Stefano M. Torelli, ISPI Research Fellow
Durante e subito dopo l’avvento delle cosiddette Primavere arabe, la domanda che era tornata a ricorrere in maniera quasi ossessiva era: “il mondo arabo è compatibile con la democrazia?”. Niente come tale quesito, spesso riproposto in salsa cultural-religiosa (“l’Islam è compatibile con la democrazia?”), risulta privo di senso, se l’obiettivo è quello di immaginare come possa evolvere la situazione politico-istituzionale nei paesi arabi. In effetti, non ha senso interrogarsi sulla presunta compatibilità o meno di queste realtà (come di altre) con le pratiche democratiche, se non si chiariscono prima alcuni concetti fondamentali per questo tipo di analisi. Prima di tutto, occorre specificare cosa si intenda per “democrazia” e attraverso quali processi evolutivi si possa arrivare a una forma di governo che possa essere definita tale. In secondo luogo, è bene riflettere sull’efficacia di sistemi che potrebbero essere a prima vista democratici, in contesti che presentano oggettive problematicità che vanno ben oltre la presenza o meno di istituzioni democratiche. Infine, nel voler ergersi a valutatori del grado o meno di democrazia che si è raggiunto – o che potenzialmente potrà essere raggiunto – in questi paesi, sarebbe bene considerare un altro fattore che, spesso viene tralasciato come se non fosse importante: il tempo. È possibile decretare il successo o il fallimento di un processo di democratizzazione dopo uno, due, cinque anni? O, piuttosto, occorre armarsi di pazienza e prendere coscienza del fatto che ogni analisi, in questo momento, può essere soltanto parziale?
Avendo chiari in mente tali avvertimenti, è possibile per lo meno individuare delle tendenze riguardo il tema della democratizzazione in Medio Oriente e, nello specifico, nei paesi arabi interessati dalle rivolte del 2011. Occorre fare un’ultima premessa, prima dell’analisi: di tali paesi, almeno tre – seppure con diverse dinamiche e a livelli diversi – versano oggi in una condizione di conflitto civile (se non regionale o internazionale): Libia, Yemen e Siria. Pertanto, rimangono solo due casi studio da analizzare, la Tunisia e l’Egitto. Si tratta di due realtà molto diverse tra loro e difficilmente paragonabili, ma sicuramente i processi scaturiti in questi due paesi dal 2011 ad oggi possono essere analizzati in chiave comparata. Prima di tutto occorre rispondere alla prima domanda: cosa si intende per democrazia? Se parliamo di democrazia procedurale, come definita dalla scienza della politica tradizionale, allora un sistema è democratico nella misura in cui siano rispettati e costituzionalizzati i principali diritti civili e politici, sia garantita la libertà di espressione e si svolgano libere e pluraliste elezioni. In questo senso, sicuramente la Tunisia che abbiamo di fronte nel 2016 può essere definita una democrazia e, per alcuni versi, l’Egitto che ha eletto Mohamed Morsi come Presidente nel 2012 poteva essere definito una democrazia in fase embrionale. Addirittura, persino la Libia è stata additata come un nuovo esempio di democrazia nel momento in cui i libici sono stati chiamati alle urne – più volte – per eleggere il nuovo parlamento e l’Assemblea costituente tra il 2012 e il 2014. Ma ciò che è accaduto dopo dimostra che un’elezione non fa una democrazia.
Cosa è la democrazia, allora? Sicuramente si dovrebbe prendere in considerazione almeno la definizione di democrazia sostanziale, quella cioè in cui non solo sono presenti le caratteristiche di quella procedurale, ma in cui, come diceva Robert Dahl, si riscontri la capacità del governo di soddisfare le preferenze e le istanze dei propri cittadini, in maniera continuativa e all’interno di in un quadro di eguaglianza politica. E’ qui che vengono al pettine i nodi di sistemi ancora troppo giovani e fragili per poter essere definiti democratici. Ed è qui che arriva la seconda domanda: quanto è realmente effettiva una democrazia basata solo sulla legittimazione derivante dal voto? La Fratellanza Musulmana ha governato in Egitto tra il 2012 e il 2013 sostanzialmente senza tener conto delle istanze delle minoranze e in maniera esclusiva. In Tunisia, la cosiddetta trojka (composta dal partito islamico al-Nahda e i due partiti secolari Congresso per la Repubblica ed Ettakatol) che ha governato tra il 2011 e il 2014 è entrata in crisi per non aver saputo affrontare le cause principali del malcontento sociale, soprattutto delle giovani generazioni, vale a dire un mercato del lavoro non adeguato (che si traduce in uno dei più alti tassi di disoccupazione, giovanile e non, al mondo) e le enormi disparità tra le regioni costiere (più ricche) e quelle interne e dell’Ovest, che hanno creato nei decenni sacche di estrema povertà e radicalizzazione. Appare chiaro, dunque, che non basti la creazione di strutture vagamente democratiche, affinché si possa parlare di processi di democratizzazione di successo. Accade, infatti, che i governi democraticamente eletti non soddisfino le domande dei cittadini. Cosa succede a questo punto? È qui che interviene un altro fattore a determinare l’esito dei processi di transizione politica: l’esistenza (spesso la preesistenza) di istituzioni forti. Questo elemento contribuisce a cambiare la traiettoria dell’evoluzione politica di un paese, laddove si instauri una fase di cambiamento. La Libia è emblematica: uno Stato che era fondato di fatto non su un’istituzione, ma su una persona – Gheddafi – si è trovato nel caos nel momento in cui tale elemento è venuto meno e non vi erano altre istituzioni che potessero sostituirlo. In Egitto è sempre esistita una sola vera istituzione riconosciuta e legittimata nei decenni: l’esercito. Ed è su questa struttura che si è poggiato il paese di fronte al fallimento dell’esperienza di governo dei Fratelli Musulmani, con il risultato che l’Egitto è tornato ad avere un regime di tipo autoritario. La Tunisia ha storicamente avuto delle istituzioni informali rappresentate dai movimenti sindacali e dalle associazioni della società civile; istituzioni che, anche sotto Ben ‘Ali, avevano trovato il modo di convivere con il regime. E, nel momento di crisi della trojka, è su questa “istituzione” che la Tunisia ha potuto contare: il dialogo nazionale che ha portato alla formazione di un governo tecnico e, successivamente, a nuove elezioni democratiche alla fine del 2014, è stato promosso dalle associazioni della società civile, che per questo hanno vinto il Nobel per la Pace.
