Habib Ayeb
Espropriazioni, destrutturazioni e insicurezza alimentare nel Sud-Est tunisino
Il Sud-est tunisino si trova sempre più spesso sotto i riflettori degli osservatori, di chi decide e dei media. Marginalizzata e dimenticata per decenni, questa vasta regione “frontaliera” è divenuta così lo spazio sorvegliato, l’oggetto di un controllo ravvicinato che utilizza ogni strumento umano, tecnico e tecnologico di cui dispongono le giurisdizioni securitarie nazionali e regionali (esercito, forze di sicurezza ecc.), ma anche le potenze e le organizzazioni militari regionali e internazionali. Questo tipo di controllo è stato ulteriormente rafforzato dopo l’attacco “terrorista” su larga scala (probabilmente fra 50 e 60 assalitori) alla città di Ben-Guerdane, avvenuto lo scorso mese di marzo e che ha fatto molte vittime civili, senza contare le perdite fra le forze di sicurezza e i gruppi armati coinvolti nell’operazione.
All’origine di tale convergenza di sguardi, si trova la situazione d’instabilità della vicina Libia e la presenza in questo paese di numerose organizzazioni e milizie armate, fra le quali l’organizzazione Daech- o Stato Islamico- e di altri movimenti di tendenza islamista radicale che si suppone abbiano l’intenzione di destabilizzare la Tunisia per imporvi un potere islamista radicale. Tuttavia, l’attenzione rivolta alla regione si limita alla dimensione securitaria e ignora scientemente gli aspetti sociali, economici e politici locali che spiegano incontestabilmente la “fragilità” della sicurezza del confine. In questo modo, tutta la regione che va da Gabes fino ai confini meridionali viene ridotta dagli esperti della sicurezza a un’unica linea di frontiera che separa i due paesi vicini.
Nella stessa maniera si assiste ad una esteriorizzazione dei rischi potenziali o reali, delle loro cause e delle loro possibili conseguenze, considerate come esterne (territori) e straniere (attori).
Ormai il rischio è esterno e straniero e le frontiere devono essere rafforzate e consolidate in modo da premunirsi…si costruiscono muri, si scavano canali o si militarizza la zona frontaliera, si sorveglia la popolazione, si controlla il piccolo commercio informale, si rafforza il controllo ai passaggi e quello alle persone che passano le frontiere, si installano videocamere, si controlla dall’alto (elicotteri, aerei militari, droni, satelliti…), si stigmatizzano le popolazioni locali…
Per le popolazioni locali, le frontiere non sono altro che il materializzarsi della loro emarginazione sociale e spaziale.
C’è in questa lettura iper-securitaria un totale rifiuto di tentare di comprendere i diversi processi in corso nella regione. E’ questa lettura, più che il potenziale “terrorismo” proveniente dall’esterno, che minaccia sul medio e lungo periodo ciò che potremmo chiamare la “coesione” nazionale e territoriale del paese. Esiste anche il completo rigetto di ogni tentativo di esplorare, da un lato, i legami fra i diversi processi di emarginazione economica, sociale e spaziale e, dall’altro, i meccanismi di produzione delle diverse forme di risposte locali che, certamente, non s’iscrivono sempre nella legalità formale, ma sono in realtà l’espressione visibile delle varie strategie di sopravvivenza che vengono elaborate dalle popolazioni locali. Tali strategie vanno dalle differenti forme di solidarietà fino al commercio informale transfrontaliero, passando per l’emigrazione e per precise attività remunerate che si aggiungono alle attività abituali (aratura, raccolte, raccolta delle olive, piccolo allevamento…)
Così, per studiare la questione della sicurezza nel sud-est, inclusa la “sicurezza” alimentare, mi sembra assolutamente indispensabile spostare lo sguardo dalla linea di frontiera verso l’insieme del sud-est che costituisce in realtà la vera “frontiera” orientale del paese.
