Patrizia Mancini
Un appuntamento imperdibile quello con le audizioni pubbliche delle vittime delle dittature, seguito da molte testate internazionali fra cui Il New York Times, ma che i media italiani hanno completamente ignorato, mentre continuano le pubblicazioni mistico-deliranti di alcune testate sulla Tunisia “vivaio” del terrorismo internazionale.
Non si tratta di negare il fenomeno, ma di contestualizzarlo e di analizzarlo, al di là di ogni sensazionalismo.
Si tratta soprattutto di osservare il processo di cambiamento (anche nei suoi aspetti regressivi) che attraversa il paese a sei anni dallo scoppio della rivoluzione.
Ignorare deliberatamente le conquiste (certamente poche) che il paese ha ottenuto, come la libertà di espressione, e ancora di più, il diritto a una giustizia di transizione che possa portare a una riconciliazione con il passato, non è fare della buona informazione. Ma tant’è.
Iniziate in novembre e proseguite con due sessioni nel mese di dicembre, le audizioni rappresentano appunto uno dei momenti più alti della fase storica che attraversa il paese, permettendo di demistificare una lunga serie di luoghi comuni di cui si nutriva in particolare la vulgata occidentale a proposito del “miracolo tunisino”. Ma soprattutto serve ai tunisini e alla tunisine per ricostruire la loro storia, saldare i conti con il passato e tentare ripartire con un progetto comune di società.
Il 14 gennaio 2017, nel sesto anniversario della rivoluzione, l’Instance Verité et Dignité ha voluto iniziare la sessione dando la parola a tre giovani feriti durante i moti rivoluzionari. Nei giorni precedenti la fuga del dittatore le sue milizie imperversavano con violenze e ruberie e in tutte le zone del paese si erano formati dei gruppi di cittadini che si coordinavano, spesso collaborando con l’esercito, in difesa dei loro quartieri. Mouslim Kasdallah era uno di loro: fu ferito a una gamba da un poliziotto il 13 gennaio 2011, mentre difendeva, insieme a un centinaio di altri giovani, il suo quartiere a Ouerdanine, nella regione di Monastir. Oltre al racconto di quella terribile sera in cui morirono alcuni suoi amici falciati dalla raffiche della polizia, Mouslim ha anche parlato della sua القهر , che, come ha osservato mirabilmente la giornalista Monia Ben Hamdi del sito Inkyfada, è “una parola intraducibile e talmente espressiva che vuol dire allo stesso tempo indignazione, sentimento di oppressione e di ingiustizia, sofferenza, rabbia”. Rabbia e dolore per il calvario che subito dopo il ferimento:
“ Ho subito 32 operazioni, alla fine ho perduto una gamba…Insieme ad altri blessés siamo stati inviati a curarci in Qatar dall’allora ministro per i Diritti Umani Samir Dilou. Non ci hanno fatto nulla, a parte dei massaggi. Mi chiedo: era normale che avessi dei vermi nella ferita?”
“Vorrei dire ai governanti e ai politici che ci trattano da ladri e da ubriaconi che siamo noi che abbiamo fatto la rivoluzione che loro ci hanno rubato. Sono loro i ladri. Oggi sono loro che beneficiano della libertà e ci trattano da ladri. Intanto quando esco di casa, posso vedere colui che mi ha sparato . Davanti a me. Immaginatevi i miei sentimenti. La persona che mi ha distrutto la vita, la salute…Nello stesso tempo sono fiero di aver partecipato alla rivoluzione, di aver dato qualcosa a questo paese…, ma finché chi ha sparato con pallottole vere non sarà giudicato, in maniera imparziale, gli obiettivi della rivoluzione non saranno raggiunti… Vorrei dire a quanti mi stanno ascoltando, ai politici, queste non sono lacrime di debolezza, sono lacrime di rabbia, rabbia (قهر, قهر).
Non potrò appoggiare la testa su un cuscino e riposarmi finché non sarà resa giustizia ai martiri e ai feriti della rivoluzione..Abbiamo fatto una rivoluzione. E il processo rivoluzionario è ancora in corso, quello che ci aspetta sarà ancora migliore, abbiamo dentro di noi ancora lo spirito della rivoluzione”
Le storie successive di Khaled Ben Nejma e Rached El Arbi sono anch’esse emblematiche non solo della repressione poliziesca di quei terribili giorni, ma anche della incuria e della trascuratezza con cui le autorità post-rivoluzionarie trattarono la questione delle cure ai feriti, lasciando letteralmente “incancrenire” il problema fino ai giorni nostri.
