Giada Frana
Dopo la cosiddetta “Rivoluzione della dignità” tunisina, i graffiti e le scritte hanno invaso i muri di tutte le città del Paese: il bisogno di esprimere il proprio pensiero era talmente grande e ogni cittadino voleva poter dire la sua. Quale supporto migliore dei muri, a portata di mano di tutti, per poter far passare il proprio messaggio, riappropriandosi in questo modo degli spazi pubblici e della libertà di espressione dopo anni di dittatura? Proprio su questi muri, capita spesso di intravedere una Z: niente a che vedere con qualche giustiziere mascherato alla Zorro. La Zeta è l’iniziale della parola “Zwewla” (da leggere zueula), che in dialetto tunisino significa “poveri”: è il nome del collettivo di giovani, nato subito dopo il sollevamento popolare che ha portato alla cacciata del dittatore Zine El Abidine Ben Alì. I loro graffiti e scritte sono costati loro anche un processo e qualche giorno di prigione per due dei loro membri. Noi di CTRL Magazine abbiamo incontrato O., tra i fondatori del collettivo, che preferisce rimanere anonimo, seguendo il principio del collettivo stesso che antepone gli obiettivi di quest’ultimo alle individualità.
Partiamo dal nome. Come mai avete scelto Zwewla, “poveri”?
Al momento della creazione del collettivo eravamo degli zwewla, studenti, disoccupati, persone che avevano lasciato gli studi e nessuno, né i partiti, né i mass media, né le associazioni, parlava dei nostri problemi o cercava di trovare delle soluzioni per risolverli. Allora abbiamo deciso di esprimerci da soli, come giovani marginalizzati e come zwewla marginalizzati: abbiamo preso la bomboletta e abbiamo scritto di noi sui muri. Non siamo propriamente portavoce degli zwewla: esprimiamo i nostri problemi e se le persone si identificano nel nostro discorso, siamo riusciti nel nostro intento. Siamo dei semplici cittadini che cercano di evocare le difficoltà della gente comune. Parliamo attraverso gli stencili e i graffiti, sui muri e nei posti che tutti possono vedere, ma scendiamo anche in piazza nelle manifestazioni.
Come è nata l’idea di creare il collettivo?
All’inizio eravamo un gruppo formato da otto giovani. Zwewla è il risultato di un percorso: ognuno di noi proviene da diversi ambienti e ha differenti esperienze alle spalle. Siamo per la tolleranza e il rispetto degli altri e per l’accettazione delle differenze. Abbiamo fondato Zwewla per militare, per una Tunisia migliore, affinché le persone, soprattutto chi viene marginalizzato, possano vivere dignitosamente. Abbiamo creato il collettivo durante una manifestazione per i diritti sociali ed economici dei lavoratori, organizzata dal sindacato nazionale dei lavoratori tunisini.
Quali sono le vostre attività?
Dopo la creazione del collettivo, abbiamo fatto diverse attività ed azioni basate sulla problematica sociale, il diritto alla vita e alla libertà di espressione. Abbiamo avuto problemi con le autorità a causa dei nostri graffiti e delle nostre scritte, c’è stato un processo contro di noi.
Tutto ciò è successo a novembre 2012: tu e un altro ragazzo del collettivo siete stati arrestati a Gabès, cittadina nel sud della Tunisia, mentre stavate facendo delle scritte su un muro nelle vicinanze dell’Iset, l’Istituto superiore degli studi tecnologici. Le scritte dicevano “Al- Châab yourid hak ezawéli”, “Il popolo vuole i diritti dei poveri” e “Zawéli fi Tounes méyett hay”, “i poveri in Tunisia sono morti viventi”. Scritte a favore degli Zwewla di cui portate il nome. Come è andata a finire?
