All’ingresso, delle sedie di legno sottile, tremendamente scomode; poi delle vetrine, dalle quali risaltano una quantità incalcolabile di bicchieri, ben allineati e ben illuminati. Una “bit sala”, il salone classico. Più in là – al piano di sopra -, un locale più piccolo, dei divani tradizionali lungo le pareti ,per tutta la lunghezza del locale, senza complicati fronzoli in legno, l’antitesi della solennità, una “bit el qaad”, il tinello.
Una camera riservata per gli ospiti, l’altra per se stessi, intima. Una disposizione che si può trovare ancora in alcune case tunisine, anche se in via di estinzione.
Sembra che molti aspetti della nostra vita sociale siano gestiti attraverso una netta separazione tra lo spazio che abbiamo messo a disposizione per gli altri, e lo spazio per noi, piuttosto al riparo da sguardi e giudizi.
Ma ancora più interessante è il fatto che questa ripartizione può servire a decifrare e a comprendere alcune contraddizioni appartenenti allo Stato tunisino postcoloniale. Ed è questo il punto che cercherò di sviluppare: la contrapposizione tra una “bit el sala” e una “bit el quaad” come un possibile quadro di lettura delle azioni e della retorica dello Stato.
L’ipotesi è che lo Stato ci abbia fatto vivere in una “bit el qaad”, che, in alcune occasioni, si trasforma e diventa una “bit sala”. Ma anche su un piano astratto, simbolico, esisterebbe una “bit sala” fatta di una serie di miti e immagini, che lo Stato mette avanti e cerca di far passare per la realtà della Tunisia agli occhi dei paesi stranieri. Una messa in scena per sostenere lo sguardo degli Altri e che trova le sue radici nelle tracce di un colonialismo ancora mal digerito.
La “bit salisation” dello spazio
L’incarnazione più concreta di questa opposizione si presenta all’arrivo di un qualsiasi dirigente di uno Stato straniero, quando questi ha previsto, per esempio, di passeggiare per la città; o ancora, se Tunisi ospita un evento internazionale sotto il patrocinio dello Stato: improvvisamente, le strade vengono pulite da cima a fondo. Vengono piantati alberi e piante fiorite. Viene preso ogni tipo di provvedimento per rendere i luoghi puliti e presentabili; come se noi, gli abitanti di questo paese, non meritassimo questi fiori o di vivere nella pulizia. L’atteggiamento dello Stato nei confronti del popolo, è quello di farci vivere in una “bit el qaad” di dubbia pulizia, trascurato se siamo inter nos, ma che si può trasformare in una “splendente bit sala”, in occasione di una visita ufficiale o di una grande conferenza.
Naturalmente, questa “bit salisation” temporanea non si limita l’arrivo degli stranieri: questo fenomeno si può osservare anche nel corso di una “passeggiata” del presidente o di una visita di un qualsiasi funzionario in qualsiasi istituzione pubblica – per questo motivo, quindi, le visite a sorpresa di alcuni funzionari a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane; tuttavia, la “bit salisation” non è mai così palese e degradante rispetto a quandola scenografia impiantata all’annuncio dell’arrivo di stranieri.
Questo significa, dunque, che lo Stato e in particolare, le municipalità, non attribuiscono alcuna importanza al benessere degli abitanti, la cui unica possibilità di conoscere il vero colore delle strade è di aspettare che un celebre straniero vi metta piede.
Miti e simboli: la “bit sala” immaginaria
La “bit sala” è un qualcosa di simbolico. Si tratta di una serie di miti nati dopo l’indipendenza che si sono profondamente amalgamati nell’immaginario collettivo. Si tratta semplicemente di un arrangiamento simbolico, creato per affermare la propria esistenza o la propria legittimità davanti al resto del mondo, ma anche per renderci ciechi davanti alla realtà che abbiamo di fronte.
Citerò alcuni esempi, che illustrano, credo abbastanza bene, questa dicotomia tra una “bit sala” ufficiale e discorsiva e la realtà di una “bit el qaad” vissuta, più complessa.
Per cominciare, la Costituzione tunisina. Essa è, tecnicamente, la nostra norma suprema, tuttavia non è rispettata da nessuno, sia nelle sue disposizioni tecniche – le scadenze -, che nei diritti, nelle libertà che concede – come la molto divertente “libertà di coscienza”- e nelle regole che essa impone – parità uomo donna. Persino il motto nazionale, pur modificato dopo la rivoluzione (libertè, dignité, justice, ordre), non ha alcuna eco nella realtà quotidiana. (la Costituzione)non protegge niente e nessuno, dato che la Corte Costituzionale non è ancora operativa, ma è comunque un bel gingillo da mostrare agli ospiti (ovvero agli occidentali),ben protetta nella sua teca di vetro, anche se completamente inutile, in uno Stato che, storicamente, non ha mai visto in una Costituzione niente più che un elemento decorativo, atto a mostrare all’estero la modernità dello Stato.
