L’idea di giustizia transizionale
Non ricordo più esattamente quando è stata lanciata in Tunisia l’idea di giustizia transizionale, un concetto nato nel 1948, agli inizi della storia dell’ONU. La cosa è comunque successa nel 2011, cioè quando la mobilitazione rivoluzionaria era ancora molto forte. Stranamente questa idea ha suscitato la quasi unanimità e nessuno l’ha apertamente contestata. Questo apparente consenso deriva sicuramente dal fatto che le diverse correnti del paese attribuivano all’idea di giustizia transizionale diversi contenuti e aspettative.
Si può supporre che coloro i quali avevano maggior timore d’une resa dei conti brutale hanno visto in questa idea la possibilità di sfuggire a dei processi e a delle condanne vendicative. Si trattava d’una vasta categoria di persone che avevano oppresso e sfruttato, che avevano beneficiato d’un sistema di corruzione che era strutturale nel vecchio regime e ne costituiva anzi il suo fondamento, con pratiche di tipo mafioso e criminale. Per questa categoria di persone, la giustizia transizionale, che avrebbe comunque richiesto parecchio tempo per divenire effettiva, si presentava come l’occasione per trovarsi in una situazione molto meno pericolosa.
I partiti politici, sia quelli nati dopo la rivoluzione sia quelli usciti dalla clandestinità, vedevano nell’idea di giustizia transizionale un eccellente concetto chiave per far pensare che erano ansiosi “di conoscere la verità per evitare gli errori del passato” e soprattutto per far credere che sostenevano la rivoluzione. Per alcuni, che nel loro passaggio al potere non si sono affatto distinti per una netta volontà di porre fine ai mali del vecchio regime – clientelismo e corruzione in particolare – la giustizia transizionale era anche uno strumento di negoziazione da giocare contro i loro avversari, una minaccia che facevano rinascere quando si sentivano in pericolo.
C’era forse anche una categoria di persone che sulla base della storia recente e attraverso gli esempi di processi di giustizia transizionale messi in atto in altre parti del mondo, avevano visto che la sola efficacia del metodo consisteva in una riduzione delle tensioni e della violenza, cosa in sé positiva, e che essa toccava solo raramente, e in maniera marginale, gli interessi stabiliti.
Gli attori della rivoluzione, infine, hanno accolto il concetto perché corrispondeva alle loro convinzioni, alla natura stessa della rivoluzione, essenzialmente pacifica e non violenta, che avrebbe dovuto ristabilire la giustizia sociale, mettere fine alle discriminazioni, permettere a tutti d’avere un lavoro onesto, in una società che aveva bisogno di tutti i suoi membri. La filosofia della giustizia transizionale, l’idea di rendere pubblica tutta la verità come condizione per il perdono a coloro che riconoscevano i loro errori e si mostravano pronti a ripararli, è la vera motivazione morale dei rivoluzionari che erano d’accordo perché i vecchi quadri, se l’avessero veramente voluto, potessero partecipare alla ricostruzione nazionale.
Le critiche alla giustizia transizionale
Le critiche contro la giustizia transizionale hanno cominciato a moltiplicarsi a partire dalla elezione dell’istanza prevista dalla costituzione (1) per pilotare il processo (2) cioè a partire dal momento in cui si è temuto che la cosa diventasse effettiva. Inizialmente le critiche non furono rivolte alla giustizia transizionale ma all’istanza Verità e Dignità, con attacchi diretti principalmente contro la Presidenza, nella persona di Sihem Ben Sedrine, accusata dei peggiori misfatti, e poi contro i suoi membri, accusati di voler compiere vendette sotto copertura della legge. Gli attacchi non si sono tuttavia limitati a questo, dato che il candidato alle elezioni presidenziali, Beji Caid Essebsi, ha dichiarato in un discorso pubblico che bisognava voltar pagina con il passato e metter fine alla giustizia transizionale. Secondo lui, la minaccia di questo processo sarebbe addirittura alla fonte dei problemi economici del paese: “gli sfortunati uomini d’affari” che non investono pur continuando ad accumulare ricchezze, vogliono avere la certezza che le loro imprese non saranno sequestrate. Beji Caid Essebsi, che ha indubbiamente della coerenza nelle proprie idee – o forse un enorme debito verso i possidenti che hanno finanziato la sua campagna elettorale – sottopone ora un progetto di legge di “riconciliazione” che mira a ridurre il potere d’intervento dell’istanza Verità e Dignità e a rassicurare tutti coloro che sono sospettati di malversazioni e di gravi crimini economici.
