Patrizia Mancini
“Da Sidi Bou Zid a Sidi Bou Said” potremmo, anche troppo facilmente, sotto intitolare quanto sta avvenendo nel lussuoso locale Elyssa in cui il 18 novembre 2016 riprendono le testimonianze delle vittime.
Uno dei simboli del potere mafioso e criminale del clan di Ben Alì e della moglie Leila Trabelsi, oramai occupato da militanti, giornalisti e invitati disposti a trascorrere un’altra lunga nottata ad ascoltare le testimonianze delle vittime. Pezzi di storia da ascoltare avidamente e con rispetto, mentre già sono cominciati gli attacchi, degni del periodo della dittatura, contro i testimoni. Da chi prende in giro le madri delle vittime della rivoluzione per il loro abbigliamento a Taher Ben Hassine, politicante e giornalista vicino a Nidaa Tounes, che afferma che Gilbert Naccache non sia stato torturato. C’è invece chi, pur non avendo molta simpatia per la presidentessa dell’Instance Verité et Dignité Sihem Ben Sedrine, ritiene molto più importante sostenere il percorso, appena avviatosi, della giustizia di transizione. E c’è più di un “laico” o “modernista” che si è sciolto in lacrime ascoltando le descrizioni delle torture subite da Sami Brahim, simpatizzante islamista. Altri hanno scelto di tacere per rispetto delle vittime.
E’ il turno di Bechir Laabidi, insegnante e sindacalista, militante di sinistra di Redeyef, regione di Gafsa e di sua moglie Leila Khaled.
“Mi sono deciso a rendere testimonianza perché la storia è stata falsificata, per far conoscere, oltre a quello che io e la mia famiglia abbiamo subito, la situazione di marginalizzazione della regione di Gafsa e restituire alle generazioni future, la verità su quanto è successo sotto Bourghiba e Ben Alì e anche dopo la rivoluzione. A Gafsa non è cambiato nulla”
La rivoluzione, secondo Bechir Laabidi, è iniziata nel 2008 con le rivolte e gli scioperi nel bacino minerario contro la corruzione sistematica che inficiava i concorsi per entrare alla CPG (Compagnia dei Fosfati Tunisina). A differenza del 2010/2011, quando i social media non esistevano, le notizie su questa insurrezione non circolarono ampiamente e fu più facile reprimere i rivoltosi. Dopo le sommosse del pane del 1984 si è trattato del più importante movimento di protesta avvenuto in Tunisia (https://halshs.archives-ouvertes.fr/file/index/docid/410622/filename/Chouikha_Gobe_Tunisie_Gafsa_elections_2009.pdf).
“Sono stato preso a scuola e trascinato per i piedi per 300 metri fino al commissariato davanti a tutti, ai miei figli, mentre i poliziotti presenti mi riempivano di colpi. Svenuto, sono stato trasportato a Gafsa”.
Mentre le donne guidavano le manifestazioni per chiedere la liberazione dei militanti arrestati, molti giovani cercarono di “emigrare” per protesta in Algeria, ma furono arrestati, fra questi il figlio di Bechir Laabidi, Moudhafer.
“E’ difficile far capire cosa significhi stare in prigione con il proprio figlio, l’ora d’aria insieme a lui e ai miei studenti…percosso e minacciato continuamente di essere violentato di fronte a lui o di violentarlo davanti a me. Moudhafer era in una cella accanto alla mia e potevo sentire le sue grida e i suoi lamenti mentre lo torturavano. E il sentimento di orgoglio per non essermi piegato si è trasformato in senso di colpa per essere stato in qualche modo la causa delle sue sofferenze ”.
Nei passaggi da una prigione all’altra al sindacalista non verrà risparmiato nulla e una grave malattia gli farà perdere 30 chili. Per quattro mesi incatenato al letto, fu portato in tribunale a Gafsa in ambulanza.
Leila Khaled, trentaquattro anni a fianco di Bechir e “della giustizia”, aggiunge il marito, prende la parola per descrivere le persecuzioni e le umiliazioni che ha dovuto subire.
“Quando andavo a visitare mio marito in prigione a Gafsa ero sempre seguita da un auto della polizia, poi mi impedivano di andare a Tunisi alla prigione di Mornaguia. Trovavo la polizia a casa dei miei genitori e alle mie figlie erano negata l’iscrizione a scuola”
Moudhafer, con il viso gonfio e pieno di lividi, diceva a sua madre di tenere la testa alta, di non piangere. Lui non c’è, ma la sua storia e quella di Bechir, Leila, Adnen, Adel o Haroun è stata magnificamente portata sullo schermo da Sami Tlili con il documentario “Maudit soit le phosphate” (Maledetto il fosfato).
