Sadri Khiari (febbraio 2016)
La rivista online “Contretemps” ha ripubblicato recentemente un articolo di Sadri Khiari che era apparso in francese sul nostro sito il 15 giugno 2015, con una introduzione che lo attualizza all’indomani delle rivolte e dei sit-in che hanno nuovamente scosso il paese nel gennaio scorso, a cinque anni dall’inizio della rivoluzione. Abbiamo ritenuto interessante tradurre questa parte per il pubblico italiano in quanto offre un punto di vista originale sulle cause dell’affossamento di queste recenti lotte. L’articolo è uscito in italiano nel numero 2/3 2015 di “Critica Marxista”
Resistenza e disperazione: come fare chiarezza sulla rivolta che ha incendiato villaggi e cittadine delle regioni rurali e semi-rurali del paese lo scorso gennaio? A quasi cinque anni esatti dall’inizio della rivoluzione, uno scenario simile e identiche ragioni. Mentre molti si affrettano a sotterrarla, la rivoluzione sconfitta travolge i suoi affossatori: nessuno sarà al sicuro!
Kasserine, centro-ovest della Tunisia, in prossimità della frontiera algerina, a circa 300 chilometri dalla capitale. Il 17 gennaio, un giovane disoccupato, Ridha Yahiaoui, si uccide. Non è stato il primo. Altri l’avevano preceduto. Il 17 dicembre 2010, a Sidi Bouzid, Mohamed Bouazizi s’immola dandosi fuoco. Il paese insorge. L’insieme del mondo arabo esce da decenni di torpore e smarrimento e ciò rappresenta, di per sé, una vittoria. Comincia la rivoluzione. Cinque anni dopo, partita da Kasserine, la rivolta esplode nuovamente estendendosi a tutte quelle ragioni che per convenzione vengono chiamate “l’interno” del paese, la sua parte oscura e negletta.
Cortei, occupazioni di spazi, sit-in, blocchi stradali, scioperi, digiuni, tutte le modalità di protesta sono messe in atto. La rivoluzione ricomincia. Ma ricomincia per non durare. Essa riparte senza i grandi battaglioni della classe operaia organizzata nelle grandi città della costa, senza la piccola borghesia di Tunisi, Sfax e di altre città, sicuramente senza quelle frange della borghesia che non si erano dispiaciute, cinque anni prima, di veder sloggiare quei due “cafoni”, Ben Ali e consorte, colpevoli di arricchirsi a loro spese. La rivoluzione riparte quasi per una questione d’onore, sfibrata da sconfitte e tradimenti. La rivoluzione ha voglia di vomitare quando vede, oggi, i suoi vecchi dirigenti. Per il mondo arabo, nel solo livello – in effetti non propriamente politico -, in cui la rivoluzione avrebbe potuto vincere, essa ha vinto e poi perso, seppellita, schiacciata, smembrata dalle forze controrivoluzionarie, e di cui Daech non è che l’escrescenza mostruosamente caricaturale che succhia il sangue della rivoluzione di cui si alimenta . E la Tunisia, checché se ne dica, non è sfuggita a questa violenza.
La contro-rivoluzione, ormai al potere, si è avvantaggiata della violenza e dei massacri che hanno stroncato la rivoluzione negli altri paesi arabi. Si è avvalsa, inizialmente, della violenza delle forze di polizia e di repressione, della violenza dei gruppi “jihadisti” che gli intoppi della rivoluzione hanno alimentato, e infine della miseria che provoca il terribile “sciopero” orchestrato dal padronato e che viene chiamato “caduta degli investimenti”, “crisi economica”, “mancanza di fiducia”, uno sciopero politico che richiedeva una risposta politica, repressiva, e non questa famosa “riconciliazione nazionale” che, in un modo o in un altro, finirà per essere imposta. Perché Ben Alì non c’è più, ma i benalisti sono di nuovo al potere, presenti, sempre più presenti. Certo, si stanno scannando fra loro per spartirsi la torta e, per il momento, non sembrano molto inclini a rimettere in causa le principali forme democratiche acquisite dalla rivoluzione, così come in Francia, secondo Marx, le frazioni monarchiche del 1848 non potevano governare insieme se non nella repubblica. Ma oggi sono proprio le reti degli affaristi, dei grassatori, dei burocrati e degli uomini di Stato forgiatisi sotto Ben Alì che danno il la, anche se sanno bene di essere tributari dei cambiamenti profondi introdotti dalla rivoluzione. Sono costretti in questo modo a condividere il potere, a negoziare con le principali forze politiche emerse dalla rivoluzione e in particolare con il partito islamista Ennahdha. Allo stesso modo devono tener conto degli interessi specifici dell’UGTT ( n.d.t. la centrale sindacale tunisina). Ma se i primi, come prevedibile, s’integrano felicemente nelle istituzioni dello Stato e nelle reti della classe dominante, il ruolo della Centrale operaia nel reintegrare al potere le vecchie reti benaliste può apparire problematico, dato il suo coinvolgimento nella mobilitazione che ha portato alla caduta del dittatore. Lo dimostra l’indifferenza, se non l’ostilità più o meno velata, che il sindacato ha mostrato nei confronti della rivolta dello scorso gennaio. Non si può decifrare questo apparente paradosso se si considera l’UGTT solamente come un grande sindacato burocratico all’europea. Per molti aspetti il sindacalismo tunisino è sicuramente apparentato a questi modelli; vi si possono persino intravedere le forme corporativo-mafiose di alcuni sindacati americani, ma esso non si riduce a questo.