Siamo stati arrestati più volte, ma sempre per un breve periodo, da uno a tre giorni. A dicembre siamo stati portati in tribunale, ma il processo è stato poi rimandato nel 2013. I capi d’accusa: diffusione di false informazioni, violazione dello stato d’emergenza e scritte sui muri pubblici senza autorizzazione, “crimini” punibili fino a due anni di prigione. Il processo è durato sei mesi e alla fine ce la siamo cavata con 100 dinari (più o meno 50 euro, ndr) di multa. Prima eravamo anonimi, poi lo stesso processo ha contribuito alla promozione dei nostri messaggi e delle nostre idee. Durante quei mesi abbiamo avuto il sostegno di molte persone e diverse Ong nel mondo intero: dalla Palestina, all’Italia, Parigi, Ucraina, Usa, Bahrein, Senegal, Marocco, Egitto e diversi altri Stati ed è stata lanciata una petizione sul web “Le graffiti n’est pas un crime” (“I graffiti non sono un crimine”, ndr).
Per quanto riguarda la libertà di espressione, pensi che la situazione sia migliorata?
“In tutto il percorso tunisino post rivolta abbiamo avuto delle sconfitte e delle conquiste; le prime legate agli omicidi politici e alla situazione economica attuale, mentre tra le conquiste vi è proprio la libertà d’espressione, anche se non è ancora totale, ma la stiamo riportando in vita e difendendo ad ogni costo. In ogni periodo e sotto ogni governo ci sono diverse sconfitte che bisogna superare, per cercare di preservare le libertà che abbiamo ottenuto dopo il 14 gennaio 2011”.
A parte il processo del 2012, quali sono ora gli ostacoli per il vostro lavoro e quale attività state portando avanti?
Dopo questo processo abbiamo avuto altri problemi con il governo e anche con dei partiti politici che erano all’opposizione. Attualmente ci sono diversi ostacoli, in primis quello finanziario: i membri del collettivo sono quasi tutti degli studenti e non hanno delle entrate fisse. Per quanto riguarda le attività, ci stiamo ampliando e abbiamo diverse sessioni in più regioni della Tunisia e anche al di fuori: in Egitto e in Senegal e presto ne apriremo una in Algeria.
Negli ultimi mesi a Tunisi diversi spazi culturali, spesso creati da collettivi, sono stati chiusi, nell’indifferenza dello stesso Stato tunisino…
Sono casi diversi e ogni collettivo presenta delle specificità. Ad esempio per Mass’Art: aveva dei problemi giuridici. Ha avuto diverse azioni di sostegno da parte della società civile, anche noi abbiamo sostenuto questo spazio con tutte le nostre forze. Gli altri collettivi invece non hanno avuto dei problemi giuridici, ma finanziari e ognuno di loro segue principi diversi di finanziamento. Noi non abbiamo bisogno per finanziarci né della società civile né delle associazioni corrotte nè dello stato che è contro la classe sociale debole, che è la maggioranza in Tunisia. La decisione di non avere legami con questi attori è un principio del nostro collettivo. Ora stiamo cercando di superare gli ostacoli finanziari attraverso dei metodi di finanziamento alternativi e mettendo in atto una nuova visione fondata sulla solidarietà tra noi membri.
Quali sono i problemi dei giovani tunisini al giorno d’oggi?
La scarsa se non assente partecipazione nella vita politica e associativa del Paese, la forte disoccupazione, la marginalizzazione da parte dei partiti politici e di alcune associazioni, la discriminazione a causa della visione diversa della società e del futuro e per i nostri comportamenti.
A proposito di giovani marginalizzati, molti tunisini sono partiti per raggiungere le fila del cosiddetto Stato Islamico. La marginalizzazione è una delle cause che li spinge a far ciò?
La marginalizzazione non è di certo l’unica ragione: a livello intellettuale c’è una debolezza e lì gli estremisti se ne approfittano. Manipolano questi giovani, promettendo loro una vita nuova e migliore.
L’intervista è stata pubblicata il 25 settembre 2015 sul sito ctrlmagazine.it: http://www.ctrlmagazine.it/intervista-a-zwewla-un-collettivo-di-poveri-graffitari/
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