Frédéric Bobin
Rasserenato dalla sua sconvolgente confessione fatta in diretta televisiva, questo ex prigioniero politico si preoccupa che la giustizia di transizione abbia un esito positivo in Tunisia.
Bisognava rivederlo, Sami Braham, bisognava incontrare di nuovo colui il quale ha sconvolto l’intera Tunisia (e anche ben al di là) durante un’intera serata di confessioni in televisione, un’immersione nella profondità dell’orrore. Com’è stato “il giorno dopo? Come ci si sente una volta che si è disseppellito il segreto, che si è gettato in faccia al proprio paese il “non detto”? Quattro mesi fa, Sami Braham, ascoltato dall’Istanza Verità e Dignità in occasione di un’audizione pubblica, aveva raccontato l’inferno delle prigioni della dittatura di Ben Alì, nelle quali era stato messo a marcire per nove anni, islamista incarcerato nel corso degli anni ’90.
Catarsi
Eccolo qui allora, Sami Braham, una giacca sobria e sciarpa di lana al collo. Batte sulla tastiera del computer nel suo ufficio al terzo piano del Centro di studi e ricerche economiche e sociali (Ceres), un circolo di riflessione in cui è ricercatore in islamologia. Fuori, il sole di Tunisi cerca di intiepidire l’aria ancora fresca.
Quattro mesi dopo l’evento dal potente eco mediatico, Sami Braham confessa di aver recuperato una parte della propria pace interiore. Parla di “ sollievo”, di una confessione che gli è servita da “terapia. Il “senso di colpa” che sentiva nei confronti della famiglia che aveva tanto sofferto delle persecuzioni poliziesche, a causa del suo impegno nei ranghi di Ennahda, (il partito islamista tunisino, all’epoca represso), si è ormai attenuato. Ognuno sa ora quanto è stato straziato nella carne e nell’anima. Ciò aiuta a dissipare molte incomprensioni.
E poi ci sono state queste”migliaia di messaggi”, parole di simpatia e di ringraziamento per aver osato rivelare delle verità così penose. “Le persone mi dicevano che le avevo fatte piangere”racconta. Per una settimana Sami Braham si è chiuso in casa e ha risposto a ognuna di queste missive. Se la stragrande maggioranza ha lodato il suo coraggio, una piccola minoranza però gli ha rimproverato il suo appello al “perdono”, un gesto giudicato contrario allo spirito della giustizia di transizione. “Eppure avevo precisato bene come questo perdono fosse condizionato” ci tiene a sottolineare”Deve essere subordinato al riconoscimento da parte dei torturatori dei loro crimini” Ha quindi apprezzato che all’indomani della sua confessione in televisione, un ex direttore di prigione -che l’aveva percosso con le proprie mani- si sia spontaneamente presentato alla sede dell’IVD. L’ex capo carcerario desiderava mettersi a posto la coscienza.
Nel corso della conversazione, Sami Braham torna necessariamente sugli orrori subiti nelle prigioni di Ben Alì. E a questo punto è obbligato a confessare che non ha “detto tutto”. “Non volevo dare un’immagine troppo negativa della Tunisia”si giustifica.” Non volevo attizzare il desiderio di vendetta. E poi ci sono dei dettagli che non si possono raccontare di fronte alle famiglie che ci guardavano davanti alla tv.”
Quello che non ha osato rivelare in maniera troppo esplicita è la dimensione sessuale della violenza carceraria, gli stupri, le fellatio forzate.
E durante quei nove anni trascorsi in quattordici prigioni ne ha scoperto le sordide realtà. Come il “commercio di giovani prigionieri”. “Le reti erano gestite da alcuni detenuti comuni chiamati responsabili di camerata. Quando arrivavano nuovi prigionieri, loro selezionavano i più giovani e più delicati e li vestivano da oggetti sessuali. In seguito, li rivendevano alle altre camerate. C’era un mercato, i prezzi si negoziavano. A volte vi erano delle zuffe se non ci si accordava sul prezzo. Le autorità lasciavano fare”. Come si può dire ciò davanti a centinaia di migliaia di telespettatori?
Oggi Sami Braham vuole passare ad altre cose. Ha compiuto quello che crede sia il proprio dovere. Con le sue parole soppesate ha esposto ai suoi compatrioti una verità crudele, il contrario della sceneggiata del sistema di Ben Alì, quella zona d’ombra di cui ognuno sospettava, ma senza conoscerne necessariamente tutta la violenza. Se egli ci ha tenuto a testimoniare in quella maniera, è perché vuole “impedire che quel sistema si riproduca”. Ed è questa appunto la missione dell’IVD, istituzione faro della giustizia di transizione tunisina che continua a intervalli regolari con le audizioni pubbliche delle vittime della dittatura, tappa indispensabile per dotare la Tunisia di una memoria pacificata.
Sami Braham “spera tantissimo che il percorso vada a buon fine” ma non nasconde la propria inquietudine. Una volta passata l’emozione per le prime audizioni, ha visto gli eredi dell’ancien régime mobilitarsi per instillare il veleno del discredito, in particolare contro Sihem Ben Sedrine, la presidentessa dell’IVD, personalità sicuramente controversa, ma la cui forza di carattere ha permesso al percorso della giustizia di transizione di superare molti ostacoli “Gli oppositori della giustizia di transizione si sono risvegliati” deplora. Qualunque cosa succeda, Sami Braham avrà contribuito con le sue parole a riesumare questo ricordo della violenza di Stato. Lui e gli altri testimoni dell’ IVD avranno porto alla Tunisia uno specchio, per quanto doloroso, invito a riconciliarsi con se stessa.
L’articolo originale è apparso su Le Monde Afrique il 20 marzo 2017
Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini
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