Mario Sei
E’ quasi sorprendente costatare come questo piccolo paese del Mediterraneo, che prima del 2011 era ricordato solo per le sue spiagge e le sue dune di sabbia, sia diventato, da qualche anno, il crocevia di eventi e processi globali che stanno determinando la storia del nostro mondo. Se come meta turistica è stata cancellata da tutti i dépliant pubblicitari, dalla rivoluzione di cinque anni fa, la Tunisia torna spesso a occupare, in effetti, la prima pagina dei media internazionali. Come molti analisti osservarono giustamente, quella rivoluzione, per la sua portata globale, doveva essere considerata un macro-evento che aveva rimesso in movimento la Storia e invalidato così l’idea di una sua fine. Dopo la caduta del muro di Berlino, in molti credevano, infatti, che il processo della Storia sarebbe stato definitivamente inghiottito dal sistema globale del libero mercato e del capitale. Con la Storia che si rimetteva in movimento, riemergevano anche “figure” che si ritenevano ormai appartenere ad altri tempi: la massa in rivolta, la rivoluzione… Quel che è certo, è che direttamente o indirettamente, le “primavere arabe” hanno travolto il mondo intero.
Come tutti sappiamo, l’entusiasmo iniziale – spesso finto e ipocrita – per quelle masse in rivolta che chiedevano “libertà, lavoro, dignità”, è durato poco. Con il crollo di vecchi regimi, la rottura di un certo equilibrio geopolitico e il riemergere di antichi conflitti non sanati, si è creata una situazione caotica ed esplosiva. Grazie anche alla voragine aperta dalla criminale e irresponsabile guerra in Iraq, il radicalismo jihadista ha esteso il controllo su interi territori oltre che in Iraq anche in Siria e in Libia, e dal 2012 gli attentati terroristici sono aumentati in modo esponenziale. E’ naturalmente aumentato anche il flusso di migranti e di morti, che dal sud del Mediterraneo si riversano in un’Europa che non sa e non vuole affrontare il problema.
Se ci limitiamo a elencare i fatti e a una visione che si ferma all’oggi, il bilancio di questi cinque anni di Storia che la rivoluzione tunisina del 2011 ha innescato non può che essere negativo. In Europa, per la lotta al terrorismo e a Daesh – della cui diffusione, l’Europa, non dimentichiamolo, ha una parte importante di responsabilità – la politica decide misure di sicurezza che riducono le libertà personali e si prepara ad altre guerre disastrose; per lottare contro l’immigrazione, pensa invece di abolire il trattato di libera circolazione interna, uno dei pochi pilastri su cui si regge la sua costruzione unitaria, e alcuni paesi si apprestano a varare norme, come il sequestro dei beni ai migranti che ricordano la barbarie delle persecuzioni naziste. Islamofobia e razzismo, sempre presenti in forma latente, si sono diffusi e hanno impregnato le coscienze, sentimenti che sono alimentati e “normalizzati” da formazioni di destra, nazionaliste e antiliberali, che conquistano sempre più spazio nella scena politica europea. Se dall’Europa volgiamo invece lo sguardo verso i paesi al sud del Mediterraneo, la situazione è indubbiamente ancora più tragica: o la guerra e gli interessi geopolitici incrociati continuano a seminare fame e morte, oppure, come in Egitto, si è ritornati a una dittatura ancora più sanguinaria e repressiva della precedente. Unica, parziale, eccezione è, in effetti, la Tunisia, laddove tutto è cominciato.
E’ questa eccezionalità che il Nobel della pace ha voluto riconoscere, cioè il fatto di aver saputo costruire in modo relativamente pacifico un percorso costituzionale che ha garantito il pluralismo rappresentativo. Nominalmente, il Nobel è stato attribuito al denominato quartetto (il grande sindacato nazionale UGTT, l’associazione patronale Utica, l’Ordine nazionale degli avvocati e la Lega tunisina per i diritti dell’uomo) che ha in realtà agito da mediatore tra le due principali forze politiche in campo, polarizzate e appiattite attorno all’opposizione islamisti-laici. E’ però giusto osservare che se un merito va riconosciuto, questo va attribuito, oltre che al popolo tunisino nel suo insieme, anche alle forze che hanno accettato il compromesso e quindi, naturalmente, anche al partito islamista Ennahdha. Nonostante i tragici eventi attraversati in questi anni (gli assassini politici, i sanguinosi attentati sia contro turisti sia contro membri della guardia presidenziale, la perdita di decine di vite tra militari e civili nella lotta contro gruppi di jihadisti insediati in zone dell’entroterra), la Tunisia è effettivamente riuscita a evitare una possibile guerra civile, a dotarsi di un’ottima costituzione e a costruire un assetto istituzionale formalmente democratico.