Se in tutto il mondo le regioni-frontiera intrattengono, soprattutto in tempo di pace, relazioni di scambio, comprese quelle economiche formali o informali più o meno intense, alcune rivelano delle vere complementarietà iscritte nel tempo e nello spazio. E’ proprio il caso del rapporto fra sud-est tunisino e ovest libico. Qui ci troviamo di fronte a delle relazioni tribali e famigliari d’antica data e conservate di generazione in generazione, malgrado gli innumerevoli conflitti che hanno costellato da decenni le relazioni fra i due Stati. Questo vasto insieme frontaliero è lo spazio “tribale “ comune della grande tribù degli Ouerghemma e si estende dalla regione di Matmata fino a quella di Tripoli, dall’altra parte del confine. Le famiglie si conoscono e gli scambi sono nello stesso tempo correnti e d estesi fino ad arrivare a relazioni di matrimonio, sempre frequenti. Incontestabilmente tali relazioni, sono più frequenti di quelle che le popolazioni del sud-est intrattengono con quelle originarie di altre regioni tunisine. Vi sono probabilmente più matrimoni fra tunisini/e del sud-est e libici/che dell’ovest che fra le popolazioni del sud-est con quelle del nord-ovest della Tunisia.
Ma queste antiche relazioni famigliari e tribali spiegano solo in parte le dinamiche degli scambi transfrontalieri. Le vere spiegazioni vanno ricercate nelle politiche interne e in particolare nella loro dimensione sociali ed economica. Spiegazioni che si trovano anche nella lettura delle condizioni sociali delle popolazioni locali e del loro sentimento, largamente diffuso, di essere vittime di una politica di esclusione sociale e spaziale programmata e perseguita dal potere concentrato nelle mani di una “élite” orginaria del Nord-Ovest, in particolare dalle grandi città del Sahel. Dietro questo sentimento esiste un certo numero di indicatori “materiali” che mostrano chiaramente il debole livello di sviluppo della regione, con la notevole eccezione dell’isola di Gerba che ha avuto miglior sorte grazie agli investimenti e alle infrastrutture turistiche e che occorre “isolare” come una sacca o piattaforma di investimenti “off-shore”. Per il resto della regione il bilancio è particolarmente negativo: 1) deboli infrastrutture nel trasporto, nella sanità, nei servizi… e persino nella scuola. 2) una disoccupazione che si attesta a più del 14% della popolazione. 3) un tasso di povertà fra il 20 % e il 40% (maggiore, se non si include l’isola di Gerba nel calcolo di questa media) 4) un tasso d’emigrazione fra i più elevati del paese, anche se una parte di questo fenomeno non viene recensita, dato che si tratta appunto di emigrazione informale…
Del resto, fra le numerose spiegazioni del commercio informale, in cui appaiono di fondamentale importanza le reti tribali e famigliari, la questione alimentare appare determinante.
Insicurezza alimentare nel sud-est tunisino e commercio informale transfrontaliero: opportunità, dipendenza e rischi sociali
Il sud-tunisino è una regione arida, non molto irrigata dalla pioggia, la cui quantità raramente supera 120 mm all’anno, con un succedersi di prolungati periodi di siccità che possono durare per diverse annate di seguito. Tuttavia, le popolazioni locali hanno sviluppato, generazione dopo generazione, uno straordinario “patrimonio” di tecniche e di savoir-faire che permette loro di assicurarsi un livello minimo di sicurezza alimentare, anche durante i lunghi periodi di siccità. In questo modo l’agricoltura estensiva basata sulla coltivazione a terrazza degli ulivi, dei cereali – in particolare l’orzo, i legumi da seccare come le fave, i piselli e le lenticchie (coltivati dopo la stagione delle piogge primaverili)- l’allevamento stanziale e semi-nomade (soprattutto ovino e caprino) e, infine, qualche coltura irrigata nelle oasi di pianura o di montagna, ma anche a Gerba, conosciuta per il suo straordinario “allestimento” a scacchiera (un riquadro irrigato sul modello delle oasi, dominato dalle palme, accanto a un altro riquadro non irrigato con piante di ulivo e di colture stagionali pluviali…) .