La rivoluzione tunisina è veramente ingenua: invece di sequestrare i beni illeciti e di mettere in prigione coloro che si sono arricchiti nell’ombra durante la dittatura, ha lasciato loro la possibilità di difendersi, di manifestare il loro senso di colpa, di restituire una parte del bottino, di beneficiare d’un trattamento giudiziario clemente fino al punto di lasciarli in libertà. Ma tutto ciò non basta a tutti questi delinquenti e ai loro difensori contro-rivoluzionari: pretendono cancellare la rivoluzione e operano in tal senso in tutti i campi. E’ possibile che a breve termine ottengano dei successi, che con l’aiuto della minaccia terrorista e delle misure adottate con questo pretesto riconquistino degli spazi che il popolo era riuscito a strappare. Quel che è certo è che se non erano riusciti durante il regime di Ben Ali, aiutati anche da un grande appoggio straniero, a trovare la via di sviluppo del paese, ne saranno ancora più incapaci oggi, privi come sono di una direzione centralizzata e d’un partito unico onnipotente. La classe dirigente è più che mai divisa e ognuno cerca di accaparrarsi una parte della torta.
Con la decomposizione del sistema dello Stato, sempre più frantumato in apparati relativamente autonomi, il risultato che si prospetta sotto i nostri occhi, prevedibile senza troppi sforzi, sarà la ripresa del processo rivoluzionario, con forme e mezzi diversi da quelli del 2011. Il popolo non ha più alcuna fiducia nella classe politica ed è impossibile prevedere l’evoluzione delle cose, che dipenderanno anche da diversi fattori nazionali e internazionali.
Nell’esperienza della rivoluzione tunisina c’è tuttavia un dato positivo, vantaggioso soprattutto per i colpevoli che si troverebbero al riparo da vendette individuali e da rappresaglie violente, con la quasi certezza di una giustizia clemente nei loro confronti. Il corollario di quest’aspetto è la riduzione delle tensioni sociali e dei conflitti di classe nel paese. La giustizia transizionale presenta inoltre una via che potrebbe servire da modello ad altri paesi: la via d’una rivoluzione più o meno pacifica che si sarebbe realizzata senza troppi traumi grazie appunto alla giustizia transizionale. Il suo obiettivo, infatti, non è tanto quello di punire ma di ristabilire la verità al cospetto del paese e dei suoi abitanti, allo scopo di trasformare la coscienza e il comportamento civile della popolazione, che ha già fatto comunque notevoli progressi in questo senso. La realizzazione della giustizia transizionale sarebbe un risultato estremamente positivo: la lotta contro il ritorno della dittatura è, per citare Milan Kundera, “la lotta della memoria contro l’oblio”.
La rivoluzione tunisina non è un accidente
Gli esseri umani fanno la loro storia, ma la storia ha le sue leggi cui i popoli possono dare un aspetto particolare, ritardarle o accelerarle ma non modificarle. Nei momenti di grande sconvolgimento sociale, gli attori di questi mutamenti, masse popolari o rivoluzionarie mobilitate, in genere non hanno una chiara coscienza della portata delle loro azioni, si mettono in movimento per delle rivendicazioni più o meno precise quando sono riunite una serie di condizioni. E’ tuttavia raro che ci sia una direzione politica che programma il cambiamento in corso, poiché in questo caso dovrebbe avere una visione completa delle condizioni del momento, in particolare per quanto riguarda i concreti rapporti di forza.