Tutto questo non è certo poco, è anzi la condizione per l’esistenza di uno spazio politico, ma rischia di rimanere un involucro vuoto se il vecchio quadro legislativo, in vigore durante la dittatura, non viene adeguato ai dettami della nuova costituzione e del nuovo assetto istituzionale. Ebbene, non pare che il governo attuale, in carica dalle elezioni dell’ottobre 2014 e formato da un accordo tra il partito “laico” Nidaa Tounes che detiene la maggioranza relativa, e il partito islamista, abbia una seria volontà di procedere in tal senso. La percezione diffusa è anzi quella di un lento ritorno alla situazione precedente al 2011: clientelismo, corruzione, gestione mafiosa dello stato, metodi repressivi, marginalizzazione delle regioni povere del paese. L’assenza di un organo di controllo – la nomina della Corte Costituzionale è bloccata da mesi – e la minaccia del terrorismo, permettono e giustificano pratiche repressive che riproducono, spesso inasprendoli, i metodi polizieschi usati durante la dittatura, e i cui effetti negativi ricadono soprattutto sui giovani, che tendono a essere criminalizzati in quanto tali, inasprendo così il loro senso di frustrazione, di rabbia e di rifiuto dello Stato. Senza esagerare troppo, potremmo dire che così come in Europa, ogni testa d’arabo è oggi trattata con sospetto, in Tunisia sono i giovani a subire questo trattamento, tra l’altro costantemente minacciati da una legge del vecchio codice penale che condanna a un anno di prigione chiunque risulti positivo al test sulla cannabis, il cui consumo è, qui come altrove, particolarmente diffuso tra le giovani generazioni.
Ma ciò che per gran parte della popolazione ha minato nel profondo la credibilità del presidente Essebsi e del suo partito Nidaa Tounes, in cui peraltro sono confluiti molti politici e uomini d’affari del vecchio regime, è stato il tentativo di far approvare una legge di riconciliazione nazionale che avrebbe significato una vera amnistia per tutti i reati di corruzione e abuso commessi durante la dittatura. Con l’approvazione di questa legge, il cui dibattito parlamentare è stato posticipato in seguito a forti proteste sociali, sarebbe naturalmente diventata del tutto inutile la commissione “Verità e Dignità”, un organismo creato nel 2013 con il compito di costituire una memoria storica sui crimini commessi dalla dittatura e permettere alla Giustizia transizionale di fare il suo corso.
Dopo la fallimentare esperienza del governo guidato da Ennahdha, Nidaa Tounes era riuscito a vincere le elezioni, sebbene con margini abbastanza stretti, soprattutto in funzione anti islamista e presentandosi, in modo peraltro piuttosto vago e mitico, come erede del padre della patria Habib Bourghiba. A distanza di un anno, grazie anche all’implosione del partito, dilaniato da pietosi conflitti di potere, è ormai chiaro per tutti che Nidaa Tounes non si fonda su alcun progetto politico, se non quello di far dimenticare lo slancio rivoluzionario, mantenere vecchi privilegi e assicurare lo status quo. D’altra parte, commentando l’anniversario della rivoluzione tunisina del 14 gennaio, quasi tutti i media hanno osservato la grande disillusione nella popolazione e la generale disaffezione per la politica.
