La Tunisia, un paese sempre più “europeo”

<> on February 14, 2017 in Berlin, Germany.

 

Santiago Alba Rico

Lo scorso 15 febbraio il Primo Ministro tunisino Youssef Chahed, in visita in Germania, ha partecipato a un tesa riunione con la sua omologa Angela Merkel. Il motivo della discordia? La scarsa diligenza delle Autorità tunisine nel rimpatriare 1.500 immigrati clandestini che l’attentato di Berlino del dicembre 2016 -il cui autore veniva dalla Tunisia- ha reso potenzialmente pericolosi, se non altro in termini elettorali. La Germania che tallona l’Italia in quanto a investimenti nel Paese nordafricano vuole seguire la strada italiana anche nel concludere un accordo bilaterale sull’immigrazione e fa pressioni, inoltre, perché il governo di Cartagine apra dei campi di rifugiati sul suo territorio. Il rifiuto di Chahed non ha nulla a che vedere con la difesa della sovranità del Paese. Come è noto, la Tunisia è il maggior esportatore mondiale di jihadisti (fra i 3.000 e i 5.000, secondo fonti diverse) e l’arretramento di Daesh in Siria e in Iraq fa temere ora un loro ritorno.

Questo “ritorno” è diventato una vera e propria ossessione, alimentata dai media e dalla stessa sinistra “eradicatrice” (la cui islamofobia, molto europea, non ha nulla da invidiare a Le Pen). Un mese fa, ad esempio, qualche migliaio di persone – alcune di loro chiaramente filo-Assad – ha sfilato nell’ Avenue Bourguiba a Tunisi, chiedendo al governo di adottare delle misure straordinarie, tra le quali la revoca della cittadinanza ai jihadisti tunisini; richiesta che sta prendendo forza, tanto che lo stesso Presidente della Repubblica, il reazionario Caid Essebsi, ha dovuto ricordare che il provvedimento sarebbe un atto incompatibile con la Costituzione. Ebbene, se un vasto settore dell’opinione pubblica tunisina è sempre più preoccupato del “ritorno dei jihadisti”, Amnesty International è più preoccupata dall’uso che si sta facendo della lotta anti-terrorista e della psicosi generalizzata per sospendere o far retrocedere le conquiste formali ottenute dalla rivoluzione del 2011: con lo “stato di emergenza”, denuncia l’organizzazione internazionale, si sta tornando all’ ancien régime e si stanno moltiplicando gli arresti arbitrari, le retate della polizia ed i casi di tortura. Questo terrore dei “ricomparsi” non solo giustifica le violazioni del diritto, ma alimenta -come mette bene in guardia il giornalista Seif Soudani- una “criminalizzazione della rivoluzione” , fonte di tutti i mali agli occhi dei settori “laici”, di destra e di sinistra, che non fanno distinzioni tra Daesh e Ennahda, o che in ogni caso, con memoria molto corta, giudicano il governo della Troika (dicembre 2011-gennaio 2014) responsabile del jihadismo terrorista.

L’unico progetto del governo tunisino per i “ricomparsi” è il carcere. Ci sono già 1.500 detenuti, condannati o in attesa di giudizio a causa dei loro rapporti, provati o meno, con il jihadismo. Eppure sono molte di più le persone incarcerate per uso di droga, specialmente di zatla (cannabis): circa 6.700, secondo il Ministero della Giustizia. Gli uni e gli altri, presunti jihadisti e consumatori di hashish, sono giovani tra i 18 ed i 35 anni che in qualche modo, come suggerisce il sociologo Hamza Meddeb, in prigione mescolano i propri destini. In base all’articolo 52 del codice penale, basta fumare uno spinello per passare tra uno e cinque anni in galera. Questo articolo fu introdotto nel 1992 da Ben Ali con l’obiettivo di perseguire gli oppositori politici e viene ancora oggi utilizzato con propositi simili per criminalizzare e controllare i più giovani, potenziali ribelli o “terroristi”. Otto poliziotti si sono asserragliati in casa nostra, in tenuta antisommossa, per un’operazione contro il terrorismo”, racconta Slim. “Non avendo trovato alcuna prova, ci hanno costretto a fare l’esame delle urine e ci hanno arrestato per uso di droga. La storia di Slim, dice Debora Del Pistoia, che ha raccolto questa ed altre testimonianze, è “la routine quotidiana della repressione giovanile”. Le pressioni del Movimento “Al-Sajin 52“(prigioniero della 52) e le critiche delle organizzazioni per i diritti umani avevano fatto sì che il Governo, nel 2014, si riproponesse di rivedere la legge; ma, dopo ritardi e inciampi, il nuovo progetto di legge, presentato nel gennaio del 2017 dal governo di Chahed, non solo mantiene la pena detentiva anche per i consumatori incensurati, ma porta a 5.000 dinari la pena amministrativa. Stranamente, una delle poche voci che si sono levate a favore della totale depenalizzazione del consumo di droga è stata quella di Lotfi Zitoun, deputato del partito islamista Ennahda.

