Thierry Brésillon
Nel maggio 2016 Ennahda ratificava una riforma di fondamentale importanza, determinante sia per il proprio futuro che per l’evoluzione dell’islam politico in un nuovo contesto post-autoritario.
Essenzialmente si trattava della trasformazione di un movimento, nato a partire dagli anni ’70 come resistenza culturale alla modernizzazione all’occidentale voluta da Habib Bourghiba e passato all’azione politica negli anni ’80, in un partito esclusivamente rivolto all’esercizio del potere. Rached Ghannouchi, il suo presidente, aveva allora rivendicato un posizionamento “musulmano democratico” e “una uscita dall’Islam politico”.
MANTENIMENTO DI UN UN SISTEMA DI RIFERIMENTO RELIGIOSO
La realtà del mutamento è più sfumata. Secondo i termini della mozione adottata al congresso, si tratta di una “specializzazione” di Ennahda nel lavoro politico, in nessun caso di una rinuncia al suo referenziale religioso. “Noi consideriamo ancora il pensiero islamico come una fonte di ispirazione e come cemento per la società, in linea con la tradizione intellettuale dei Fratelli musulmani”, indicava, del resto, prima del congresso Lajimi Lourimi, incaricato del settore culturale all’interno dell’esecutivo del partito.
Per dare voce a questo nuovo insieme di testi, Ennahda, esattamente come il Partito della Giustizia e dello sviluppo marocchino (PJD), fa riferimento alla giurisprudenza delle finalità ((fiqh al-maqasid), una nozione combinata con quella di interesse generale (al-maslaha), rivitalizzata da Tahar Ben Achour ( (1815-1858, teologo riformista tunisino). Essa si declina classicamente in cinque punti: la preservazione della religione, della vita, della ragione, dei beni materiali e della specie. Abdelmajid Najjar, autore delle mozioni dottrinali di Ennahda elaborate nei congressi del 1986 e del 2016, vi aggiunge la giustizia sociale e l’ambiente. Un approccio che permette una certa elasticità programmatica, permettendo al partito successivi aggiornamenti dottrinali.
L’operazione venne giustificata dai suoi teorici come l’adattamento di Ennahda alle esigenze e alle possibilità di un nuovo contesto.
Da un lato l’allentamento della pressione autoritaria permette alla differenti attività (politiche, sociali, religiose…) di dispiegarsi, ciascuna nel rispettivo dominio.
Dall’altro, una volta confermato il posto della religione nella Costituzione e risolvendo in questo modo la questione identitaria, l’oggetto del lavoro politico si sposta verso la presa in carico dei problemi generali del paese. In questa logica di specializzazione la rigenerazione della cultura islamica, l’azione sociale e caritativa appartengono alla libera iniziativa delle associazioni sulle quali il partito, teoricamente, non rivendica alcun controllo. Non viene più permesso di ricoprire cariche sia all’interno del partito che in una associazione a vocazione religiosa o sociale.
Per quanto riguarda l’adesione al partito, essa è stata semplificata sopprimendo il periodo di prova di tre mesi e la formazione religiosa, dando la possibilità di accedere rapidamente a funzioni di responsabilità, al fine di infondere prontamente aria nuova nei ranghi dell’organizzazione.
IL PREZZO DEL COMPROMESSO
La riconciliazione con lo Stato, consacrata in maniera spettacolare con la visita di Béji Caïd Essebsi (il presidente delle Repubblica, n.d.t.) alla cerimonia d’apertura del congresso, è stata l’occasione propizia per questa trasformazione in partito di potere, dotato di una nuova cultura dell’organizzazione. Più profondamente radicato nel paesaggio politico, ben accetto sulla scena internazionale e avviatosi ad affrontare le elezioni locali, rinviate e previste per il prossimo dicembre, Ennahda dovrà rinnovare la propria base e consolidare il proprio radicamento nelle istituzioni.
Questa mutazione avviene sotto lo sguardo duplice degli attori politici tunisini e degli altri movimenti islamisti. Per i primi il ventaglio di interpretazioni va da abilità tattica a trasformazione sostanziale, mentre i secondi esitano fra superamento dell’isolamento dei partiti e la rinuncia all’identità islamica. Tuttavia, la risposta proviene meno dal dibattito teorico che dagli effetti prodotti da questi nuovi orientamenti.
Ci sono voluti non più di dieci giorni al presidente della Repubblica per ricordare che intendeva restare il padrone delle scadenze politiche. Il 2 giugno, andando oltre le sue prerogative costituzionali, ribaltava le carte in tavola e riposizionava l’alleanza parlamentare tra il partito che l’ha portato al potere, Nidaa Tounès, e Ennahda nel quadro più ampio dell’unione nazionale. In questo modo costringeva Ennahda- che aveva il vento in poppa all’indomani del successo congressuale – a rinegoziare il suo posizionamento nel governo di coalizione e a far accettare alla propria base militante l’abbandono del primo ministro Habib Essid, con il quale peraltro avevano collaborato senza grandi problemi. Questa nuova pressione esterna sul percorso interno del partito ha accentuato le tensioni in seno a Ennahada. dovute più alla sua condotta politica che alla trasformazione del movimento, ampiamente accettata in linea di principio.
