Tunisia: giustizia di transizione e dittatura

 

15134807_10208796522444798_1333414030065299849_nSantiago Alba Rico

Nel bel mezzo del caos regionale e dello sgomento generale, la piccola e dimenticata Tunisia continua ad offrirci buone notizie. La settimana scorsa gli stessi tunisini si sono ritrovati sorpresi -scossi, colpiti, commossi- dalle testimonianze di torture e sparizioni rese a voce alta dalle vittime delle due dittature (quella di Bourguiba fino al 1987 e quella di Ben Ali fino al 2011) e trasmesse in diretta da quattro emittenti televisive. Si è trattato di due sessioni di quattro ore ciascuna, andate in onda giovedì 17 e venerdì 18 nell’orario di massimo ascolto; i singoli cittadini le dimenticheranno più o meno in fretta, ma esse rappresentano il superamento di una soglia simbolica dalla quale difficilmente si potrà tornare indietro.

Creata come istituzione dello Stato nel dicembre 2013 dall’allora governo di coalizione guidato di Ennahda, l’Istanza per la Verità e la Dignità, il cui mandato è quello di facilitare il percorso della giustizia transizionale, ha ricevuto 62.000 denuncie di torture e sparizioni ed ha registrato 11.000 testimonianze. Alcune di queste testimonianze, trasmesse in diretta, sono state rese nel club Elyssa di Sidi Bou Said, ex residenza privata di Leila Trabelsi, moglie dell’ex dittatore, trasformata per l’occasione nello scenario simbolico di questa “terapia di gruppo”, come dirà il giornalista Riadh Guerfali, “contro la barbarie presente e futura”.

Non è stato facile arrivare fin qui. Nel corso dei suoi tre anni di vita, l’Istanza per la Verità e la Dignità (IVD) si è vista intralciare e perfino sabotare il lavoro di raccolta di informazioni da parte dell’ancien régime, oggi riciclato nel governo di Nidaa Tounes con la figura del Presidente della Repubblica, Beji Caid Essebsi, ministro dell’interno di Bourguiba negli anni in cui la polizia torturava gli esponenti di sinistra del gruppo Perspectives. Allo stesso modo, politici e mass media vicini al governo hanno continuato ad inveire nel peggiore dei modi contro la presidente dell’IVD, Sihem Bensedrine, prestigiosa oppositrice di Ben Ali, qualificata da sinistra e da destra come “revanscista”, “islamista”, “immorale”, incapace” e perfino “pazza”. Il portabandiera di questa campagna contro Bensedrine è stato il popolare quotidiano Achruq, che l’ha accusata di fomentare -e come no!- la “fitna” o “guerra civile”, in buona compagnia del sempre filogovernativo La Presse che fin dal principio ha messo in discussione la sua “neutralità” e la sua “capacità” di conciliare il “rispetto verso le vittime” con la “responsabilità politica” e la necessità di “non aprire ferite”. L’IVD ha dovuto abbandonare, durante il suo cammino, anche il tentativo di approvare la cosiddetta “legge di riconciliazione”, ovvero una dichiarazione ufficiale di “punto finale” e riabilitazione del vecchio regime, fortunatamente seppellita dalla mobilitazione cittadina.

E’ anche necessario aggiungere, come espressione finale di questa delegittimazione dell’IVD e della sua presidenza, che il governo non ha autorizzato l’utilizzo del Palazzo dei Congressi per le udienze pubbliche; inoltre, mentre i dirigenti di Ennahda e del Fronte Popolare erano presenti in prima fila, nè il Presidente della Repubblica, nè il Primo Ministro, nè il Presidente del Parlamento -tutti membri di Nidaa Tounes- hanno risposto all’invito di Sihem Bensedrine, la quale è stata tagliente nell’additare le responsabilità politiche: “Vogliono ricostruire lo Stato di Ben Ali; non vogliono la nostra Costituzione”. Per rispondere alle accuse di revanscismo, la Presidente dell’IVD ricorda che solo cinque delle 11.000 vittime già ascoltate hanno deciso di intentare una causa penale; la schiacciante maggioranza è invece disposta a perdonare se i suoi torturatori chiedono perdono. E’ questa, ad esempio, la posizione di Sami Brahem, prigioniero politico ed oggi ricercatore presso il Centro di Studi Economici e Sociali, il quale durante la sessione di giovedì scorso ha chiuso la sua testimonianza invitando i suoi torturatori a presentarsi il giorno dopo e chiedere scusa per quello che hanno fatto. Eppure, lamenta Bensedrine, tutte le richieste di riconciliazione e arbitrato presentate dalle stesse vittime al Ministero dell’Interno sono state respinte: “Si trincerano dietro il negazionismo”.

