Patrizia Mancini
Il 14 gennaio 2017 la Tunisia ha celebrato il sesto anniversario della sua rivoluzione. Nella capitale la festa ha assunto un tono più da fiera di paese che da avvenimento politico, dove ciascun partito o associazione commemorava a suo modo la storica data. Da segnalare l’assenza di un corteo dello storico sindacato dell’UGTT, presente soltanto con qualche militante e la sua bandiera di ordinanza. Qualcuno ci ha detto che erano impegnati nei preparativi del loro congresso…
Scarsa la presenza della coalizione di sinistra del Fronte Popolare, mentre il sindacato delle forze di polizia celebrava la giornata in maniera solipsistica, al riparo delle transenne del Ministero degli Interni.
Il partito di ispirazione islamica Ennhadha, al governo insieme ai “laici” di Nida Tounes, occupava con un grande palco la posizione centrale dell’Avenue Bourghiba, mentre sulla scalinata del teatro municipale (divenuto dall’epoca della rivoluzione una sorta di speaker’s corner dei cittadini e delle cittadine) le famiglie degli “harragas”, dispersi in mare durante i tentativi per raggiungere le coste italiane nel 2011/2012, riprendevano a gran voce la loro instancabile denuncia dell’inerzia e dell’indifferenza dei governi tunisino e italiano riguardo la sorte dei loro cari.
Una connotazione più politica veniva data dalla presenza di una delegazione dell’Union des diplomés chomeurs (Unione dei disoccupati laureati) a ricordare il problema di fondo di un paese in cui la percentuale di disoccupati è in aumento (15,5% della popolazione attiva, 32% di laureati senza lavoro secondo gli ultimi dati forniti dall’Istituto Nazionale di Statistica relativi al terzo semestre del 2016).
Ma la memoria della rivoluzione, come ogni anno, era incarnata nella realtà dei corpi mutilati di coloro che erano in strada in quelle notti di battaglie contro la polizia, di coloro che difendevano i loro quartieri dalle incursioni delle milizie fedeli a Ben Alì.
Negli slogan dei blessès della rivoluzione e di chi è sempre stato al loro fianco la triste realtà di una rivoluzione tradita dai governi succedutisi all’indomani della cacciata di Ben Alì e la denuncia del tentativo di cancellare il loro sacrificio e quello dei martiri.
Ad oggi non è ancora stata ufficializzata la lista definitiva delle vittime della repressione del 2010/2011 e molti dei feriti soffrono tuttora delle conseguenze nefaste di cure sommarie e inadeguate.
Gli avvocati Leila Haddad e Charfi Elkellil sostengono la richiesta delle famiglie delle vittime di ritirare i dossiers dai tribunali militari e di trasferirli a tribunali civili, in attesa della loro presa in carico da parte delle giurisdizioni specializzate dell’Instance Verité e Dignité (IVD) che si occupa della giustizia di transizione. La stessa IVD ha annunciato che i dossiers raccolti (3000) verranno trasferiti a marzo 2017 alla sua giurisdizione.
Sullo sfondo di questa giornata la ripresa delle rivendicazioni e delle proteste nelle regioni emarginate che hanno infiammato questo mese di gennaio, altamente simbolico per attivisti e militanti tunisini (dal 1978 alla rivolta del pane del 1984, alle rivolte del bacino minerario del 2008, per arrivare alla cacciata di Ben Alì, le principali sommosse del paese si sono svolte nel mese di gennaio). A Kasserine, a Meknassy e a Menzel Bouzaiene (nella regione di Sidi Bouzid), a Ben Guerdane, a Medenine quello che soprattutto i giovani chiedono non è affatto diverso da quanto chiedevano in quell’inverno a cavallo fra il 2010 e il 2011: lavoro e sviluppo regionale, a fronte delle innumerevoli promesse, mai mantenute, da parte dei governanti. Proteste che non hanno risparmiato neppure la visita del Presidente della Repubblica a Gafsa e ovunque represse duramente dalla polizia. Come rivela uno studio recente del Forum Tunisien pour les droits economiques et sociaux, i movimenti sociali sono stati oltre 1000 nel 2016, marcando un deciso aumento rispetto all’anno precedente.
Come è già avvenuto nel passato, a distogliere l’attenzione dalla situazione economica del paese e dalle lotte sociali, si è aperto uno sterile dibattito sul ritorno dei jihadisti tunisini in patria, non a caso iniziato grazie ad alcune “rivelazioni” del Sindacato Nazionale delle Forze dell’ordine. “Modernisti” e “laici” non hanno tardato a scendere in strada “contro” il rientro in patria di questi “indesiderati” per i quali si è arrivati a chiedere la perdita della nazionalità. Osserva sarcastico l’intellettuale Sadri Khiari:
“Questo tipo di proposito- in realtà, completamente assurdo- non l’ho mai sentito formulare nei confronti di grandi criminali…non l’ho mai sentito neppure nei confronti di Ben Alì e del suo entourage, o dei grandi briganti dell’economia e neppure dei peggiori torturatori. E, se ricordo bene, uno degli argomenti – del resto allo stesso modo perfettamente ridicolo- che si era sollevato contro la privazione di alcuni diritti politici ai responsabili dell’ RCD (n.d.t. Il partito di Ben Alì) era stato quello che quegli uomini e quelle donne che avevano attivamente partecipato al sistema dittatoriale erano tunisini come gli altri” .
A ricucire le fila di un discorso che il potere vorrebbe marginalizzare, se non addirittura cancellare, la ripresa, nella serata del 14 gennaio, delle audizioni pubbliche delle vittime della dittatura, trasmesse in lieve differita dalle principali reti televisive.
Lo spazio prezioso e indispensabile della memoria di cui parleremo nella seconda parte.
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