La rivoluzione tunisina è in questo senso esemplare anche perché il suo rapido decorso ha colto alla sprovvista le varie direzioni politiche esistenti. Le masse che si sono mobilitate, specialmente i giovani, esigevano dei miglioramenti della loro situazione senza pensare che il loro movimento avrebbe provocato la caduta del regime. In realtà queste rivendicazioni, centrate sulle tre parole d’ordine “lavoro”, “libertà” e “dignità nazionale” non potevano essere soddisfatte e nemmeno approvate ufficialmente senza il crollo del regime: il regime dittatoriale era fondato sull’egemonia del partito unico e sulla coercizione di un apparato repressivo iper-centralizzato di stampo mafioso.
La lotta iniziata il 17 dicembre 2010 non poteva terminare che con la sconfitta totale d’uno dei due campi. Senza tornare sulle condizioni che hanno favorito la vittoria popolare, bisogna ricordare che sebbene i partiti politici, subito dopo la rivoluzione, abbiano assunto il comando di ciò che restava dello Stato, l’apparato statale era stato essenzialmente distrutto. Il crollo e la messa al bando del vecchio partito unico, l’RCD, ha dato luogo alla proliferazione di clan, legati a delle personalità regionali e mosse da interessi disparati. Vi è stata anche, come conseguenza diretta della libertà conquistata dal movimento, una moltiplicazione dei partiti politici e dei luoghi d’espressione. Questa nuova situazione rende in pratica impossibile il ritorno a uno Stato centrale autoritario. Attualmente non c’è alcuna forza sociale – borghese, burocratica o sindacale che sia – realmente capace non solo di dominare le altre ma di trainarle dietro di sé. Le differenti forze sociali non hanno alcuna omogeneità economica né alcuna consistenza in un mondo dominato da imperi finanziari internazionali che dirigono l’economia del pianeta.
Le illusioni dei contro-rivoluzionari
Gli “uomini d’affari”, forse ispirati dall’esempio Ben Ali, credono di poter dominare lo Stato senza averne gli strumenti politici, ma l’esistenza d’un partito come Nidaa Tounes non li rassicura del tutto. Hanno quindi ritenuto necessario occupare posti chiave del Parlamento per prevenire la promulgazione di leggi contrarie ai loro interessi egoistici. Proviene proprio da loro maggior parte degli attacchi contro la giustizia transizionale, compreso l’ultimo. In realtà non capiscono, mancando di ogni formazione politica, che la forza del regime di Ben Ali derivava dall’eredità di un partito forte che col tempo aveva potuto consolidarsi e assicurarsi il controllo dell’intero paese. La forza di Nidaa Tounes, dietro la quale sono trincerati, deriva dalla paura degli islamisti che ispira la piccola borghesia ben educata, e dal fantasma delle idee di Bourghiba, un fantasma che viene continuamente evocato senza che nessuno ci creda veramente o riesca a riempirlo d’un contenuto concreto. Nessuna visione del paese o nessun “progetto sociale” accompagna il mitico “interesse del paese” che viene propagandato come il motore della loro azione politica. La forza di Ben Ali derivava inoltre dal fatto che l’RCD, col suo sistema reticolare, aveva raddoppiato e praticamente sostituito l’apparato dello Stato, soprattutto a livello della sicurezza e del controllo poliziesco. I tentativi attuali di limitare le libertà non possono ricomporre una tale forza, anche perché la figura del capo unica è stata sostituita da diversi notabili regionali o capi clan che non hanno nessuna visione politica da proporre alle loro truppe. Il partito Nidaa, costruito attorno alla figura di Essebsi, un uomo sprovvisto d’immaginazione e creatività, è costantemente sull’orlo dell’implosione, mentre diversi dei suoi leader cercano di accaparrarsi l’appoggio di questo o quell’altro governo straniero. Gli altri partiti politici, concentrati in trattative quotidiane per consolidare il loro peso nella concorrenza per il potere, non presentano alcuna alternativa credibile.