A sei anni dalle rivoluzioni arabe vediamo dunque che la Tunisia rappresenta una curiosa “eccezione“. Lo è nel senso che la sua situazione è meno comparabile con quella di altri Paesi della regione -Libia, Egitto, ma anche Algeria- che con quella della Francia e dei Paesi europei. La Tunisia non sta sperimentando un fenomeno di “radicalizzazione islamica” bensì di de-democratizzazione generale, dopo una rivoluzione trionfante e nel quadro di una transizione democratica molto fragile e molto limitata. Questo processo di de-democratizzazione, simile a quello che stanno sperimentando la Francia, il Belgio o la Spagna, alimenta senz’altro la “radicalizzazione islamica” di un settore giovanile socialmente ed economicamente privato sia di tutele che di parola all’interno delle istituzioni; tuttavia, qui come in Europa, è un fenomeno molto più pericoloso della stessa “radicalizzazione”, anche perchè, come in Europa, non è accompagnato da alcuna proposta alternativa da parte della sinistra. La Tunisia parte da condizioni molto più fragili ed è molto più esposta ad arretramenti rapidi e incontrastati. Il suo processo di de-democratizzazione, che ne illumina la caratteristica di “eccezione regionale” nonché la “vocazione europea”, ha a sua volta delle cause specifiche.

La prima causa è indubbiamente geopolitica: posta nel mezzo delle più caotiche espressioni della sconfitta delle rivoluzioni arabe, mal collocata tra Libia e Algeria, che la indeboliscono ma dalle quali dipende economicamente, la Tunisia è sempre più dipendente anche dall’UE e dagli USA nella lotta contro il terrorismo, una lotta sempre più legata, come vedevamo all’inizio, alla guerra all’immigrazione. E’ proprio su questa combinazione (la voluta confusione tra antiterrorismo e politiche migratorie) che per 24 anni si è sostenuta la dittatura di Ben Ali.

La seconda causa è politica e interna: la caduta di Ben Ali non ha portato con sé una “rottura”, ma una ricomposizione del sistema. Questa ricomposizione, che ha allargato il consenso delle élites -come accaduto in Spagna nel 1978- inclusi in questo caso i seguaci di Ennahda, impone limiti molto chiari a qualunque tentativo di avanzamento democratico che si scontri con lo “Stato profondo”, incistato nel Ministero dell’Interno, o con gli interessi degli imprenditori. In un Paese in cui la corruzione, molla della rivoluzione del 2011, ha continuato ad aumentare di pari passo con la disoccupazione e la povertà, si risponde alle proteste sociali con la repressione e la criminalizzazione. Diciamo che la ricomposizione del regime è buona cosa perchè amplia il numero di associati, costringe a negoziare e apre un margine democratico all’azione politica, ma allo stesso tempo delegittima qualunque forma di opposizione. Messa fuori gioco la sinistra, il regime poggia ora su tre gambe: l’ ancien régime, il sindacato UGTT e il partito Ennahda. La rinuncia degli ultimi due ad ogni volontà di rottura, rende il malcontento sociale -come accade in Europa- appannaggio dei nostalgici della dittatura e dei jihadisti che si corteggiano e si cercano a vicenda. Il malcontento sociale criminalizzato accelera i processi alternativi di de-democratizzazione e radicalizzazione jihadista.

Nel quadro di questi arretramenti molto “europei”, l’eccezione tunisina presenta però un contesto locale assai promettente. Mi riferisco ai lavori dell’ Istanza per la Verità e la Dignità, l’unica istituzione che mantiene lo spirito “di rottura” della rivoluzione e che, proprio per questo, ha trovato sulla sua strada ogni sorta di ostacoli. Secondo Sihem Ben Sedrine, l’Istanza da lei diretta ha fotocopiato 13.000 casse di documenti conservati negli archivi del Palazzo presidenziale, ma l’insieme degli archivi relativi alla “sicurezza nazionale” sono tuttora nelle mani del Ministero dell’Interno. Documenti distrutti dopo la fuga del dittatore, documenti purgati, documenti trattenuti. Ma nonostante tutto l’Istanza per la Verità e la Dignità è riuscita, contro venti e maree, contro la destra e contro la sinistra, a raccogliere migliaia di testimonianze che rivelano i crimini commessi dalle dittature di Bourguiba e di Ben Ali. E non basta: è riuscita a rendere pubbliche le testimonianze di molte delle vittime attraverso sessioni aperte, trasmesse dalla televisione, che stanno scuotendo le coscienze dei tunisini e stanno facendo ricordare le ragioni per cui tanti giovani, oggi nuovamente perseguitati e criminalizzati, hanno dato la loro vita nel 2011. L’Istanza per la Verità e la Dignità con le sue dolorose testimonianze, rappresenta la breccia luminosa -l’unico squarcio luminoso- in un quadro democratico appena aperto e che, come nel resto del mondo, è più vicino a chiudersi del tutto che ad allargare la sua portata.

L’articolo originale è apparso il 24 febbraio 2017 su sito del giornale Gara

Traduzione dallo spagnolo a cura di Giovanna Barile