Eppure, a dimostrazione del fatto che ogni bilancio sulle primavere arabe che si ferma all’oggi non può che essere riduttivo poiché si tratta di un processo ancora in atto e iscritto nel lungo termine, nei giorni seguenti alle commemorazioni per l’anniversario, delle manifestazioni di rivolta esplodono un po’ ovunque nel paese e la Tunisia torna a far parlare di sé, attirando l’attenzione dei media internazionali. I fatti sono noti: a Kasserine, città del centro ovest a 300 km dalla capitale, un giovane muore fulminato mentre per protesta contro il sistema corrotto delle assunzioni municipali si era arrampicato su un palo della luce: l’episodio scatena violente proteste che da Kasserine si propagano in altre città e raggiungono la capitale. Nonostante la morte di un poliziotto e diversi episodi di vandalismo e saccheggio, è importante osservare che l’atteggiamento delle forze di sicurezza, seguendo ovviamente le direttive del ministero degli interni, è stato di contenimento e non di violenta repressione. Un simile comportamento non rispecchia molto le pratiche della polizia nazionale, è dunque facile immaginare che il governo abbia capito il potenziale esplosivo di queste proteste e abbia quindi scelto di attenuare il confronto, cercando piuttosto di delegittimare e criminalizzare il più possibile i movimenti di protesta. Il ministero degli interni ha comunque decretato un coprifuoco, durato fino al 4 febbraio, che è probabilmente servito a calmare saccheggi e vandalismi, ma non ha spento i focolai di rivolta e protesta che si stanno organizzando in diversi luoghi del paese.
Un po’ come l’Italia, la Tunisia ha una sua “questione meridionale” che proviene da lontano e che con gli anni si è acuita. Il divario socio-economico tra le zone della costa e le regioni dell’interno, in cui spesso mancano anche i servizi e le infrastrutture essenziali, è enorme. Il problema della disoccupazione giovanile e della totale assenza di prospettive colpisce queste regioni in modo ancor più grave del resto del paese e l’ormai cronica crisi economica non lascia per nulla sperare in un prossimo miglioramento della situazione. Tutti i segnali indicano piuttosto il contrario, e in questo la Tunisia non si discosta certo dalla tendenza globale: aumento del divario tra ricchi e poveri, lenta e progressiva erosione della classe media, aumento della disoccupazione. La grande differenza tra la situazione di un paese come la Tunisia e altre regioni d’Europa, come per esempio il mezzogiorno italiano, è data però dal fatto che i giovani tunisini non possono emigrare; non possono, come i loro coetanei europei, viaggiare e sperare di costruirsi un percorso di vita. Prigionieri a cielo aperto in una terra che non offre alcuna possibilità e in cui “lo Stato” non esiste, è facile capire come per paesi in cui la fascia generazionale compresa tra i 18 e i 30 anni è maggioritaria, questa situazione sia di per sé esplosiva. Le masse di giovani, in gran parte altamente scolarizzate, che nel 2011 hanno invaso le piazze, fatto crollare regimi sanguinari e appassionato il mondo intero, continuano ad esistere, e continua ad esistere, aggravato, lo stesso disagio sociale. Nessuna logica puramente repressiva potrà impedire, nel prossimo futuro, flussi migratori sempre più imponenti o il divampare di violenti conflitti sociali, ed è proprio in questo senso che le rivolte scoppiate in Tunisia a cinque anni esatti dalla rivoluzione assumono un profondo significato che va aldilà del semplice fatto di cronaca.
Sgomberiamo il campo, per cominciare, da quelle interpretazioni un po’ patetiche, espresse in molti media nazionali e internazionali, che in queste rivolte hanno voluto vedere la matrice del radicalismo jihadista. Altrettanto fantasiosa è l’idea – sostenuta dal presidente Essebsi e dal suo partito, poi propagata da molti organi d’informazione e condivisa dalle elites “perbene” della società – che a fomentare le proteste ci fosse una manipolazione di alcune forze politiche del paese che mirano a screditare il governo e a destabilizzare lo Stato. Il tentativo di criminalizzare l’intero movimento di protesta, centrando l’attenzione sugli episodi di vandalismo o saccheggio e pronunciando discorsi sul principio di legalità, risulta inoltre poco credibile se a farlo è qualcuno che da una parte condanna aspramente delle vetrine rotte e, dall’altra, propone di dimenticare i crimini della dittatura e legalizzare delle immense ricchezze ottenute con abusi e metodi mafiosi.