Oltre alla tragica situazione dei partiti politici, va sottolineata la progressiva decomposizione dello Stato, particolarmente evidente a livello degli apparati di sicurezza, come risulta dai recenti attacchi terroristi. Le nomine improvvise non obbediscono d’altra parte a una strategia definita, ma a decisioni prese nell’immediatezza che sembrano rispondere più a ragioni contingenti (rispondere alle minacce armate o aggraziarsi qualche governo straniero), ad amicizie o solidarietà con alcuni attori economici (l’edificazione d’un muro alla frontiera libica realizzata da diverse società senza l’ombra d’una gara d’appalto) o a ragioni politiche (legami d’alcuni sindacati di polizia con questo o quel personaggio politico). Le nomine nell’amministrazione avvengono inoltre senza la minima trasparenza, senza spiegazioni e si è quindi spinti a perdersi in congetture sulle eventuali carenze o sulle ragioni clientelari che ne sono all’origine.
In altri termini, questo Stato, che alcuni vorrebbero far tornare al passato, sta collassando, è il luogo di una situazione caotica che sfugge alla classe politica e non c’è alcuna possibilità che possa ricostituirsi un unico partito forte capace di “ristabilire l’ordine”. Le azioni dei contro-rivoluzionari non fanno che accelerare il processo e gli uomini d’affari, oggetto di sollecitudine da parte del potere, non investiranno in settori produttivi (non l’hanno mai fatto) ma continueranno a sostenere un mercato parallelo, deleterio per l’economia nazionale, o a rappresentare commercialmente delle grandi multinazionali.
L’illusione del ritorno alla prosperità grazie all’abbandono della giustizia transizionale si scontra poi col tipo di accordi internazionali che il governo sta programmando per assicurare il sistema della difesa nazionale congiuntamente con eserciti occidentali e in nuovi prestiti elargiti da quelle stesse istituzioni come Banca Mondiale, FMI o altri istituti di credito che hanno affossato l’economia greca. All’interno del paese queste illusioni potrebbero avere delle gravi conseguenze, causando un nuovo sollevamento rivoluzionario assai meno pacifico del precedente e la possibilità che la frustrazione e la disperazione spingano molti giovani verso il terrorismo, ciò che sarebbe il pretesto per far appello all’estero (la Nato per esempio) e perdere quindi il poco di sovranità che resta alla Tunisia.
La più recente illusione è di credere che con l’aiuto della nuova legge antiterrorismo, che permetterà di aumentare la repressione, il voto della legge sulla riconciliazione nazionale di Caid Essebsi assicurerà la tranquillità della borghesia corrotta e corruttrice e di tutto quel settore dell’amministrazione pubblica che ha tradito la propria missione in nome dell’arricchimento facile. Insieme alle illusioni menzionate, quest’ultima è forse la più pericolosa, suscettibile di accelerare delle catastrofi eventuali. E’ chiaro inoltre che questa legge ha lo scopo di indebolire la giustizia transizionale fino ad arrivare alla sua totale soppressione. I sostenitori di Nidaa, i loro ispiratori e i loro finanziatori credono che in questo modo sarà possibile il ritorno al regime di Ben Ali, un regime in cui il popolo non poteva che subire l’arbitrio in silenzio. Ma si tratta d’une credenza illusoria e come il personaggio di Perrette nella favola di La Fontaine (3)si espongono a grandi delusioni in cui rischiano di perdere non solo “vitelli, vacche, maiali, nidiate….” ma delle cose ancora più preziose, come per esempio la loro libertà.