Ma sin dagli anni ’80, se non dall’indipendenza, si assiste a una rapida destrutturazione di quello che costituisce l’equilibrio della regione e la capacità dei suoi abitanti ad adattarsi alle difficili condizioni “climatiche “ locali. Dapprima c’è stato il prolungarsi delle politiche coloniali di sedentarizzazione forzata della popolazione, spesso lontano dai loro villaggi d’origine e dalle loro terre. Tale sedentarizzazione forzata è stata la causa del degradarsi della sicurezza alimentare delle famiglie semi-nomadi e dell’aggravarsi della loro dipendenza dal mercato. Ormai il couscous tradizionale a base d’ orzo che si coltivava localmente è divenuto progressivamente un couscous di grano che ci si procura nei negozi, dato che localmente non viene coltivato a causa dell’insufficiente pluvometria. Col passaggio dall’orzo al grano è tutta una modalità di consumo che è stata sconvolta brutalmente con l’arrivo massiccio della semola di grano, della pasta e delle farine industriali e del pane bianco…
L’altro elemento è rappresentato dalla trasformazione progressiva delle terre collettive delle tribù e delle famiglie allargate in terre individuali, così come l’introduzione del catasto, straordinario strumento di spoliazione, e dell’obbligo di registrazione delle terre.
Questa riforma fondiaria, inaugurata durante la colonizzazione e prolungata dallo Stato indipendente, ha contribuito fortemente a “sconnettere” la popolazione dalla terra e ha condotto a una forma di abbandono dell’agricoltura a profitto di altre attività più remunerative e/o all’emigrazione.
Questi processi hanno drammaticamente rafforzato la dipendenza e l’insicurezza alimentare a livello locale.
L’ultima tappa di questi processi è stata inaugurata verso la fine degli anni ’80/inizio anni ’90 ed è consistita nella “privatizzazione” delle nappe profonde, poco o affatto rinnovabili, con l’intenzione di sviluppare dei progetti agricoli basati su investimenti privati per i quali si utilizzano le acque sotterranee e la cui produzione è essenzialmente rivolta alla”esportazione” verso i grandi centri urbani del paese, le zone turistiche e/o all’estero.
La parte più grande dei capitali investiti in questi nuovi progetti non proviene dalla regione stessa, per cui le popolazioni locali hanno assistito allo sviluppo di una attività agricola privata “estrattivista”, i cui benefici non vanno alle popolazioni locali, anche se qualcuno è riuscito a farsi assumere dai nuovi investitori “stranieri”. Ci troviamo di fronte agli stessi processi che sono stati fortemente sviluppati nella regione di Sidi Bouzid e in particolare a Rgueb che, in un modo o in un altro, sono stati all’origine del suicidio di Mohamed Bouazizi ( leggere a questo proposito http://www.jadaliyya.com/pages/index/18630/mohamed-bouazizi-louvrier-agricole_-relire-la-%C2%AB-r%C3%A9, in francese).
In questo modo, privati di un modello sociale locale ancestrale, di un saper fare locale eccezionale, espropriati di una larga parte delle terre collettive che permettevano a tutta la popolazione del luogo un adeguato accesso ad alcune risorse, in particolare ai beni fondiari e alle risorse idriche sotterranee…le popolazioni locali sono divenute progressivamente consumatrici, in gran parte “passive”.
Per assicurarsi delle entrate generalmente aleatorie che permettano loro -oppure no – di rifornirsi di prodotti alimentari di base, ormai esse sono dipendenti da settori economici diversi da quello agricolo Sono questi processi di spoliazione-dipendenza-insicurezza che occorrerebbe esplorare a fondo.