E’ anche però necessario, all’estremo opposto, evitare di scivolare in un facile romanticismo e idealizzare, a priori e incondizionatamente, ogni forma di protesta popolare. Nel caso della Tunisia, un limite è dato dal fatto che con la liberazione della parola e delle possibilità d’azione, il crollo della dittatura ha naturalmente reso possibile il proliferare scoordinato di proteste e rivendicazioni d’ogni tipo che non possono essere soddisfatte nell’immediato o isolatamente, poiché per affrontarle sarebbe necessario un progetto di trasformazione organica della società sul breve e lungo termine. E’ evidente che lo Stato non può risolvere il problema della disoccupazione giovanile creando fittizi posti di lavoro e assumendo migliaia di persone nell’amministrazione pubblica. Anche ammettendo tutto questo, resta comunque, immutato e ineludibile, il problema strutturale e la legittimità “pura” di grandi masse che chiedono lavoro e una vita dignitosa. A queste masse vanno date risposte che non possono limitarsi a vaghe promesse rinviate in un fantomatico e lontano futuro ed è la ragione per cui la risposta del primo ministro Habib Essid, che pur riconoscendo la realtà del profondo disagio sociale ha affermato di non disporre di una bacchetta magica, è del tutto insoddisfacente. Non solo perché dopo cinque anni dalla rivoluzione sarebbero oramai dovuti divenire tangibili dei segnali di cambiamento, ma soprattutto perché le direttive in termini di politica economica riproducono le vecchie ricette neoliberali e di privatizzazioni che, come l’esperienza insegna, sono la causa del disastro e non la soluzione. In un altro mondo possibile, per trovare capitali e creare infrastrutture adeguate nelle regioni povere del paese, condizione per ogni possibile sviluppo, si sarebbe potuto rinegoziare il debito esterno e stabilire una patrimoniale eccezionale che colpisse i grandi patrimoni. Ma siamo assai lontani da questo mondo possibile e nella realtà delle cose la direzione presa dai governi post-rivoluzionari, compreso l’attuale, è diametralmente opposta: non solo sono stati negoziati nuovi prestiti con il FMI e la Banca Mondiale, di cui i 4/5 servono a coprire gli interessi per i debiti contratti durante la dittatura e serviti soprattutto ad arricchire la cerchia degli amici, ma si pensa di condonare appropriazioni e arricchimenti indebiti avvenuti a scapito della nazione. A ciò si aggiunge il negoziato per un accordo sul libero scambio tra Tunisia e Unione Europea (ALECA) che comporterà una totale liberalizzazione di capitali e prodotti europei e di cui, com’è facile prevedere, la Tunisia non trarrà alcun beneficio.
Dicevamo prima che le rivolte in Tunisia assumono un profondo significato perché la rabbia, la frustrazione e le rivendicazioni di quelle masse di giovani sono le stesse che covano nelle coscienze di gran parte della popolazione mondiale e che prima o poi esploderanno o in forme violente o provocando enormi flussi migratori. Nel contesto attuale, le sinistre tradizionali sono generalmente incapaci di rappresentare e orientare la rabbia e il disagio sociale, o perché interamente integrate nel sistema che dovrebbero combattere o perché legate a obsoleti schemi di pensiero e di discorso. Anche senza voler stabilire dei rigidi automatismi, è però innegabile che da questa situazione ne traggono vantaggio il radicalismo jihadista e, in modo speculare, le forze dell’estrema destra xenofoba e razzista, lasciando immaginare, per il mondo che viene, scenari di violenze e guerra globale. Le rivolte scoppiate ultimamente in Tunisia sono quindi le nostre rivolte non solo per un ideale di giustizia sociale, ma anche per motivi più prosaici e strumentali. Il credo neoliberale imperante, basato in gran parte su un’economia speculativa e finanziaria, ragiona per sua stessa natura sulla rendita a breve e a brevissimo termine, indifferente ai disastri ambientali o alle profonde ingiustizie e disuguaglianze sociali che può generare e che stanno effettivamente acuendosi ovunque. Se nulla modificherà l’attuale assetto economico e politico del mondo, rivolte sanguinose, guerre tra poveri e terrorismo diventeranno il quotidiano terrificante delle nostre società. La vera urgenza sta oggi nella costruzione di una nuova forma di radicalismo politico che offra une visione di speranza per un mondo diverso e che tolga quindi capacità d’attrazione sia al terrorismo sia alle destre razziste. Non sembra retorico affermare che anche per il futuro continua a valere l’alternativa tra socialismo o barbarie.
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