(Per approfondire “Blessés et martyrs de la révolution: un combat contre l’oubli” in francese, o in italiano: Tunisia: le famiglie delle vittime della rivoluzione: storie di ordinaria ingiustizia.)
Le testimonianze di Amira Yahyaoui e di sua madre Fatma hanno riportato la platea nella concretezza della dittatura benalista, con la storia della lettera che il giudice Mokhtar Yahyaoui (morto nel settembre 2015) indirizzò a Ben Alì il 6 luglio 2001 e nella quale denunciava la mancanza di indipendenza dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni e il fatto che la giustizia fosse completamente asservita al potere politico.
“Da quel momento mio padre fu oggetto di pressioni e persecuzioni da parte di chi voleva convincerlo a ritirare la sua denuncia.” racconta Amira” e venne persino pubblicata una una falsa lettera di scuse con la sua firma… La nostra casa, sempre aperta, era percorsa da un via vai incessante di persone di ogni tipo, cittadini che avevano subito ingiustizie, ma anche informatori della polizia.”
E aggiunge ironicamente
” Possiamo dire di aver imparato il principio della trasparenza sotto ben Alì”
Il giudice Yahyaoui venne convocato dal consiglio di disciplina dei magistrati il 29 dicembre 2001 e nello stesso giorno destituito dalle sue funzioni.”Per cinque anni non ho potuto vedere mio padre perché rimasi bloccata in Francia, il consolato tunisino non mi volle rinnovare il passaporto” Amira è potuta rientrare in Tunisia solo dopo la rivoluzione dove è stata una delle fondatrici dell’importante associazione Al Bawsala.
“Spero di essere riuscita a far passare anche solo una minima parte del messaggio di mio padre, quello per una giustizia indipendente e imparziale. Oggi più che mai, senza una reale giustizia sia formale che sostanziale e se non si ha il coraggio politico di riformare leggi assurde, senza il vero rispetto dell’individuo, la sua libertà e la sua dignità, non faremo alcun passo avanti”
scriverà più tardi per rispondere ai tanti messaggi di solidarietà che le sono giunti da ogni parte del paese.
Con i successivi racconti di Farid Tlili e Selma ben Mohammed il 14 gennaio 2017 è stato svelato un altro sconvolgente capitolo della storia tunisina, quello dei reclutamenti forzati degli oppositori politici, soprattutto islamisti, nell’esercito.
Sotto il regime di Bourghiba era pratica corrente quella di prelevare gli studenti più “scomodi” dalle scuole e dalle università per inviarli al servizio militare, interrompendo brutalmente il loro percorso di formazione. A questo proposito a partire dal 1966 e 1967, vennero compilate delle liste “speciali” che servivano alla polizia per individuare i militanti delle organizzazioni studentesche. Ben Alì, dopo un’iniziale tregua con i movimenti islamisti, riprese l’ignobile pratica nel 1992, l’anno in cui Farid Tlili venne prelevato per il servizio militare.
“ In seguito riuscì a terminare i miei studi, ma solo dopo essere passato per nove carceri diversi, dove sono stato picchiato e torturato e altri studenti morirono…
Non c’è solo il rimpianto per gli anni persi, c’è anche la soddisfazione per essere riuscito a diventare competente nel mio campo, l’ingegneria informatica e aver presentato in Germania un programma da me concepito. Ma l’ho potuto fare solo dopo la rivoluzione.”
L’ultima testimonianza della serata è stata quella di Selma Ben Mohamed, originaria di Kebili, vedova di Ahmed Ben Mohamed, musulmano praticante. La donna, velata e sposatasi molto giovane, subì le prime violazioni pochi giorni dopo essersi sposata, quando la municipalità di Douz rifiutò di riconoscerle l’atto di matrimonio proprio a causa della scelta religiosa. Ahmed Ben Mohamed fu forzatamente arruolato nell’esercito e torturato; morì in seguito alla gravità delle sevizie nel dicembre 1990. Selma aveva vent’anni.
Ancora una volta si prova la sensazione che in questa sala si celebri il momento più alto della rivoluzione e, anche se sembra ancora presto per valutare l’impatto che avranno le audizioni sull’insieme della società tunisina,possiamo concordare con il politologo francese François Burgat quando afferma che
“per poter girare una pagina, bisogna averla scritta, per poter far cicatrizzare una ferita, bisogna esporla all’aria”.
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