Mario Sei
Lo scorso 9 gennaio si è spento nella città inglese di Leeds, all’età di 92 anni, il sociologo e filosofo di origini polacche Zygmunt Bauman. La notizia vera è però forse un’altra: il fatto cioè che della sua morte ne abbiano parlato i media del mondo intero, e che sui vari social network siano circolati per giorni video di conferenze, interviste o citazioni tratte dai suoi libri. In genere, una tale fama è perlopiù riservata ad attori e cantanti e non a un professore di sociologia. Eppure il suo nome ha superato i confini delle università e del mondo accademico per raggiungere il vasto pubblico.
Autore particolarmente prolifico – più di cinquanta libri scritti dalla fine degli anni Cinquanta, di cui ben venticinque pubblicati tra il 1997 e il 2013 – la grande notorietà di Bauman è soprattutto legata alla nozione di “modernità liquida”, una formula da lui usata per descrivere la tendenza fondamentale delle nostre società contemporanee. La formula, in effetti, ottenne un immediato successo mediatico, al punto da essere ormai divenuta un’espressione di uso comune, anche se usata spesso in modo stucchevole e svuotata del suo valore critico.
Molti dei suoi libri, in particolare quelli pubblicati nell’ultimo periodo, hanno ottenuto un notevole successo editoriale, ma il rischio è che sia proprio questo stesso successo a trasformare i suoi testi in oggetti di consumo, inghiottiti, consumati e subito dimenticati da quella società-mercato che ha fatto del consumare la sua unica legge e che Bauman aveva così lucidamente analizzato e criticato.
Di origini ebraiche, nella sua lunga vita Bauman era stato un comunista convinto, anche se con posizioni non sempre in linea con l’ideologia ufficiale del comunismo sovietico. Aveva insegnato all’università di sociologia di Varsavia e sul finire degli anni sessanta, quando anche in Polonia, sulla scia della Primavera di Praga, si diffuse la protesta del movimento studentesco, Bauman difese le ragioni del dissenso. Fu però la politica antisemita del regime a fargli decidere di lasciare definitivamente la Polonia per trasferirsi in Inghilterra, dove dal 1971 insegnò sociologia nell’università di Leeds e dove ha vissuto fino alla fine. Senza mai abbandonare la prospettiva storico-materialista e senza mai rifiutare una certa idea di comunismo, prese comunque le distanze dalla dottrina ortodossa del marxismo-leninismo e in questo fu essenziale, per sua stessa ammissione, la lettura di Gramsci. Rivendicò sempre, d’altra parte, il fatto di non appartenere ad alcuna “scuola” di pensiero e, in effetti, anche la sua attività di sociologo può essere considerata piuttosto anomala rispetto ai canoni accademici. Bauman non è stato un “teorico” e i suoi lavori non sono il risultato di ricerche sul campo; più che sociologo, potremmo forse definirlo un osservatore impegnato e un acuto analista dei tempi che corrono.
Nella sua vasta produzione, i temi trattati sono molteplici, ma tra le prime opere a decretarne la fama, inizialmente in ambito accademico anglosassone, va sicuramente ricordato Modernità e Olocausto del 1989. Nel saggio, pubblicato in italiano nel 1992, Bauman interpreta lo sterminio degli ebrei, non come una parentesi oscura della modernità, ma come un suo prodotto specifico, risultato di quell’ingegneria sociale e di quella razionalità strumentale e tecnologica che, riprendendo alcune tesi sviluppate da Horkheimer e Adorno in Dialettica dell’Illuminismo, sono da considerare come la logica perversa della modernizzazione.
La linea fondamentale della sua ricerca, e anche la più consistente in termini di titoli pubblicati, è però costituita dallo sforzo d’analizzare il complesso processo che ha determinato quel Disagio della postmodernità (titolo di un saggio pubblicato da Mondadori nel 2002) in cui vive l’uomo contemporaneo, nell’epoca che Bauman, come dicevo all’inizio, preferisce indicare come “modernità liquida”. Come la quasi totalità dei ricercatori, anch’egli ritiene che a cavallo degli anni ottanta il mondo abbia subito una profonda trasformazione, la quale ha in pratica dissolto modelli di società e forme di vita tipiche del moderno. Quella frattura epocale, che avrebbe poi inaugurato una nuova fase storica da molti chiamata postmodernità, può forse essere sintetizzata dalla celebre espressione di Margaret Thatcher, secondo cui “non esiste una cosa come la società”.