La burocrazia sindacale è un’eredità del regime bourghibista di cui è stata un’istituzione fondamentale, nonostante i conflitti, a volte violenti, che hanno contraddistinto le relazioni fra loro, sin dall’Indipendenza. Uno dei fondamenti del “bonapartismo” burocratico bourghibista si colloca in effetti in una politica di “modernizzazione” e di “sviluppo” radicata nelle gerarchie imperiali del sistema interstatale postcoloniale basato in particolare sulla subalternità socio-razziale-economica, politica e culturale delle popolazioni rurali e semi-rurali dell’Ovest e del Sud, a profitto delle grandi città dell’Est del paese, della burocrazia, della borghesia in formazione e, in maniera più ambivalente, del proletariato urbano. L’UGTT ha costituito un ingranaggio essenziale di questa infrastruttura/sovrastruttura in quanto mediazione fra il proletariato principalmente urbano e gli scalini inferiori della burocrazia da un lato e, dall’altro, lo Stato bourghibista. Esso rimane parte integrante di una sintassi socio-razziale che perdura ai giorni nostri, resa più complessa, ormai, dal massiccio esodo rurale verso lo spazio costiero e al di là delle trasformazioni del sistema politico e del processo di liberalizzazione economica in corso. Sebbene il sindacato continui a imporre alcuni limiti allo sfruttamento del lavoro e numerose strutture sindacali manifestino una vera combattività, dal punto di vista della rivoluzione, l’UGTT fa parte del problema e non della soluzione. E ciò non solo perché è una organizzazione burocratica e riformista, che tende al compromesso. La risoluzione dell’equazione rivoluzionaria in Tunisia non si situa in effetti né nel conflitto politico sulla forma democratica o meno dello Stato moderno, né soltanto nella lotta di classe fra proletariato e borghesia. Essa risiede proprio in questa ambizione che l’eufemismo dell’“equilibrio regionale”, slogan ricorrente dall’inizio della rivoluzione, non fa che distorcere per meglio soffocarla. Più che nell’incoraggiamento all’investimento industriale e alla “modernizzazione” delle “regioni dell’interno”, che è il senso generalmente dato, anche a sinistra, alla formula dell’”equilibrio regionale”, il nodo della rivoluzione si situa nell’articolazione fra la “questione contadina” (la terra e l’acqua!) e la “questione razziale”, appiattita dalle coordinate della lotta di classe. La rivolta presto soffocata dello scorso gennaio dimostra che l’oppressione delle “regioni dell’interno” è al cuore del processo che è andato sviluppandosi dal dicembre 2010 e non una semplice questione accessoria, senza altra implicazione sulla strategia rivoluzionaria che la rivendicazione inefficace di una equa distribuzione delle risorse e degli investimenti. La “riforma agraria” di cui si parla (peraltro, sempre meno) da decenni nella sinistra tunisina, è irrealizzabile senza un completo rovesciamento del rapporto fra l’Est e l’Ovest del paese e senza lo smantellamento della piramide razziale riprodotta dallo Stato indipendente, in altre parole, senza iscriversi nella logica di una prospettiva decoloniale e anticapitalista, condizione per un’alleanza di classe rivoluzionaria. Così come una riforma urbana che riguardi le “banlieues” povere delle grandi città in cui si ammassano i figli dell’esodo rurale non potrebbe ridursi a una lotta contro la disoccupazione, intesa non come un rilancio dell’investimento capitalista, bensì in stretto legame con la necessaria riforma agraria.
E’ un vero peccato, ahimè, che, rappresentata principalmente dal Fronte Popolare (*), la sinistra riformista, del resto in larga parte integrata nell’apparato dell’UGTT e in altre istituzioni civili dello Stato così come nel dispositivo imperiale delle ONG, privilegi l’aggregazione di forze suscettibili di promuovere la “modernità” piuttosto che una politica decoloniale di classe. Il ciclo delle crisi, delle guerre e delle rivoluzioni che si è aperto nel mondo arabo nel 2011 vedrà il formarsi di un’alternativa rivoluzionaria alla vecchia sinistra modernista? Resistenza o disperazione? Non lo so.
(*) Il Fronte Popolare è una coalizione politica che raggruppa 12 formazioni della sinistra tunisina, nazionalisti, ecologisti e alcune personalità indipendenti. Ha 15 rappresentanti nel Parlamento tunisino.
Traduzione dal francese a cura di Patrizia Mancini
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