Le opportunità di successo della giustizia transizionale
L’atmosfera attuale è difficile per la giustizia, sia essa transizionale o meno: la legittima protesta d’un giudice contro casi di tortura (non faceva che appellarsi alla legge) ha suscitato, da parte di persone che si considerano moderne e democratiche, delle parole d’odio e le peggiori giustificazioni di tali pratiche. I sostenitori della vecchia dittatura, che hanno ottenuto numerosi rinforzi tra i nuovi opportunisti, hanno ripreso servizio con rinnovato zelo, facendo pensare che il loro regime prediletto si sta ricostituendo. Le autorità minacciano, in effetti, di applicare le disposizione della legge anti-terrorismo contro tutti coloro, giornalisti o semplici cittadini, che attentassero alle forze di polizia criticando i loro metodi. In questo contesto, con la copertura di questa legge liberticida e il sostegno di quasi tutti i partiti (non tutti manifestano in effetti lo stesso entusiasmo) è davvero difficile sperare nella giustizia transizionale, perlomeno nell’immediato.
La questione che si pone è quella di sapere, dopo il sostegno espresso dal partito islamista Ennahdha alla legge di riconciliazione nazionale, se i calcoli egoisti di questo partito gli faranno davvero abbandonare l’dea della giustizia transizionale rompendo così con la propria base e con quei giovani rivoluzionari che lo seguono ancora. Si tratta di capire se il beneficio ottenuto da Nahdha grazie alla partecipazione alla coalizione di governo a livello della propria sopravvivenza (l’esperienza egiziana fa da monito a tutti), che gli offre anche la necessaria tranquillità per rinnovare la propria classe dirigente, sarà considerato più importante di quello che otterrebbe in termini di consenso mostrando fermezza in materia di giustizia transizionale. “Cartagine val bene una messa” (o il sacrificio di alcuni imam) avrebbe potuto dire Enrico IV.(4)
La posizione ambigua del sindacato UGTT non permette di sapere se la sua direzione, inorgoglita dal ruolo di arbitro svolto nelle recenti vicende politiche, continuerà sulla via delle alleanze con uomini e donne d’affari corrotti che non apportano nulla all’economia nazionale oppure se si ricorderà d’avere degli iscritti, da cui deriva di fatto la propria forza, d’avere pagato in passato un caro prezzo a causa dell’arbitrio del potere, e prenderà quindi le distanze sostenendo in modo più netto la giustizia transizionale.
In ogni caso, anche se la rivoluzione perderà questa battaglia, il fatto dell’averla condotta l’aiuterà a serrare i propri ranghi, a riconoscere i propri nemici e a capire i metodi usati per contrastarla. I suoi nemici d’altra parte, troppo divisi e senza alcuna visione, non possono che continuare con e discorsi minacciosi, con politiche contraddittorie che li indeboliranno sempre più. Non è quindi irrazionale pensare che la battaglia non sia ancora del tutto persa e che la domanda di giustizia non cesserà, anche nel caso di un’amnistia prematura promulgata da chi ha tutto l’interesse nel farla tacere.
1 La legge sulla giustizia transizionale è stata promulgata il 14 dicembre 2013 dall’Assemblea Nazionale Costituente, in base alle sue disposizioni è stata creata l’Instance Verité et Dignité che è preposta a raccogliere le testimonianze delle vittime della repressione dal 1955 alla data di promulgazione della legge.Inoltre, dovrà quantificare gli indennizzi da versare a chi ha subito abusi e violenze durante la dittatura di Bourghiba e Ben Alì.http://www.huffpostmaghreb.com/2014/02/19/instance-verite-dignite_n_4814172.html
2. C’erano state in precedenza delle critiche al progetto di legge avanzate dai difensori dei diritti dell’uomo, i quali ritenevano che la legge avrebbe dovuto spingersi oltre nella giustizia transizionale
3. Allusione alla favola Perrette et le pot au lait di La Fontaine
4.Enrico di Navarra, convertitosi al cattolicesimo per diventare re aveva pronunciato la frase “Parigi val bene una messa” abbandonando il protestantesimo. La sua incoronazione, col nome di Enrico IV, fu accompagnata da dei massacri di protestanti in tutta la Francia.
Traduzione e adattamento dal francese a cura di Mario Sei
l’articolo in francese, ripreso dalla pagina Facebook di Gilbert Naccache, è apparso il 12 agosto 2015 sul nostro sito: http://www.tunisiainred.org/tir/?p=5613
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