Trecento chilometri separano Kasserine dalla capitale Tunisi. Da Moncef Bey, la stazione da dove partono i louage (dei taxi collettivi che coprono le lunghe distanze, collegando la capitale ad altre città del Paese), sono circa cinque ore di strada.
Man mano che ci si avvicina alla regione di Kasserine, cominciano ad apparire sul ciglio della strada le taniche di benzina di contrabbando, portata illegalmente dall’Algeria. Ai posti di blocco della polizia i passeggeri a bordo del louage devono consegnare la carta di identità per i controlli. Poco prima dell’ingresso della città, all’ennesimo posto di blocco, a un uomo che viaggia con noi, reo di avere una barba (normalmente chi porta la barba viene identificato come salafita, ma non tutti i salafiti sono estremisti, ndr), chiedono di aprire il suo zaino. La polizia prende il Corano che si trova all’interno e comincia a sfogliarlo, come se volesse cercare qualche prova di una sua appartenenza a qualche gruppo jihadista. L’uomo viene poi interrogato per dieci minuti e, appurato che tutto è a posto, rilasciato.
Sembra di tornare indietro nel tempo, quando con Ben Ali segni esteriori di appartenenza religiosa trasudavano sospetto ed erano motivo di persecuzione. All’entrata un murales, «we are the revolution», campeggia fin dal 2011 come a ricordare ai visitatori che Kasserine è stata tra le città che ha fornito più «martiri» alla causa della rivoluzione.
La scintilla si è riaccesa il 17 gennaio, dopo la morte del 26enne Ridha Yahyaoui, giovane laureato disoccupato, morto fulminato mentre stava protestando salendo su un palo della luce poiché il suo nome era stato tolto arbitrariamente dalla lista dei disoccupati del pubblico impiego, l’ultima sua speranza di trovare un lavoro.
Come con il giovane Bouazizi, la sua morte ha dato il via a movimenti di protesta che si sono estesi a macchia d’olio nel Paese. Le parole d’ordine: lavoro e trasparenza. Ma se nelle altre città nel giro di poco tempo è ritornato il silenzio, Kasserine continua a portare avanti le sue istanze. E lo fa in modo pacifico: da due settimane i giovani hanno infatti occupato la sede del governatorato. Passano lì giorno e notte, 150 ci dormono, il va e vieni giornaliero arriva a 500 – 600 persone. Il governo, da parte sua, ha annunciato diverse misure, tra cui 5.000 posti di lavoro (notizia poi smentita, si tratta in realtà di regolarizzazione di lavori precari già esistenti), 500 progetti finanziati dalla banca nazionale della solidarietà, una commissione internazionale che indaghi sul fenomeno della corruzione, privatizzazione delle terre. Ma per questi giovani rimangono solo parole utili per calmare le acque. «Siamo qui per dire allo Stato che i giovani di Kasserine vogliono che si faccia qualcosa di concreto per sviluppare questa regione – riferisce Chamseddine Tlili, 30 anni, ingegnere informatico -. Perché si investe sempre nelle regioni costiere? Perché lo Stato non rende giustizia a questa regione? Perché non si investe qui? Io ho lavorato a Tunisi, ma il problema è che non c`è stabilità, i salari sono bassi e spesso in nero. Abbiamo bisogno di messaggi concreti, qualcosa che sia realizzabile». I militari presenti, oltre a controllare che non ci siano problemi, raccolgono diversi dossier, contenenti diplomi e curriculum portati dai cittadini.
Finora sono 4.000, nella speranza che lo Stato possa classificarli e valutare una soluzione concreta per risolvere il problema della disoccupazione, che in questa regione tocca il 26,2% contro il 17,6% a livello nazionale. Mouna Rebaoui è qui per portare i diplomi dei due suoi figli: «È da 10 anni che preparo e vendo il pane per poter guadagnare qualcosa – racconta -: sia mio marito che i miei figli lavorano come muratori, ma occasionalmente. Vengono a prenderli la mattina con il camion, lavorano a giornata. Non si può andare avanti così».
Nel cortile, tra le tende presenti, troviamo Hichem Bouazizi: insieme ad altre 16 persone, da tre giorni ha iniziato uno sciopero della fame. Lui si è cucito gli angoli della bocca in segno ulteriore di protesta.
Ci mostra le foto del padre, Lamine Bouazizi, che nel 1983 ebbe un grave incidente nella fabbrica di cellulosa di Kasserine e fu mandato in Francia per essere curato. Hichem per due anni ha lavorato nella stessa fabbrica, per poi essere licenziato «senza valide ragioni».
Dalla strada si levano cori di protesta: è la manifestazione organizzata dall’Ugtt, il sindacato più grande della Tunisia, che dopo aver sfilato per il centro, al grido di «Chogel, horria w karama wataniyya», «lavoro, libertà e dignità nazionale», gli stessi slogan scanditi durante la Rivoluzione della dignità del 2010, sono arrivati alla sede del governatorato per portare la loro solidarietà agli occupanti. «Non è vero che i giovani vogliono lavorare solo nello statale – spiega Chedli Kortli, smentendo le voci di chi li vorrebbe interessati solo a lavori statali e non disponibili a fare altro -. Ho lavorato a Djerba e a Sousse nel settore turistico, ma sono lavori stagionali e dopo l’attentato a El Kantaoui sono ritornato a Kasserine. È un diritto dell’uomo, il lavoro. Il governo dice che gli investitori non vogliono venire qui, ma non fa nulla per incentivarli. E se un giovane volesse provare a creare un suo progetto, complica le cose invece di facilitarle, non incoraggia in questo senso». Non si sa fino a quando durerà l’occupazione: quel che è certo, è che nessuno vuole arrendersi, come sottolinea uno degli striscioni appesi: «Le nostre richieste sono legittime e il lavoro non è un favore».
Aggiornamenti al 5 febbraio 2016 : i ragazzi in sciopero della fame sono arrivati a sei giorni di digiuno e tutti si sono cuciti le bocche. Tre di loro non bevono né mangiano. Tutto il gruppo é stato trasportato in ospedale, ma molti hanno rifiutato le cure ospedaliere. Giovedi’ quattro persone hanno tentato il suicidio. le loro condizioni di salute peggiorano di giorno in giorno. Uno di loro é arrivato ad avere solo 0.34 g di zucchero nel suo corpo e si sta lasciando morire. I familiari stanno tentando di convincerlo a fare le flebo. Riferiscono che al momento nessuno del governo si é ancora presentato per visitarli.
L’articolo originale è uscito su “L’eco di Bergamo” Il 1 febbraio 2016
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