Nella categoria dei miti, possiamo anche citare, naturalmente, quello delle “ donne tunisine libere”,oltretutto abbellito dalla menzione “le più libere del mondo arabo”, – uno dei più antichi ornamenti della nostra “bit sala” nazionale, sfoderato dallo Stato in tutte le occasioni (soprattutto da Ben Ali, dal momento che non c’era molto altro da sfoggiare). I riferimenti all’importanza, alla grandezza delle “donne tunisine”, rilanciati nei discorsi politici, ne fanno “un simbolo della Repubblica”, mentre in realtà, le discriminazioni e le disuguaglianze sono moltissime, la misoginia è onnipresente e il 47% delle donne tunisine sono state vittime di violenza.
Ma queste realtà schiaccianti non impediscono in alcun modo la retorica e auto-celebrazione. Questo mito si sfodera soprattutto quando ci rivolgiamo all’Occidente, il quale pone il trattamento delle donne come linea di demarcazione tra “l’Occidente civilizzato” e “l’Oriente barbaro”.
Vi è anche una serie di caratteristiche attribuite all’’entità “popolo tunisino” che non lasciano spazio alle differenze all’interno della popolazione. Così i tunisini sarebbero tutti aperti, tolleranti, pacifisti. Caratteristiche che indiscriminatamente vengono attribuite ad un popolo intero, ignorando qualsiasi differenziazione. Questa “immagine” essenzialista del popolo può essere compresa come una reazione all’immagine orientalista veicolata a proposito dell’orientale, presumibilmente barbaro e sanguinario.
Esso riveste le pareti della “bit sala”, non solo per compiacere l’Occidente (in particolare i turisti), ma anche per gli stessi tunisini affinché possano definire la loro gente, rassicurarsi a proposito del loro essere una eccezione.
La “bit el qaad”, cioè la realtà,invece è troppo complessa perché si possano attribuire caratteristiche essenzialiste a un popolo.
Così, la “bit sala” nazionale è un certo tipo di discorso che è pensato come performativo, ma che serve solo a mascherare maldestramente la realtà della “bit el qaad” davanti agli Altri. Soprattutto quando gli Altri sono occidentali.
Perché?
Alla domanda perché, la risposta non è così ovvia, ma penso che bisognerebbe cercarla, tra le altre, nella colonizzazione e nel trauma psicologico che si è generato in tutto il paese.
Esiste innegabilmente un complesso inconscio in Tunisia, come in ogni paese che è stato colonizzato.
La “bit sala” è l’immagine che presentiamo all’Altro. E’ il negativo dell’immagine data dal colonizzatore al colonizzato, quella che ha forgiato per giustificare la sua colonizzazione (la sporcizia, il trattamento degradante delle donne, la barbarie, ecc.), un’immagine falsa, mitica, che è stata interiorizzata dal “colonizzato” e che sta ancora cercando di negare, come se, per coprire la sua uguaglianza, dovesse dimostrare all’Altro che, ancora una volta, si era sbagliato.
Solo che il negativo, la “bit sala”, è anche questa immagine, un’immagine falsa che viene utilizzata per coprire una realtà che non osiamo assumere per paura che possa suscitare commenti degradanti, risvegliare la macchina dell’essenzialismo e altro ancora, la bestia stessa, il colonialismo. Così lo Stato, generato dalla colonizzazione, agisce ancora – e sempre – in base al suo riflesso agli occhi dell’Altro: mette in atto un arsenale pittorico e discorsivo per mantenere l’illusione dell’uguaglianza, mentre, questa messa scena di se stesso, mostra come egli sia convinto della propria inferiorità.
Il fatto stesso di agire in funzione dello sguardo dell’Altro, denota il complesso del colonizzato, già identificato da Albert Memmi, ne Portrait du Colonisé (1957):
“In piena rivolta, il colonizzato continua a pensare, a sentire e a vivere, e, quindi, a confrontarsi con il colonizzatore e con la colonizzazione […] Per vedere la completa guarigione del colonizzato, occorre che finisca completamente la sua alienazione: si deve attendere la completa scomparsa della colonizzazione, compreso il periodo di rivolta.”
Ma in realtà: “Non cessa mai di essere colonizzato, se non quando smette di essere colonizzabile (Malek Bennabi, Les Conditions de la Renaissance). Il vero crepuscolo del colonialismo (incluso il complesso del colonizzato), arriverà solo quando si deciderà a farla finita con queste menzogne, ad affrontare i nostri mali, le nostre ferite, perché la “bit sala” non è altro che una volgare menzogna.
E’ una costruzione di sé agita non per noi, ma per l’Altro; uno spreco di tempo e di energia incredibile quando pensiamo all’enorme lavoro che bisognerebbe fare nel paese in cui viviamo, nella “bit el qaad”. Prima di provare a farsi rispettare dagli altri, bisognerebbe pensare a rispettare noi stessi.
L’articolo originale è apparso l’11 agosto 2015 qui: http://www.huffpostmaghreb.com/malek-lakhal/post_9912_b_7967162.html
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