Intervista a cura di Olfa Belhassine
Sociologa delle organizzazioni, Héla Yousfi è docente all’Università Paris-Dauphine. Da qualche settimana in Tunisia per presentare la versione in arabo del suo libro uscito a marzo 2015 “L’UGTT une passion tunisienne,inchiesta sui sindacalisti nella rivoluzione 2011/2014 (Med Ali Editions), segue con grande interesse le mobilitazioni sociali delle ultime due settimane.
Le ricerche per la stesura del suo libro l’hanno portata a seguire, dal 2011 al 2014, la quotidianità dei sindacalisti praticamente in tutto il paese. Che cosa le ha detto la realtà del terreno nelle regioni dell’interno riguardo ai recenti movimenti sociali?
Una cosa mi ha colpita: durante i sit-in della Kasbah 1 e 2 (2011) e poi nel momento del Dialogo Nazionale, i rappresentanti dei movimenti sociali, fra cui i sindacalisti e i militanti dell’Unione dei giovani disoccupati laureati, affermano nei colloqui che ho avuto con loro: “Sì, siamo riusciti a imporre una minima rottura con il vecchio regime, ma il consenso che è stato stabilito dall’élite politico-economica ha confiscato in parte, o relegato in secondo piano, la questione sociale. Si ricorderà come un po’ di tempo fa si polemizzasse su una “rivoluzione incompiuta”, se non una “rivoluzione confiscata”. Ora, non si decide la fine di una rivoluzione. Questo processo è lento, è inscritto in una dinamica dilazionata nel tempo. La storia dimostra come non si possa decidere sull’esito di un processo rivoluzionario dopo un anno o due. La stessa Costituzione del 2014 rappresenta l’accumulo delle lotte collettive, la prima data è quella del 26 gennaio 1978 (1), quando si aprì una breccia contro il sistema autoritario di Bourghiba. Ho imparato sul campo che la temporalità dei movimenti sociali non è quella della tattica politica.
La tattica politica si fonda sulla risoluzione del conflitto e sugli interessi legati alla condivisione del potere, mentre i movimenti sociali si basano su delle dinamiche molto lente.
Ogni volta vengono provocati da un’alchimia imprevedibile. Chi avrebbe mai pensato che, malgrado il premio Nobel ricevuto dal Quartetto lo scorso ottobre, la stabilizzazione della vita politica a seguito dell’alleanza tra Nidaa Tounes e Ennahdha, l’impegno delle autorità in una lotta al terrorismo, la realtà sociale avrebbe sorpassato la politica e che i precari sarebbero nuovamente scesi in strada?
Tre giorni fa abbiamo commemorato gli avvenimenti del 26 gennaio 1978 (1) che provocarono la morte di una cinquantina di persone, secondo le cifre ufficiali. Perchè il mese di gennaio è sinonimo d’insurrezione in Tunisia, di rivolta e di…rivoluzione?
Sin dalla storia della lotta contro la colonizzazione, ci sono stati nel mese di gennaio dei momenti molto forti di resistenza al potere costituito.E’ come se il corpo sociale attivasse un traumatismo collettivo antico inscritto nella sua memoria collettiva, nei suoi geni. Questo traumatismo provoca una mutazione molto lenta. E ogni volta la sfera politica sembra presa alla sprovvista, sorpresa dalla reazione del corpo sociale .Mentre le ragioni profonde che hanno provocato la collera e l’insurrezione non sono state, a dire il vero, soddisfatte, neppure quelle del periodo post gennaio 2011.
Gennaio ci ricorda che la lotta è incompiuta, che ci sono stati troppi morti, in questo periodo dell’anno, negli ultimi decenni. Gennaio riattiva un dolore che i politici credono dimenticato.
Ad esempio, la gente di Kasserine che commemora a gennaio i propri martiri caduti nel 2011, mentre vede i carnefici dei propri figli circolare liberamente in strada e constata come il dossier per la giustizia di transizione sia bloccato e la corruzione stia riprendendo, beh, credo proprio che abbia il diritto di sollevarsi contro una situazione che giudica insopportabile. Per tornare al gennaio ’78 e allo scontro sanguinoso fra il potere e l’UGTT, questo ricordo è inscritto negli archivi della Centrale sindacale, catalogato e trasmesso di generazione in generazione.
Quando ho discusso con i sindacalisti sugli avvenimenti del dicembre 2010 e del gennaio 2011, essi affermavano:” Nella nostra mobilitazione ci siamo ispirati molto al ’78, sapevamo che i burocrati del sindacato non avrebbero appoggiato il movimento se noi non avessimo fatto pressione.”
Oggi constatiamo, dopo gli ultimi movimenti sociali, una prossimità fra la posizione dell’UGTT e quella del potere nel trattare questa questione. Come se lo spiega?
