica basata sulla “guerra al terrorismo”, che giustifica tutti gli abusi in materia di diritti fondamentali e libertà iscritte nella Costituzione. Una crociata contro le istituzioni democratiche che rischia di scivolare velocemente verso un ritorno alle pratiche di un regime che il popolo ha condannato nel 2011. Se la giovane e già di per sé fragile democrazia tunisina cede di fronte alla guerra al terrore, il terrorismo avrà già ottenuto uno dei suoi obiettivi. “Ogni tipo di violenza poliziesca è un supporto al terrorismo”, scrivono alcuni bloggers e al conflitto sociale, aggiungo.
Da domani nuovi accordi di collaborazione e cooperazione inonderanno la Tunisia, auspico che si tratti di politiche coerenti e che non mirino solo a rafforzare i dispositivi di sicurezza, ma al contrario propongano un accompagnamento del paese nella dinamica della risoluzione dei conflitti, del proseguimento del processo di transizione democratica e di costruzione dello Stato di diritto, di promozione di alternative economiche sostenibili. Sostenere la società civile tunisina, attaccata al cuore, è oggi più che mai una priorità, ma tale sostegno andrà inquadrato in politiche che non fomentino l’immaginario di un terrorismo legato ai flussi migratori e di un paese in preda all’islamismo radicale. Se la spinta della violenza ha messo ieri a tacere le rivendicazioni delle piazze tunisine, solo con politiche di solidarietà coerenti tra loro questa forza potrà essere ri-alimentata. Se l’Europa non ci sta, la società civile delle due rive del Mediterraneo insiste nel costruire ponti e a sognare un futuro di libertà e pace in tutto il Mediterraneo e grida “mai più frontiere”.
en français ici: http://www.tunisiainred.org/tir/?p=5552
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