Santiago Alba Rico
Con i suoi abituali ottimi criteri, la maggior parte dei media spagnoli si è fatta sfuggire la notizia internazionale più importante della settimana, proveniente tra l’altro da un paese molto vicino e decisivo per politica estera della Spagna. Mi riferisco alla celebrazione del X Congresso dell’organizzazione tunisina Ennahda (il secondo che si tiene in Tunisia dopo la rivoluzione del 2011) durante il quale Rachid Ghannouchi, rieletto segretario generale con il 75% dei voti, ha annunciato l’abbandono dell’ “islamismo” e la rifondazione del movimento come “partito democratico e civile ispirato ai valori dell’Islam”. Un partito, ha detto Ghannouchi, “democratico musulmano” che sancisce la morte dell’ “Islam politico” e la nascita di un “Islam democratico”.
La tentazione di comparare le transizioni spagnola e tunisina è sempre stata forte e, se ci lasciamo trascinare su questo terreno, non serve alcuna intenzione provocatoria per accostare il partito islamista Ennahda al Partito Comunista Spagnolo e il leader del primo, Rachid Ghannouchi, a Santiago Carrillo. Non dal punto di vista dell’ideologia, certamente, ma della loro storia, del loro ruolo e del loro temperamento. Ennahda, in effetti, ha costituito l’unica opposizione seria alla dittatura di Ben Ali (e ancor prima, con altro nome, a quella di Bourguiba); i suoi militanti hanno subito, più di quelli di qualunque altra organizzazione, carcere, tortura ed esilio. Rachid Ghannouchi, da parte sua, rifugiatosi a Londra dal 1991, referente internazionale dell’islamismo transfrontaliero insieme al sudanese Ahmed Tourabi, scomparso recentemente, ha percorso un lungo cammino, partendo da posizioni panislamiste molto radicali per rientrare in Tunisia dopo la rivoluzione del 2011 e facilitare, con pragmatismo e determinazione, quel consenso “democratizzatore” auspicato sia all’interno che all’esterno. E’ vero che Ennahda, a differenza del PCE, ha governato e fa tuttora parte del governo tunisino e che, dopo la scissione di Nidaa Tunes, detiene la maggioranza in Parlamento, ma non si può ignorare che il perno del patto spagnolo di 40 anni fa fu il tandem Suàrez-Carrillo, anche se in seguito Felipe Gonzàles e il PSOE divennero la colonna portante del nuovo regime. Qui in Tunisia, in modo sempre più evidente e in una versione meno tranquillizzante, Suarez è Caid Essebsi, vecchio dinosauro riemerso dalle viscere del regime dittatoriale, e Carrillo è Ghannouchi, militante clandestino rimodernato e indispensabile fonte di legittimità sociale. In ogni caso, il parallelo tra lo storico leader del PCE e lo storico leader di Ennahda si vede confermato dalla decisione del partito di abbandonare l’islamismo e dare per finito l’ “Islam politico”, decisione che ricorda la scommessa di Carrillo del 1977 a favore dell’eurocomunismo di fronte alla scelta “di rottura” e “rivoluzionaria” che, da allora, è rimasta in Spagna minoritaria e marginale.
Come nel caso di Carrillo, ma in una situazione ancora più tesa e difficile di quella della Spagna del 1975, bisogna interpretare la decisione di Ghannouchi in primo luogo come un’emancipazione dalla costellazione dei Fratelli Musulmani -che è un po’ l’equivalente islamista della Terza Internazionale- e un’affermazione della via nazionale tunisina come eccezione regionale e terreno naturale di azione politica. Data l’autorità globale di Ghannouchi, non è da escludere che il suo gesto abbia influenza su altri paesi, ma in linea di principio bisogna, al contrario, considerarlo come una contrazione rassegnata di fronte ai limiti imposti dall’esterno e dalla crisi generalizzata del mondo arabo: il fallimento del progetto neo-ottomano di Erdogan con la sua deriva autoritaria, il colpo di Stato in Egitto contro i Fratelli Musulmani e la sconfitta dilagante della “rivoluzione democratica”, come pure la doppia pressione della Libia e dell’Algeria in un quadro di minaccia terroristica rampante, interna e esterna, che di fatto rafforza e rende più stringente la dipendenza dall’Europa e dagli USA.