Tutto ciò basta per poter affermare che la Tunisia sia oggi una democrazia compiuta? A ben guardare, se per democrazia intendiamo quel modello di stato in cui i governi soddisfino continuativamente le esigenze dei cittadini, la risposta dovrebbe essere negativa. Ma forse non è un discorso di “democrazia” o di “compatibilità” con il mondo arabo. Quanto, piuttosto, di capacità delle stesse strutture democratiche di agire per il bene della comunità. Possiamo individuare tre livelli del processo di democratizzazione. Prima di tutto, occorre che vi sia una democrazia procedurale, con elezioni libere e libertà garantite; in una seconda fase vi è la creazione e la capacità di mantenimento di istituzioni solide che possano servire da sovrastruttura per l’avvio di un reale processo democratico; infine, vi è la fase della pianificazione e della messa in atto di politiche mirate a soddisfare le esigenze dei cittadini – di tutti i cittadini, comprese le minoranze, che pur vanno tutelate – e a risolvere le questioni più dirimenti per il benessere e il reale funzionamento del sistema politico e sociale. In questa speciale “graduatoria”, l’Egitto si è trovato per un anno nella condizione di aver visto avviato un processo di democratizzazione, ma le istituzioni politiche che ne sono scaturite sono state troppo deboli per reggere all’onda d’urto del ritorno dei militari. La Tunisia ha passato quella fase, avendo creato (più o meno) solide strutture istituzionali in grado di garantire l’avvio potenziale di un reale processo di democratizzazione, ma deve ancora affrontare la sfida delle risposte politiche da dare alla popolazione. Senza queste ultime, come si è visto nelle settimane scorse, il rischio è quello di avere sì istituzioni democratiche, ma di fatto malfunzionanti e inefficienti, con il conseguente ritorno in piazza di migliaia di giovani disillusi e la paura del ritorno a pratiche autoritarie. Nessun paese, infine, è arrivato a raggiungere il livello della democrazia compiuta, attraverso le cosiddette “buone pratiche”.
Non esiste la società perfetta, verrebbe da dire. Ma qui interviene il fattore tempo, citato all’inizio. Al di là dei processi alle intenzioni, come si può pretendere, dalla sponda Nord del Mediterraneo che pur ha impiegato decenni per giungere ai livelli di “civiltà politica” che vanta oggi, che tutto si trasformi in meglio sulla sponda Sud, nel giro di pochi anni? Nell’additare il governo Morsi in Egitto come “fallimentare”, non si è avuta la bontà di attendere il naturale corso degli eventi, ma si è voluto stare a guardare chi, con frettolosa impazienza, lo ha rovesciato, in maniera preventiva. Al contrario, nel giudicare la Tunisia come l’unica storia di successo, non si è voluto vedere che vi erano – e vi sono – ancora delle ombre che non possono essere sottostimate. Senza parlare di come, allo stesso modo frettolosamente, si è temuto che il sogno democratico tunisino svanisse dopo gli attentati del Bardo e di Sousse, senza attendere che il paese rispondesse alla minaccia jihadista e la politica tentasse di riequilibrare la situazione. La democrazia non si esporta, non si compra, né si copia da altri modelli. La democrazia è il risultato di tentativi – alcuni a buon fine, altri meno, ma che pur servono per tarare le scelte politiche future – protratti per anni, soprattutto in contesti che non hanno mai sperimentato un reale clima di liberalizzazione politica. E, soprattutto, nei suoi momenti embrionali la democrazia può essere fragile e facilmente vulnerabile, al punto da creare quell’illusione del “si stava meglio prima”, che tanti danni ha prodotto dal Cairo a Tripoli, da Damasco a Sana‘a. È in questi momenti di vulnerabilità e parziale disillusione che vivono le società nelle fasi immediatamente successive all’avvio di una transizione politica, che si potrebbe intervenire dall’esterno per sostenere e incoraggiare quei cambiamenti attraverso i mezzi politici e diplomatici di cui il mondo occidentale (con l’Europa in prima fila) dispone. Del resto, soltanto 70 anni fa, neanche l’Europa avrebbe raggiunto la piena maturazione democratica senza il sostegno di un attore esterno. L’alternativa è stare a guardare e giudicare a posteriori, accettando anche i repentini cambi di direzione in senso autoritario, che nel Nord del Mediterraneo prendono spesso il nome di “stabilità”. Ma, a quel punto, non interroghiamoci più sulla possibilità o meno che in quella parte di mondo possa giungere la democrazia.
Pubblicato il 12 febbraio 2016 su http://www.ispionline.it/it/pubblicazione/la-democrazia-dopo-la-primavera-araba-ha-senso-parlarne-14608
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