Inoltre, questa situazione di insicurezza alimentare invita a studiare a fondo i meccanismi, spesso complessi, del mercato informale dei prodotti alimentari. Per avere un’idea dei circuiti transfrontalieri, sarebbe molto utile seguire diversi prodotti di base dall’origine (luogo di produzione o di fabbricazione) fino alla cucina dei consumatori locali. Prendiamo come esempio il caso di un pacchetto di semola di grano. Prodotto nel nord della Tunisia o importato dall’estero, il grano viene trasformato ( a volte è importato già trasformato) in “farina” che serve a fabbricare la semola nelle industrie alimentari situate a Tunisi o a Sfax. Da lì comincia un lungo viaggio prima di arrivare dal consumatore locale del sud-est. Esportato “ufficialmente” in Libia (soprattutto fino alla metà dell’anno 2011), il piccolo pacchetto sarà venduto sul mercato libico a un prezzo largamente sovvenzionato. Da lì viene acquistato a un prezzo all’ingrosso, anch’esso sovvenzionato, da un commerciante dell’informale (tunisino o libico) che lo esporterà nuovamente, “illegalmente, a Ben- Guerdane o in altre città del sud-est. Una volta arrivato sul posto, il pacchetto è venduto sul mercato informale locale ( chiamato anche mercato libico o di Gheddafi) a un prezzo dal 30% al 40% inferiore a quello di un altro pacchetto uscito esattamente dalla stessa fabbrica e venduto nel circuito formale (negozi e botteghe…) La stessa cosa avviene con i barattoli di concentrato di pomodoro e/o di harissa, tonno e sardine…
Così dopo la caduta di Gheddafi, la destabilizzazione della Libia, nello specifico causata dell’irresponsabile e sanguinoso intervento francese (appoggiato dai suoi alleati), il rafforzamento dei controlli alla frontiera e la conseguente riduzione del mercato informale dei prodotti alimentari (a profitto di quelli petroliferi, degli stupefacenti e anche delle armi da fuoco) hanno provocato un forte aumento dei prezzi, aggravando in questo modo l’insicurezza alimentare locale. A ciò occorre aggiungere il fatto che i nuovi “poteri” libici hanno soppresso le sovvenzioni dei prodotti e le hanno rimpiazzate con dei sussidi finanziari accordati direttamente ai consumatori (cash in hand). Di conseguenza i prezzi reali sono aumentati fortemente sul mercato interno libico, il che ha contribuito a prosciugare il mercato informale transfrontaliero, a far aumentare i prezzi dei prodotti alimentari “veri” nella regione di frontiera, ad aggravare le condizioni sociali ed economiche locali e ad alimentare il rifiuto che le popolazioni del luogo provano verso l’”élite” economica e politica del paese
A mo’ di conclusione troppo rapida
A mo’ di conclusione, occorre sottolineare che, da un lato, lo sviluppo del commercio transfrontaliero è innanzitutto indotto dai processi di emarginazione e di spoliazione delle popolazioni locali e, dall’altro, la chiusura della frontiera aggrava ancora di più l’insicurezza alimentare di quelle stesse popolazioni. Mentre per anni l’economia informale aveva mantenuto il livello di povertà a livelli inferiori a quello di altre regioni come Sidi Bouzid, Seliana, il Kef e Kasserine (le prime 4 più povere della Tunisia), la sua contrazione induce verosimilmente un rapido innalzamento di questo tasso, tanto più che il rafforzamento delle frontiere non è stato compensato da reali politiche di sviluppo locale. Ma si tratta, in questo caso, più dell’apertura di una problematica di ricerca che la conclusione di una riflessione approfondita.
L’articolo originale è apparso il 17 aprile 2016 su https://habibayeb.wordpress.com/2016/04/17/apres-ben-guerdane-reflexion-rapide-sur-des-processus-hautement-explosifs/
Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini
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