La Tunisia, centro da cui è irradiato il cambiamento nella regione, è rimasta isolata e questo suo isolamento, che ne aumenta la vulnerabilità, costringe a concessioni, rettifiche e compromessi nello spazio più ristretto del proprio territorio.
Tuttavia la decisione di Ghannouchi va interpretata, per queste stesse ragioni, in chiave nazionale. Cosa significa per la politica tunisina la rinuncia di Ennahda all’ “islamismo”? La borghesia islamofobica, di destra e di sinistra, mette in guardia sul pericolo di una manovra dolosa volta ad impiantare, in modo tortuoso, lo Stato Islamico, parte insopprimibile del DNA del partito (così come la borghesia spagnola sventolava il fantasma del comunismo e dei crimini di Paracuellos), mentre settori più ingenui -ma più sensati- accolgono il gesto di Ghannouchi come una prova dell’eccezione tunisina e della compatibilità tra Islam e democrazia. Ora, e se la “rinuncia all’islamismo” a favore della “democrazia” implicasse, in realtà, l’accettazione di meno democrazia in Tunisia, come richiedono la situazione e gli agenti politici e economici dominanti? La spettacolare decisione del X Congresso si deve intendere, in modo molto “carrillista”, come una dichiarazione pubblica di rinuncia: ma non all’islamismo, no, bensì al “fratturismo”. Solo il fanatismo laicista può credere ancora che Ennahda era e continua ad essere un partito “salafita” che cercava, e cerca, una “frattura” religiosa con lo Stato “moderno”; se non da prima, ha smesso di essere tale da quando nel 2005 si associò al Movimento 18 ottobre (1) e, naturalmente, dopo il trionfo di una rivolta popolare che non aveva diretto e che ha segnato il limite di qualunque egemonia politica e culturale nel Paese. Non dimentichiamo che tra il 2012 e il 2014 Ennahda ha governato in coalizione con due partiti di centrosinistra, i quali hanno consegnato la presidenza della Repubblica a Moncef Marzouki, psichiatra ateo e attivista dei diritti umani, e che fu un primo ministro “islamista” che mise la sua firma in calce all’unica costituzione democratica del mondo arabo. Quale che fosse il progetto segreto di Ennahda -o di alcune sue componenti- il suo impegno pubblico andava in direzione opposta e l’annuncio di Ghannouchi si limita ora a formalizzare un passo storico irreversibile.
Non è questo il problema. Il problema è che, nel momento in cui si è rifondato come “partito democratico”, Ennahda ha ufficialmente rinunciato alla “rottura democratica” con il vecchio regime. Quando aveva il governo non aveva il potere e i suoi erratici tentativi di cambiamento si scontravano contro ostacoli di ogni tipo, compresa la minaccia di un colpo di Stato all’egiziana; ora Ennahda rinuncia al governo per inserirsi nell’immutato apparato di potere, dichiarandosi incapace -o non desideroso- di cambiarlo. Tutto quello che ha fatto nell’ultimo anno e mezzo il partito ex-islamista lo denuncia: l’abbandono di Marzouki alle elezioni presidenziali del dicembre 2014, l’appoggio al governo di Caid Essebsi, ministro di Bourguiba e membro del RCD di Ben Ali, la difesa della “legge di riconciliazione” intesa a riabilitare e reinserire nell’ordine istituzionale gli stessi personaggi che avevano incarcerato e mandato in esilio i suoi membri.
Come spiega con grande efficacia Sadri Khiari, uno degli intellettuali ribelli più prestigiosi del Paese, in un recente articolo: “Non sono gli imperativi della politica ad aver prevalso sulle motivazioni religiose, ma la dinamica e lo spirito dello Stato fondato da Bourguiba e prolungato da Ben Ali che si sono imposti alla politica alternativa -detto con accezione non positiva- che fino a ora aveva caratterizzato il movimento”. Ennhada vuole fare parte dello Stato, diventare uno dei pilastri del nuovo regime che, senza rottura con il vecchio, faccia -aggiunge Khiari- da fattore di convergenza e omogeneizzazione politica della classe dirigente”. Questo arretramento verso lo Stato fondato da Bourguiba (e prolungato da Ben Ali) si rivela anche nel fatto che mentre il sinistrorso Moncef Marzouki, ex alleato, era assente dall’assemblea del Congresso, il bourguibista Caid Essebsi, ex nemico e leader del partito di destra al governo, si trovava tra gli invitati (come pure Samir Chafi, rappresentante del sindacato UGTT). Quasi nello stesso momento, per un’inquietante coincidenza, la statua di Habib Bourguiba veniva reinnalzata, trenta anni dopo, nel viale che porta il suo nome.