E’ infatti dalle politiche dei governi Reagan e Thatcher che comincia a imporsi l’idea ordoliberale per cui la sola cosa che esiste è il mercato e la libertà di impresa, principio che poi, con il potente aiuto delle tecnologie digitali e della rete, avrebbe condotto a ciò che oggi, un po’ eufemisticamente, chiamiamo globalizzazione. Citando Luciano Gallino, un altro grande sociologo e anch’egli scomparso da poco, quel processo iniziato negli anni 80’ può essere descritto come “una guerra di classe dall’alto”, che in trent’anni è riuscita a trasformare il sistema-mondo: finanziarizzazione dell’economia, strutturalmente collegata alla fluidità dei mercati e alle tendenze speculative; privatizzazione generalizzata e quindi riduzione o dissoluzione dell’idea stessa di “stato sociale”; logica dell’impresa e della competitività estesa a tutte le sfere dell’agire sociale, da cui ne segue l’estrema flessibilità del lavoro, dove per “lavoro” bisogna intendere non solo i rapporti salariali di compra-vendita della forza lavoro, ma molto più in generale il modo concreto con cui una società produce e riproduce se stessa, sia da un punto di vista materiale sia da quello simbolico e culturale.
In questa guerra di classe, è effettivamente avvenuta una progressiva concentrazione oligarchica della ricchezza e dei meccanismi decisionali, come del resto mostrano tutte le statistiche, tra cui per esempio l’ultimo rapporto di OXFAM, il quale certifica che le otto persone più ricche del mondo detengono una ricchezza pari a quella di metà dell’umanità intera. La “guerra” è stata però condotta con strategie “soffici”, che non hanno incontrato forti resistenze e sono riuscite a corrodere, dall’interno, quelle forme d’organizzazione collettiva, quali partiti politici, sindacati o movimenti, che esprimevano profondi legami simbolici e funzionavano da istanze di mediazione sociale. Si sono così svuotate di contenuto le democrazie rappresentative, poiché i parlamenti nazionali sono di fatto sovradeterminati da superiori leggi di mercato, e nella mentalità collettiva si è diffusa la convinzione di dover competere ognuno in una lotta solitaria, di dover essere davvero, come vuole il mercato, ognuno l’impresa di se stesso. E’ stata insomma una guerra sotterranea che non ha trovato resistenze, anche perché è stata propagandata usando valori progressisti d’innovazione tecnologica, di creatività, d’intraprendenza, d’indipendenza e libertà personale, che tutte le sinistre classiche occidentali hanno fatto propri, contribuendo attivamente al successo delle trasformazioni strutturali in corso. Riforme fondamentali in tal senso sono proprio avvenute grazie a leader politici esponenti di quella che fu definita la “terza via”, una visione politica seguita dai grandi partiti di sinistra e il cui principale teorico è stato il sociologo inglese Anthony Giddens, amico di Bauman, ma con posizioni assai diverse. Una riforma decisiva, con ripercussioni globali, fu per esempio la decisione del presidente democratico Bill Clinton di abrogare, nel 1999, la legge Glass Steagall, che fu stabilita dopo la crisi del ’29 e che serviva a impedire la commistione tra attività bancarie tradizionali e attività speculative.
Con notevole anticipo rispetto a tutti coloro che, da destra e da sinistra, vedevano nel libero mercato globalizzato e nelle reti digitali l’avvento di un mondo pacificato in cui avrebbe liberamente circolato il sapere, il grande merito di Zygmunt Bauman è stato quello di aver capito, già a metà degli anni 90’, che il processo in corso era destinato a produrre non solo più ingiustizie, esclusioni e conflitti, ma anche a trasformare antropologicamente, e in modo preoccupante, il senso dello “stare in società”. Nella nostra modernità liquida, ci dice Bauman, il mondo si decompone in frammenti sparsi e le nostre vite individuali si frantumano in una successione di momenti incoerenti. In un simile mondo, i legami sociali sono sensibilmente più fluidi, si configurano in forme locali e temporanee, ma non riescono più a funzionare come modelli di riferimento per le azioni umane poiché ognuno di noi sa che si modificheranno rapidamente senza mai solidificarsi. In questa situazione diventa estremamente difficile la costituzione di soggettività individuali o collettive: a livello individuale le persone non riescono più a percepire la propria vita in una continuità temporale e a elaborare dei progetti a lungo termine, e a livello collettivo, nell’assenza di legami solidi e duraturi, non si riescono a stabilire strategie comuni e coerenti.