La seconda testimonianza riguarda l’omicidio di Nabil Marakati ed è il fratello Ridha che inizia con un omaggio alle vittime della rivoluzione del 2010/2011.
Nabil Marakati, ingegnere di Garfour, regione di Siliana, era un militante del Partito Comunista Operaio Tunisino (POCT).
“Mio fratello era una persona gentile, aperto al confronto con tutte le tendenze politiche, con una grande voglia di conoscenza, aveva scelto di rimanere a lavorare come maestro nella nostra regione, pur avendo la possibilità di trasferirsi a Tunisi.”
Arrestato il 29 aprile 1987 per aver diffuso volantini che denunciavano la politica repressiva di Bourghiba, Nabil, che aveva attivamente partecipato nel 1983/84 alla “rivolta del pane”, verrà torturato dal capo della polizia locale e da due agenti: violenze sessuali, capelli bruciati, unghie strappate con le pinze per costringerlo a fare i nomi dei suoi compagni, nomi che non verranno mai pronunciati dalla bocca del militante comunista.
L’8 maggio 1987 il suo corpo verrà ritrovato all’alba in uno scarico fognario,un foro di proiettile alla tempia e una rivoltella posta al suo fianco, in un rozzo tentativo di far credere al suicidio.
“Il suo viso sembrava una maschera della morte dell’epoca punica… L’alba, le sfumature rosee del mattino di cui i poeti fanno l’elegia sono diventati per me, uomo di campagna abituato ad alzarmi presto perché amavo particolarmente questo momento della giornata, una visione orrifica, un inferno e sarà così fino alla mia morte, fratello”
Per più giorni la sua famiglia e i militanti guideranno le proteste a Garfour e il Ministro degli Interni dell’epoca, un certo Ben Alì, decreterà il coprifuoco per 15 giorni. Per calmare la rabbia popolare, il capo della polizia locale verrà giudicato e condannato a 5 anni di carcere per abuso di potere. Ma tutta la famiglia Marakati continuerà a essere perseguitata dalla polizia per molto tempo. Ridha Marakati chiede che il posto di polizia di Garfour divenga una sede per le associazioni locali e dichiara:
“la responsabilità di quello che è successo non è soltanto di quelli che lo hanno ucciso, ma anche di chi ha taciuto”.
Solo lo scorso luglio il Presidente della Repubblica ha proclamato l’8 maggio giornata nazionale contro la tortura.
Non abbiamo neanche il tempo di tirare il fiato, la prossima audizione sarà una delle più dure da ascoltare, riguarda l’assassinio di Fayçal Baraket, militante del partito islamico Ennahdha e i patimenti di tutta la sua famiglia. La famiglia Baraket ha avuto il coraggio di cercare la verità anche sotto il regime di Ben Alì, sporgendo denuncia presso il Comitato delle Nazioni Unite contro la Tortura nel 1994: a causa di ciò tutti i membri hanno subito vessazioni, arresti e violenze. Ne parlano la madre Khira e il fratello Jamel:
“Mio figlio Fayçal era già stato imprigionato e torturato per 5 mesi sotto Bourghiba nel 1987, venne liberato un mese dopo la presa di potere di Ben Alì che aveva promesso di fare tabula rasa col passato. Faiçal, sempre brillante negli studi, dovette abbandonare l’università , dopo due anni in cui stranamente non riusciva a passare gli esami.”
il 1 ottobre 1991 la polizia, sfondando le porte, fa irruzione nell’abitazione della famiglia Barraket, cercando i figli di Khira. Quattro di loro, pistola alla tempia, verranno arrestati e portati al commissariato. L’8 ottobre 1991 Fayçal muore orrendamente torturato nelle segrete del commissariato, in presenza di suo fratello Jamel. Un randello di 15 centimetri infilato nell’ano ha provocato la lacerazione della giunzione rettosigmoidea. La polizia dichiarerà che Fayçal è morto in un incidente stradale. Mentre Jamel è ancora prigioniero e sotto tortura, ai genitori, come sempre, verrà negato che sia in una delle prigioni del governatorato di Nabeul.
Khira, asciugandosi le lacrime, passa il microfono a Jamel che parlerà, secondo le sue parole, in duplice veste di fratello di Faiçal e vittima lui stesso di tortura. Durante il suo racconto avrà sempre gli occhi lucidi. Due mesi di inferno, incarcerato a Nabeul e poi ancora quattro mesi nei sotterranei del Ministero degli Interni.