Nella situazione regionale più sfavorevole, con la minaccia del terrorismo sempre presente, nel mezzo di una pesantissima crisi economica e una crescente disuguaglianza sociale, è in corso la costruzione di un nuovo regime semidemocratico, basato questa volta su una doppia fonte di legittimità: il vecchio bourguibismo -che raccoglie i resti del partito unico di Ben Ali- e l’ex islamismo di Ennahda come unica sopravvivenza rivoluzionaria. La dichiarazione di non belligeranza di Ghannouchi al X Congresso di Ennahda provocherà forse qualche scissione o, per lo meno, disaffezioni individuali all’interno del partito e ai suoi due fianchi: quello di coloro che scommettevano sulla rottura democratica e quello di coloro che scommettevano sulla rottura islamica. Bisognerà vedere se la scommessa di questi ultimi diventerà o meno marginale e minoritaria come quella provocata dall’eurocomunismo di Carrillo nel PCE.
L’altra notizia rilevante della settimana, questa sì abbondantemente coperta dai media spagnoli, è quella della semi-sconfitta in Austria del partito di ultradestra FPO, che ha ottenuto il 49% dei voti. E’ strano che l’Europa si preoccupi tanto della radicalizzazione del mondo arabo quando è il resto del mondo che dovrebbe cominciare a preoccuparsi per la radicalizzazione dell’Europa. L’annuncio di Ghannouchi al decimo Congresso è, in realtà, coerente con la realtà del Paese. La Tunisia si sta de-democratizzando, come l’Europa, ma non si sta radicalizzando. Secondo un’inchiesta recente della fondazione Adenauer, la maggior parte dei tunisini considera importante la propria identità religiosa (97%) ma è a favore della separazione tra Stato e religione (73%); e la maggioranza schiacciante (il 94,4%) esprime un “rifiuto totale” dell’Isis e del jihadismo, percentuale molto simile a quella dell’Algeria, della Libia, del Marocco e dell’Egitto. Come dice bene l’arabista francese François Burgat, ogni volta che è stata data ai tunisini la possibilità di esprimere liberamente la loro volontà (cosa che potrebbe dirsi per quasi tutti i Paesi della regione) lo hanno fatto diversamente da quello che gli europei si aspettavano da loro. Per questo la democrazia è così importante; e per questo, se la dichiarazione di non belligeranza di Ennhada non è -paradossalmente- una buona notizia per il futuro democratico della Tunisia, è invece un indicatore di quella moderazione che, contrariamente a quanto accade in Europa, continua ad essere dominante nella regione, contro ogni logica. Se l’Europa si preoccupasse di più della propria radicalizzazione e meno di quella degli altri Paesi, nel mondo arabo ci sarebbe più democrazia -politica e economica- e, di conseguenza, ancor meno radicalizzazione. Ennahda è ormai un partito moderato e la colonna portante del nuovo regime, il che -come abbiamo visto- è una notizia buona e cattiva al tempo stesso.
(1) (…) la formazione del “movimento 18 ottobre”, schieramento in cui, nel 2005, confluirono attivisti, islamisti e laici per protestare contro l’autoritarismo di Ben ‘Ali. Personalità come Samir Dilou, Ennahda, e Hamma Hammami, leader del Fronte popolare, promossero uno sciopero durato 32 giorni al quale aderirono altri oppositori come Najib Chebbi, del partito al-Jumhuri, e Lutfi Hajji, giornalista di al-Jazeera.
La protesta scaturiva dalla mancanza di un “livello minimo” di democrazia, soprattutto sul versante della libertà dei media e del diritto di associazione. Come sottolineato da Ajmi Lourimi, membro di al-Nahda, quell’esperienza rivelò la capacità di forze eterogenee di unirsi contro una minaccia comune fino a siglare un “Patto democratico” basato su valori condivisi. (tratto da http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2445)
Traduzione dallo spagnolo a cura di Giovanna Barile
Follow Us