In effetti, un comunicato della Centrale sindacale della scorsa settimana dichiarava: “L’UGTT rispetta il diritto di manifestare pacificamente, ma condanna gli atti di vandalismo, in particolare in questo periodo in cui il paese è in guerra contro il terrorismo” Questa dichiarazione ufficiale riprende gli stessi elementi semantici del discorso ufficiale e dell’insieme della classe politica usati per qualificare le mobilitazioni partite da Kasserine.
Invece sul terreno i sindacalisti erano presenti per sostenere i disoccupati. Perché l’UGTT non ha assunto la stessa posizione del 2011 in relazione alle mobilitazioni? Ciò si spiega con la storia e l’identità della Centrale sindacale: finché c’è la possibilità di negoziare con il governo, si privilegia questa modalità, attingendo a tutte le possibilità. Poi, se non trova via d’uscita con le negoziazioni, sostiene i movimenti sociali. D’altra parte, il contesto politico è cambiato, non siamo più in un sistema autoritario. L’UGTT, del resto, ha appena concluso le negoziazioni sociali nei settori pubblico e privato.
Di conseguenza un minimo di pace sociale è assicurata.
Il rapporto di forze non è dalla parte di chi scende in strada, come nel 2011, oggi troviamo solo uno strato sociale che si solleva, quello più marginale. Ciò nondimeno i disoccupati, per il loro numero, stanno diventando la forza sociale più importante del paese.
Da qualche giorno l’UGTT parla dell’urgenza di organizzare un dialogo nazionale sull’occupazione Che ne pensa?
Non si tratta di una nuova iniziativa da parte dell’UGTT. Regolarmente, l’UGTT ha invitato a convocare un dialogo nazionale sull’occupazione.
A questo livello si presentano diversi interrogativi: come far dialogare gruppi sociali divisi da interessi completamente divergenti, cioè lavoratori e padroni?Come includere i disoccupati in questo dispositivo?Che cosa si discuterà se ai vertici dello Stato non vi è alcuna visione chiara di un modello di sviluppo da stabilire per gli anni a venire?
Attualmente lei sta lavorando sulla decentralizzazione, una delle nuove disposizioni costituzionali. Cosa può apportare l’autonomia finanziaria allo sviluppo delle regioni? E quali i limiti di questo nuovo processo in cui ben presto s’avvierà la Tunisia?
La decentralizzazione viene oggi presentata, a seguito degli ultimi fatti, come la panacea che risolverà i problemi delle regioni e questo giudizio accomuna sia il governo che la sinistra radicale. E’ vero che si tratta di una rivendicazione fatta durante la rivoluzione per dire che “abbiamo sofferto troppo a causa dell’asimmetria fra le regioni per quanto riguarda la distribuzione delle ricchezze dello Stato e, allo stesso tempo, della estrema centralità di questo stesso Stato.”
La decentralizzazione è una idea di sinistra che invita i cittadini a appropriarsi localmente della gestione della loro vita quotidiana. Ora, ancora una volta non c’è stata una vera riflessione, in particolare delle scienze umane, su come concretamente attuare questo progetto.
La nuova divisione amministrativa rappresentata dalle “regioni” ha tenuto conto della dimensione antropologica e, in particolare, della organizzazione sociale di ciascuna regione? Perché le relazioni sociali non sono strutturate nello stesso modo a Sfax e Sidi Bouzid, per esempio. D’altra parte, nelle esperienze riuscite di decentralizzazione, lo Stato continua a controllare quanto succede nelle regioni, adesso in Tunisia lo Stato regolatore sembra indebolito e in decadenza. In seguito, come redistribuire le ricchezza in maniera imparziale fra le municipalità che hanno risorse sufficienti e quelle che sono più povere? Secondo quale logica? Come si affronterà la fiscalità locale? E soprattutto come neutralizzare il rischio di decentralizzare anche la corruzione? Domande che rimangono ancora senza risposta.
(1)Sotto la presidenza di Bourghiba, il governo presieduto da Hedi Nouira aveva deluso le aspettative delle classi popolari e della piccola borghesia e cercato di addossare la colpa della grave crisi economica all’UGTT. Miliziani appartenenti al Partito Socialista Destouriano di Bourghiba (partito unico al potere) moltiplicarono gli assalti alle sedi del sindacato e il 24 gennaio il segretario regionale di Sfax fu arrestato. Il 26 gennaio 1978 la Tunisia tutta si fermò, ma le manifestazioni nella capitale furono represse sanguinosamente dalla dittatura con un bilancio finale di morti di cui, ancora oggi, non si conosce l’entità: il rapporto ufficiale del governo stilò un elenco nominativo di cinquantuno persone, ma si parlò allora di oltre un centinaio di morti.
L’intervista originale è apparsa su La Presse de Tunisie il 30 gennaio 2016:
Traduzione dal francese a cura di Patrizia Mancini
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