“C’era un campanello che suonava per avvertire che sarebbero venuti a prendere i detenuti per le udienze processuali, ma al tempo stesso arrivava la squadra dei torturatori…Ancora oggi appena mi capita di vedere un poliziotto, anche solo uno che dirige il traffico, mi metto a tremare…“ A volte selezionavano uno di noi per torturarlo di fronte a tutti gli altri…ricordo un uomo che a seguito delle bastonate perse un rene e uscito dal carcere divenne completamente pazzo.
Jamel prosegue affermando di aver raccolto numerose testimonianze delle azioni perpetrate sul fratello, ma che solo nel 2013 la sua famiglia, supportata dall’Organisation contre la torture en Tunisie, ha ottenuto la riapertura del caso. Quattro medici, nominati dal Commissariato ONU per i diritti Umani e da Amnesty International, ottennero la riesumazione della salma la cui ispezione confermò le torture subite.
A Menzel Bouzelfa una piazza è stata dedicata alla memoria di Fayçal Baraket.
La successive testimonianze riguardano il militante islamista Kassem Al Chamki, morto sotto tortura a Nabeul il 27 ottobre 1991, nello stesso posto di polizia dove era stato ucciso Fayçal Baraket e Basma Albali , costretta a 17 anni a lavare dal pavimento il sangue di Faycal Baraket.
E per la prima volta in assoluto rende testimonianza pubblica un anziano combattente contro la colonizzazione francese appartenente al movimento youssefista, Hamadi Garess. 84 anni ben portati, con grande fierezza, Garess ricorda alcuni terribili episodi della lotta contro i francesi come l’occupazione del villaggio di Tazarka in cui, secondo il suo racconto, vennero violentate le donne e uccisi dei neonati. Sarebbe stato questo l’episodio chiave che fece rifiutare a Salah Ben Youssef le negoziazioni che invece Bourghiba aveva intrapreso con i francesi che avevano di patteggiare, a condizione della resa delle armi da parte dei tunisini. Fu così che Bourghiba, con l’inganno, si fece consegnare le armi dalla fazione vicina a Ben Youssef.
“La missione per cui oggi sono qui è di chiedere alla istituzioni giudiziarie di riaprire i dossiers riguardanti le vittime appartenenti al movimento di Salah Ben Youssef, di portare avanti una nuova inchiesta sui processi e le condanne di queste persone, siano essi vivi o defunti, per conoscere i nomi di chi ha dato gli ordini…nel periodo 1955-56.. “
Ricordiamo che Salah Ben Youssef da alleato di Bourghiba divenne suo nemico, fu espulso dal partito Destour durante il Congresso che il partito tenne nel novembre 1955 e animò la lotta contro Bourghiba nel Sud del paese. Condannato a morte per ben due volte, fra il 1957 e il 1958, fuggì di prigione e si rifugiò in Libia, Egitto e poi in Germania. Venne assassinato da due sicari di Bourghiba a Francoforte il 12 agosto 1961.
Hamadi Garess afferma che fra gli occupanti francesi e il Comandante Supremo (appellazione con cui amava farsi chiamare Habib Bourghiba) vi fossero accordi per spezzare le ultime sacche di resistenza nel paese. La cosa più grave fu che, anche dopo la proclamazione dell’indipendenza del paese, truppe francesi rimasero sul territorio, continuando ad attaccare i resistenti che si erano dati alla macchia e bombardando le alture su cui si erano rifugiati.
“Come è potuto succedere? Erano bombardamenti fatti con l’avvallo di Bourghiba? Sono sicuro che sulle montagne ci siano ancora i corpi di quei combattenti …”
“Chiedo ai nostri governanti? Com’è possibile che ancora oggi, al centro di Tunisi, vi sia una via dedicata a De Gaulle? “
.Si conclude in questo modo la seconda giornata di audizioni pubbliche, altri pezzi di storia che, a ritroso nel tempo, si vanno a incastrare in quel puzzle che appariva irrisolvibile prima del certosino lavoro di ricomposizione dell’Instance Verité et Dignitè. Dalle madri dei martiri della rivoluzione del 2010/2011 ai panarabisti di Salah Ben Youssef, la Tunisia ha cominciato finalmente a guardarsi allo specchio per demistificare oltre sessant’anni di occultamento della verità.
Da domani niente sarà come prima.
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