Attraverso i suoi numerosi saggi, Bauman articola la metafora della “liquidità” applicandola all’analisi di molteplici aspetti della vita cognitiva ed emotiva dell’uomo contemporaneo. La modernità liquida descrive un mondo che ha nella flessibilità uno dei suoi valori principali, un valore che concretamente si traduce anche, come abbiamo visto, nelle dinamiche altamente flessibili e precarie del lavoro. Benché la flessibilità sia presentata, positivamente, come il contrario della rigidità e come libera apertura al nuovo e al cambiamento, per gli individui tutto questo è perlopiù vissuto come un obbligo ad adattarsi e ad accettare mutamenti di cui non capiscono le ragioni e che sono incapaci di controllare. Da ciò ne deriva la convinzione, afferma Bauman, che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza. Per gran parte dell’umanità, la flessibilità non corrisponde alla libertà di cambiare – lavoro, stili di vita o opinioni – ma a una gabbia, in cui i sentimenti che prevalgono sono il senso d’impotenza e la paura. Due sentimenti profondamente connessi che si riflettono poi sul piano etico e politico: il senso d’impotenza, derivante dal fatto che a determinare le nostre condizioni di vita sono sempre più dei fattori esterni, aleatori e apparentemente incontrollabili (Wall Street, Bruxelles, lo spread, gli algoritmi, i terroristi, le intelligence, i grandi network), si trasforma in insicurezza e paura: paura di rimanere esclusi, paura di perdere quelle sicurezze materiali ed esistenziali che si sono conquistate. Questa paura genera poi, in modo naturale, il desiderio per l’uomo forte, per qualcuno che possa decidere, per un dispositivo – leader carismatico o sistema repressivo – che sappia far fronte a delle minacce che vengono percepite come provenienti sempre da un “fuori”, provocate da impenetrabili e imprevedibili “forze globali”, ma che sempre più spesso si incarnano nello straniero e nell’immigrato.
«Gli immigrati – cito un passaggio di un’intervista che Bauman rilasciò nel 2009 a Mariapaola Leporale per Micromega - rendono palpabili e fin troppo visibili gli orrori della mancanza di mezzi di sussistenza, dell’esilio forzato e del degrado, che conducono all’esclusione sociale e alla relegazione in un non-luogo al di fuori dell’universo della legge e dei diritti. Essi incarnano, dunque, tutte quelle paure esistenziali subconsce o inconsce che tormentano gli uomini e le donne della moderna società liquida. Scacciando gli immigrati ci si ribella (per procura) a tutte quelle misteriose forze globali che minacciano di riservare a ognuno la sorte già toccata agli stranieri.»
Del tema della sicurezza e dei migranti, Bauman se n’è occupato in diverse opere, come per esempio La società dell’incertezza (ed. Il Mulino, 1999) o La solitudine del cittadino globale (ed. Feltrinelli, 2000), ma vorrei riferirmi in particolare a un testo pubblicato nel 2005 e intitolato Vite di scarto (ed. Laterza), dove si ritrovano molti dei temi sviluppati in altri dei suoi saggi. Un aspetto centrale della “modernità liquida” e della sua perenne instabilità è senz’altro la dinamica dell’innovazione permanente e dell’incessante produzione di nuove merci che vengono costantemente immesse nel mercato. La figura umana che emerge da un tale sistema produttivo è ovviamente quella del consumatore, e il consumo, come Bauman ripete in più occasioni, va oggi inteso come la modalità fondamentale attraverso cui si fa esperienza del mondo e delle relazioni interumane. In Vite di scarto, la realtà del consumo è però affrontata considerando soprattutto il suo rovescio, ovvero la quantità impressionante di rifiuti e di scarti a cui essa inevitabilmente si accompagna. Per ovvie ragioni, in una logica economica d’innovazione permanente, le cose sono infatti programmate per avere una durata di vita assai breve, generando quindi una quantità gigantesca di obsolescenza che non è data solo dai rifiuti materiali, ma anche da tutto ciò che, generalizzando, possiamo definire “prodotti culturali” (letteratura, musica, cinema, saggistica, informazione, ecc.), anch’essi destinati a essere consumati e immediatamente dimenticati. Per descrivere con un’immagine questa situazione, Bauman si riferisce a Calvino e alla Leonia delle Città invisibili, una città che rifà se stessa ogni mattina, espellendo tutto ciò che ha usato il giorno prima, e dove gli abitanti non si vogliono chiedere dove finiscano i carichi di spazzatura che si accumulano alla sua periferia. Divenuta estremamente sofisticata nell’arte di fabbricare nuovi prodotti e nuovi materiali, Leonia non sa che i suoi rifiuti sono sempre più resistenti al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e a combustioni, così che il suo passato, di cui vuole liberarsi, è invece destinato a restare e la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle montagne di spazzatura di ieri che s’ammucchiano su quelle dell’altroieri.
