Santiago Alba Rico
Chi osservi le immagini del giovane Seifeddin Rezgui sulla spiaggia di Port Kantaoui, nella città di Sousse, lo scorso 26 giugno, capirà subito che il fenomeno del jihadismo terrorista è qualcosa di più di una violenta manifestazione di radicalismo religioso. Rezgui, addestrato in Libia, precedentemente animatore in alcuni hotel turistici, studente universitario appassionato di hip-hop, sembra un ragazzo dall’apparenza del tutto normale, con il suo costume da bermuda da bagno nero ed i lunghi capelli scuri: niente barba da salafita, nessun livido da preghiera sulla fronte, nessuna tenuta afghana; porta, questo sì, un kalashnikov con il quale sparerà più e più volte, sereno e preciso, sui turisti che prendono il sole davanti all’Hotel Imperiale Marhaba. Ne ha uccisi 39 prima che la polizia intervenisse uccidendo anche lui.
In Tunisia, come in tanti altri posti della regione, non si assiste a una radicalizzazione dell’Islam ma, come spiega l’antropologo francese Alain Bertho, a una “islamizzazione della radicalità”. Circa 3.000 giovani tunisini (1) sono partiti per la Siria e l’Iraq per unirsi allo Stato Islamico: si tratta del più alto numero di affiliati di tutti i Paesi arabi, un po’ più alto dei 2.000 francesi volontari, a loro volta secondi nella graduatoria mondiale del radicalismo islamista. Per ora i 3.000 ragazzi tunisini non sono molti, ma rappresentano l’avanguardia di una gioventù frustrata che nel 2011 aveva sognato una rivoluzione democratica e che, se il caos regionale aumenta e il governo tunisino continua a puntare sulla repressione, troverà nel jihadismo l’unica possibile forma di ribellione per ottenere integrazione, autostima e perfino una vita di coppia, in un paese in cui disoccupazione e patriarcato si combinano per impedire di avere una vita sessuale.
La strategia dei gruppi jihadisti è chiara, basta seguirla sul “manuale” di queste organizzazioni, La gestione della barbarie, un’opera firmata dallo pseudonimo collettivo Abou Bakr Naji. Superate con successo le prime quattro tappe (predicazione, analisi, omicidi politici, assalti ai posti di polizia), i jihadisti tunisini sarebbero passati alle “azioni di immersione” (inghimassia) con l’attentato al museo del Bardo del marzo scorso e quello a Sousse alla fine di giugno. Qual è l’obiettivo? Abou Bakr Naji lo spiega con lucida chiarezza: indebolire lo Stato e delle sue istituzioni perché non riescano più a gestire la cosa pubblica e, di fronte al vuoto che ne deriverebbe, “l’organizzazione dell’anarchia” o, secondo il titolo del libro, “la “gestione della barbarie” si imponga come una necessità sociale. Gli ultimi attentati avanzano molto rapidamente in questa direzione, facilitati dalla risposta del governo guidato da Nidaa Tunes e Beji Caid Essebsi.
Bisogna ricordare che proprio a Tunisi iniziarono le rivolte arabe, e che la Tunisia è l’unico Paese della regione in cui la sollevazione ha portato una democratizzazione – più o meno reale - delle Istituzioni, con l’adozione di una costituzione laica, approvata da un’assemblea costituente, e con la convivenza nel governo di partiti laici ed islamisti. Queste conquiste, tuttavia, sono molto fragili, anche perché l’ ancien regime –che non ha mai realmente abbandonato l’apparato dello Stato e che è tornato in forza dopo le ultime elezioni- ripropone la stessa gestione economica, politica e poliziesca del deposto Ben Ali.
Alle misure economiche (accordi con gli USA e con il FMI, privatizzazioni, investimento estero) che immiseriscono ulteriormente una popolazione più povera oggi che sotto la dittatura, si aggiungono le leggi liberticide promulgate in nome della “lotta antiterrorista”, che invalidano la Costituzione e legittimano il governo agli occhi delle classi medie urbane, nostalgiche del passato, ma che al tempo stesso radicalizzano i settori più giovani e sfavoriti, delusi dopo quattro anni di democrazia.
All’attentato di Sousse il governo tunisino ha risposto esattamente come voleva l’Isis, ossia rendendo evidente la sua incapacità di gestire democraticamente le istituzioni: decretato lo stato d’emergenza, che limita i diritti di riunione e di manifestazione; criminalizzati i movimenti sociali –in particolar modo l’iniziativa cittadina Ouinu-el-petrol (“Dov’è il petrolio”) che reclama trasparenza nella gestione delle risorse energetiche del Paese; annunciata la possibile messa fuori legge di alcuni partiti politici, come il salafita Hizbu-tahrir, manifestamente contrario alla violenza; chiuse 80 moschee; arrestati 1.500 giovani e proibito di viaggiare ad altri 15.000, restringendo in generale il diritto a viaggiare ai giovani di meno di 35 anni; militarizzato il territorio tunisino, specialmente le zone turistiche, mentre rimane in vigore la legge di “protezione dei corpi di sicurezza” che garantisce impunità alla polizia (la stessa che continua a torturare) e che penalizza, a volte con anni di carcere, qualunque forma di denuncia degli abusi polizieschi.
Tutto questo è esattamente ciò che i terroristi desideravano; questa antagonistica confluenza “da manuale” tra “gestori della barbarie” preannuncia già un autunno caldo e lascia poche speranze di sopravvivenza all’unica esperienza democratica esistente nella regione.
Conviene prepararsi al peggio.
(1) la cifra riportata nell’articolo fa riferimento a una comunicazione del Ministero degli Interni tunisino. Secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, i jihadisti tunisini sarebbero invece fra i 5.300 e i 5.800.
Traduzione dallo spagnolo a cura di Giovanna Barile
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