C’è un luogo al Kef, ai piedi della Kasbah, alla fine di un sentiero un poco accidentato che s’inerpica ai margini della collina che sovrasta la città: gli abitanti lo chiamano “Palermo”. Nessuno mi ha saputo spiegare perché, ma credo sia riconosciuto all’unanimità, visto che qualcuno l’ha pure scritto sulla parete di una roccia, con la bomboletta nera e la calligrafia da bambino, il nome della città siciliana che apparentemente non ha niente a che vedere con questo posto.
La vista da qui, infatti, è parecchio distante dal panorama mediterraneo che accomuna le coste tunisine e quelle della vicina isola italiana. Dalla Palermo tunisina, dopo le ultime case che delimitano i contorni della città, la valle verde e rigogliosa si allunga raggiungendo le montagne, fra le più alte del paese. La silhouette azzurrina della Table de Jughurta, l’altopiano simbolo della resistenza berbera, marca il confine con l’Algeria, a soli 40 km di distanza dalla città.
La regione del Kef, con le sue pinete e le sorgenti d’acqua, non ha posto nel comune immaginario turistico della Tunisia dalle spiagge bianche e le dune dorate. Eppure questa regione ha rivestito un ruolo centrale nella storia del paese, ed è stata crocevia di svariate civiltà: berberi, cartaginesi, romani, arabi, ebrei, italiani, tutti hanno lasciato tracce ancora vivide nella memoria e nell’eredità culturale del Kef. Nonostante oggi la regione risenta della crisi e della negligenza che affliggono in particolar modo le aree periferiche del paese, i “kefoises” conservano un forte orgoglio per la loro terra, e continuano a cercare di fare della loro città un importante polo artistico e culturale.
A pochi giorni dalla fine del Festival del Jazz, la città del Kef ha ospitato uno dei più importanti eventi artistici del paese, la “24-ore di teatro non-stop”, quest’anno alla sua 15 ° edizione. L’evento è avvenuto nella cornice del Festival del Teatro che si è svolto dal 23 al 28 marzo, e che ha previsto, oltre ai tanti spettacoli teatrali e musicali, seminari e workshop di arti drammatiche. Il festival, riconosciuto a livello internazionale, ha richiamato partecipanti da tutto il paese e non solo, tra i quali professori, studenti, artisti e appassionati di teatro, Quest’anno le compagnie teatrali che si sono esibite durante le 24-ore non-stop nelle sale del “Centre Culturel” e del “Centre des Arts Dramatiques et Scéniques” provenivano da Tunisia, Italia, Egitto, Marocco, Algeria, Sudan, India, Palestina, Stati Uniti e Francia.
Luogo di nascita di un pionieristico movimento teatrale nei primi decenni del ventesimo secolo, e sede dell’ Istituto Superiore di Musica e Teatro, il quale attrae studenti da tutto il paese, il Kef possiede la tradizione teatrale probabilmente più rilevante di tutta la Tunisia. Il festival, che per una settimana ha animato e infervorato la fresca e solitamente tranquilla cittadina del nord-ovest, è un segno importante di questa eredità artistica. Il festival ha risentito in modo evidente di importanti deficit organizzativi, molto probabilmente dovuti anche all’assenza di un supporto istituzionale e di fondi adeguati ad un evento di tale portata. Eppure, il viavai di persone dai due locali, il chiacchiericcio rilassato di gruppi spontanei di attori, spettatori, amici, fuori le sale e lungo le strade della città, sono punti di forza che probabilmente sarebbero stati soffocati in un’ambientazione più cerimoniosa e formalizzata. L’intera città del Kef sembrava partecipare al festival: i teatro era dentro le strade, e le strade erano dentro il teatro. Niente lustrini e tappeti rossi quindi, piuttosto un genuino momento di condivisione e partecipazione.
Fares e Rihab sono sul palco del Kef con una pièce intitolata “Oued Khadra – Haemorrhagia”. Li ho conosciuti a Médenine, dove stanno provando a creare un progetto di teatro sperimentale, insieme ad artisti locali o momentaneamente residenti lì. Una vera sfida, in una città che lascia davvero poco spazio all’arte, e all’espressione in tutte le sue forme. Dal primo momento che li ho incontrati ho capito che il teatro è la loro vita, il loro solo modo di resistere in questo “mondo dell’assurdo”, in un “mondo capitalistico che ci vuole solo consumatori”. “Oued khadra – Haemorrhagia”, che è andato in scena per la prima volta a Kasserine lo scorso febbraio, è il terzo progetto del regista Wael Wadji. “Oued Khadra è un passaggio importante nella nostra ricerca nel campo del teatro socio-politico, dell’impatto che esso può avere nell’ambiente che ci circonda” spiega Wael. “Proviamo a creare un’esperienza teatrale che metta insieme giovani artisti: scrittori, attori, registi, produttori, pieni di energia, di ambizioni e di nuovi approcci”. Sperimentazione è la parola chiave di questi artisti: uno strumento sia estetico che politico, impiegato per attaccare in modo diretto al cuore delle “malattie” che affliggono la Tunisia.
Oued Khadra è un villaggio al centro della Tunisia, afflitto dalla povertà, dalla disoccupazione, dall’inquinamento, dal bigottismo e dalla corruzione, un villaggio in cui i giovani sono perseguitati dalla polizia, dove la libertà di espressione è brutalmente repressa, dove i lavoratori sono sfruttati, e i media sono compiacenti nei confronti delle autorità. Una situazione in cui la disperazione porta ad atti estremi, proprio come quelli che hanno acceso la rivoluzione nel 2010. La pièce ripercorre dunque gli eventi che sono sfociati nella rivoluzione, ma le luci fioche, le atmosfere cupe, le grida e l’ansia messe in scena, e un finale tragico, comunicano una totale sfiducia e sconforto riguardo ai suoi risultati. È una catastrofe, dunque, quella che si abbatte sul palco in una performance che può risultare esagerata nei toni e nelle ambizioni. Ma esagerati sono i sentimenti di una generazione che cerca nell’arte il proprio modo per esprimersi, e la propria personale lotta contro le afflizioni che non smettono di soffocare il paese. “Incontriamo molti problemi ogni giorno per fare le cose secondo il nostro orientamento, perché la società non ha fiducia nei suoi giovani. “Quei giovani che hanno fatto cadere la dittatura e che hanno rischiato le proprie vite per liberare il paese”, continua Wael. “I dinosauri sono ovunque, e dominano su tutto: economia, amministrazione, politica, e anche sulla cultura. La creazione di un nuovo approccio in mezzo a questi dinosauri è pressoché impossibile, ma la lotta continua”.
Ed eventi come il festival del Kef sono la prova che la lotta davvero continua, con giovani che nonostante il loro cinismo e la loro sfiducia continuano a combattere con le uniche armi a loro disposizione: l’arte, la cultura, e i propri corpi. E che prendono in giro la mania nazionale del “sogno italiano” trovando la loro Sicilia quassù, in cima ad una collina al Kef.
L’articolo è apparso sul sito nawaat.org il 2 aprile 2016 : http://nawaat.org/portail/2016/04/02/theater-and-politics-in-the-streets-of-el-kef-a-reportage-from-the-24hours-non-stop-theater-festival/
Traduzione dall’inglese a cura di Alessia Carnevale
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