I rifiuti, gli scarti, scrive Bauman facendosi aiutare da Calvino, sono il “rimosso” delle nostre società liquide, ma la nozione di scarto deve essere estesa anche alle masse umane in “esubero”, a tutti coloro, migranti in primis, che i processi di globalizzazione escludono dalla società e che, al pari della spazzatura che circonda Leonia, premono alle frontiere delle nostre città. Per come funziona oggi il mondo, spiega Bauman, i disoccupati, i poveri, i migranti, cioè le vite umane di scarto, non possono che aumentare. Dal punto di vista della produzione, si tratta, infatti, di persone il cui lavoro non può essere utilmente impiegato, poiché, grazie alle macchine e alle tecnologie informatiche, tutti i beni che la domanda attuale e prevista è in grado di assorbire possono essere prodotti – e prodotti in modo più rapido, redditizio ed «economico» – senza tenerle occupate. E se ci poniamo dal punto di vista del consumo, queste persone sono «consumatori difettosi»: persone che non hanno il denaro che consentirebbe loro di estendere la capacità del mercato dei beni di consumo; per un mondo in cui lo sviluppo è sinonimo di crescita dei consumi, i consumatori difettosi sono il suo passivo più irritante e costoso. Se una parte della popolazione mondiale risulta oggi in eccesso, la causa non è certo la « sovrappopolazione », una nozione, afferma giustamente Bauman, che è un’invenzione degli statistici, un nome in codice che designa la comparsa di un gran numero di persone che non servono al buon funzionamento di quelli che si considerano i corretti parametri dell’economia di mercato. E’ tuttavia perlopiù in questo modo che l’«opinione pubblica» (o più precisamente i suoi portavoce, eletti o autodesignati) percepisce il problema : l’umanità di scarto, i migranti, gli esuli, non sono visti soltanto come un corpo estraneo, ma come un cancro che rode i tessuti sani della società, e come i nemici giurati del « modo di vivere occidentale» e «dei valori che si difendono». Una minaccia appunto, che giustifica e legittima il respingimento, la costruzione di muri o la reclusione in iper-ghetti che, per eufemismo, vengono chiamati centri d’accoglienza.
Come dicevo all’inizio, i temi trattati da Bauman nella sua lunga vita di ricercatore sono molteplici e il discorso sulla sua opera potrebbe continuare a lungo, considerando anche, per esempio, alcuni saggi dedicati all’amore o all’educazione che in queste pagine non ho analizzato e su cui, forse, potrebbe essere espressa qualche perplessità. Mi pare però di poter concludere dicendo che, senza essere apocalittici, i suoi testi ci restituiscono una diagnosi assai critica delle nostre società contemporanee che individua aspetti difficilmente contestabili. Bauman non ci offre terapie o soluzioni, se non un richiamo all’etica e ai valori di un umanesimo ideale che, osservando la situazione del mondo, sembrano un monito di scarsa efficacia, ma resta indubbiamente valido il principio, come scrive in La solitudine del cittadino globale (cit. p. 251), secondo cui « per operare nel mondo – anziché essere da questo manipolati – occorre conoscere come il mondo opera ».
L’articolo uscirà il 20 febbraio 2017 nel prossimo numero del Corriere di Tunisi
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