Quel che è certo è che le storiche audizioni della scorsa settimana illuminano un paese diviso: diviso tra boia e vittime. Le vittime -tra le quali l’IVD riconosce anche quelle “collettive”, comprese alcune regioni- sono vittime, continuano ad esserlo, perchè non hanno ancora potuto parlare e finchè non potranno parlare. Bisogna lasciare che lo facciano. Come dichiarava compostamente e senza lacrime Ourida Kaddouss, il cui figlio fu ucciso a Regueb durante la repressione del 2011,

è mio figlio che vi ha dato la democrazia. Mio figlio è morto in Tunisia e per la bandiera tunisina e voglio che gli venga resa giustizia”.

15085554_10208797778116189_3950020949813000145_n-1

Commozione fra il pubblico Crédit photo: Instance Verité et Dignité Media Center

Le madri trasmettono un dolore con il quale è facile immedesimarsi. E’ anche il caso di Kamel Matmati, scomparso nel 1991 e morto sotto tortura pochi giorni dopo la sua sparizione, ma la cui morte è stata ufficializzata solo nel 2016. I familiari non hanno ancora potuto seppellirlo:

Vogliamo che ci restituiscano il corpo” e che i colpevoli ne rendano conto”.

Oltre il già citato Sami Brahem, torturato per otto anni sia nel Ministero dell’Interno che in carcere e in tutti i modi possibili e al quale ciò che ancora fa più male è “lo schiaffo umiliante di Bokassa” (nome di guerra di uno dei torturatori), un cenno a parte merita la deposizione di Gilbert Naccache, noto intellettuale, scrittore e militante di sinistra, fondatore del gruppo Perspectives, che ha trascorso undici anni nelle prigioni di Bourguiba. La sua testimonianza ha offerto al pubblico un’analisi storica della continuità tra le due dittature e tra queste e l’occupazione francese:

15085746_10208797786356395_4861309716878407913_n

Gilbert Naccache dona la sua testimonianza, 17 novembre 2016 crédit photo: IVD Media Center

“la ‘modernizzazione’ della Tunisia fu in realtà un prolungamento del colonialismo”.

Naccache, che si unì alla rivoluzione del 2011 e che da allora non ha smesso di lottare contro i suoi riflussi, ha dichiarato solennemente:

Una giornata come questa compensa, da sola, molte delle frustrazioni degli ultimi cinque anni”.

Le audizioni pubbliche dell’IVD, che riprenderanno a dicembre, non serviranno a risolvere i problemi economici e politici della Tunisia. Non elimineranno la corruzione, la disparità tra le regioni, la disoccupazione giovanile o l’inflazione e il debito; e nemmeno aboliranno quelle confische di lbertà che, con il pretesto della lotta al terrorismo, la popolazione sta drammaticamente interiorizzando. Ma ci sono situazioni nelle quali i simboli diventano carne e producono effetti; ancor più quando trovano una così forte opposizione da parte di un ancien régime che rivela, in tal modo, la sua potente esistenza dietro le quinte.

L’avvio pubblico della giustizia transizionale deve servire ai tunisini per ottenere almeno tre cose. La prima, come ricordava Sihem Bensedrine, è frenare la nostalgia della dittatura, crescente e direttamente proporzionale al peggioramento delle condizioni di vita, e allontanare qualunque futura tentazione dittatoriale. La seconda, strettamente connessa a questa, è ricordare che la tortura non è qualcosa che appartiene al passato: ancora oggi, secondo la OCTT (Organizzazione contro la Tortura) continua ad essere la routine nei commissariati e nelle carceri del Paese. E nessuna minaccia alla sicurezza può renderci tolleranti o indifferenti di fronte a questo.

C’è poi un terzo dato importante. Lo segnalava a ragione Patrizia Mancini, giornalista italiana residente a Tunisi e responsabile del sito web Tunisia-in-red:

“La voce delle vittime è riuscita a riscattare dall’oblio nel quale erano cadute le parole della Rivoluzione: lavoro, libertà, dignità”

Rivivendo il dolore sereno dei torturati, i tunisini hanno rivissuto anche la lunga lotta contro i carnefici, sfociata nella sollevazione collettiva del 2011, in quelle giornate di esaltazione comune la cui esistenza viene a volte messa in dubbio e che molti cittadini di questo Paese cominciavano a voler dimenticare. “La rivoluzione è ancora viva”, ha concluso la sua testimonianza Gilbert Naccache. E questa frase, come quelle degli altri testimoni, la riportano in vita. Della piccola e dimenticata Tunisia si parla sempre come di un “simbolo”: dove iniziò la “primavera araba”, dove resiste la democrazia. E’ un simbolo, sì, ma anche una lezione che alcuni Paesi più grandi dovrebbero apprendere. La giustizia, si dice, è un diritto delle vittime; ma si dimentica che è soprattutto un diritto dei carnefici, che grazie ad essa possono essere reinseriti nel seno del nuovo contratto sociale e della vita pubblica. Senza il riconoscimento delle vittime, senza il riconoscimento dei carnefici, non può esserci una vera riconciliazione né una vera democrazia. Se non si può dire a voce alta -e non tutte le istituzioni lo fanno- “qui c’è stata una dittatura”, vuol dire che quella dittatura non è stata completamente superata.

Traduzione e adattamento dallo spagnolo a cura di Giovanna Barile