La specializzazione di Ennahda che mirava a consolidarne l’inclusione è utile al suo sviluppo e al suo dinamismo nazionale? O riduce il partito a gestire una “caduta nel presente” dei rapporti di forza e dei compromessi con tempistica e condizioni gestite dalla Presidenza?
DEMOCRAZIA INTERNA E RIFORMA DEL PARTITO
Anche se è diventato maggioritario in parlamento dopo la scissione del gruppo di Nidaa Tounes, Ennahda rimane tributario di una relazione disequilibrata con Béji Caïd Essebsi in una logica di cooptazione che lo costringe, se non a cedere su tutto, quantomeno a negoziare il proprio sostegno e a contenere la resistenza dei militanti e degli eletti alle iniziative del presidente della repubblica. La pressione di una geopolitica sempre meno favorevole ai movimenti islamisti pesa fortemente sui termini di questa alleanza. E se Essebsi si è fatto garante per Ennahda al cospetto di Donald Trump, ciò rappresenta al tempo stesso una preziosa conquista per una base militante ancora traumatizzata dagli anni della repressione, ma anche della vulnerabilità che obbliga a mantenere un profilo basso.
Così Ennahda assiste, senza poter veramente opporvisi, alla deviazione dal regime parlamentare che ha voluto iscrivere nella Costituzione del 2014 , a vantaggio di una personalizzazione dell’esercizio del potere presidenziale, dell’indebolimento della giustizia di transizione, messa in opera con una legge del dicembre 2013 e del ricostituirsi di alleanze tra il potere e gli ambienti affaristici.
L’accordo con Nidaa Tounes permette al partito di prendere tempo per poter rendere credibile la propria mutazione in partito di governo, ma a quale prezzo? “Fino a dove dobbiamo seguire Béji Caïd Essebsi ?“, si chiedono sempre più apertamente alcuni quadri e parlamentari e soprattutto i giovani militanti, meno disposti al compromesso con i rappresentanti dell’ancien régime, tornati alla ribalta in posizione di forza. La questione della specializzazione si ricongiunge a quella dell’alleanza con Nida Tounes, da ciò il ricorrente dibattito sulla democrazia interna e la riforma del partito. Rached Ghannouci aveva utilizzato tutto il suo peso politico, in occasione del congresso, per conservare il proprio controllo nella formazione del comitato esecutivo del partito per poter manovrare liberamente nelle acque ancora pericolose di questa transizione incompiuta. A costo di concedere qualche apertura all’organo decisionale ( Majliss al-choura) e la convocazione di un di una conferenza nazionale annuale, senza potere decisionale, tra un congresso e l’altro.
Con lo stesso spirito di democratizzazione gli organi esecutivi locali vengono ormai eletti e i candidati a responsabilità regionali possono condurre campagne interne. Ma gli oppositori di Ghannouchi gli rimproverano di continuare a concentrare su di sé troppo potere e di non riequilibrare l’alleanza con Essebsi. “Non abbiamo un partito che ha un presidente, ma un presidente che ha un partito “ sparano addirittura i suoi oppositori dichiarati. Dietro questa critica virulenta si cela anche il timore che i benefici materiali dell’integrazione al potere siano riservati a una ristretta élite.
Le misure che dovrebbero caratterizzare la specializzazione politica di Ennahda, segnano il passo, “le mozioni del congresso non si traducono ancora in una nuova cultura per i militanti”si lamenta Abdelhamid Jelassi, ex vice presidente del partito, escluso dopo l’ultimo congresso e considerato come uno dei principali portavoce della base. “La specializzazione vine ancora percepita da parte di alcuni come una rinuncia all’islam”.
IN MEZZO AL GUADO
Lo sviluppo di una galassia associativa attorno a Ennahda ha ugualmente una dimensione sociale, persino finanziaria. Implica l’uscita di un certo numero dei suoi aderenti che trattano le condizioni materiali per la creazione della loro attività che non riceverà più risorse di parte (dal partito). La separazione è perciò un processo abbastanza lento. Peraltro la relazione con questi movimenti resta un’incognita. Le associazioni saranno uno strumento di mobilizzazione e sensibilizzazione?O, al contrario, una volta liberatesi dalle costrizioni politiche, tenderanno a una visione religiosa meno conciliante? Questa articolazione libera è inedita nel campo dell’islam politico.
Ma la principale incognita in questo percorso riguarda il contenuto programmatico legato alla sua vocazione di partito di governo.
Dopo aver lasciato la sponda della questione identitaria, Ennahda non ha ancora terminato la traversata. In mezzo al guado, non possiede sufficienti strumenti concettuali per comprendere la crisi dello Stato e dei modelli economici, per proporre una lettura specifica dei movimenti sociali che periodicamente agitano le regioni dell’interno e del sud del paese, né per incidere sul corso delle riforme raccomandate dai finanziatori. L’esercizio del potere non è accompagnato da un lavoro di analisi e di idee che permetta ai ministri provenienti da Ennahda di difendere un approccio comune e specifico. Non hanno praticamente altre risorse se non quelle fornite dalle amministrazioni dei rispettivi ministeri.
.Non riuscendo a distinguersi per il proprio apporto alla gestione governativa, il partito deve assumersi la corresponsabilità del perdurare della crisi sociale o del ritardo nell’attuazione della Costituzione. E’ in grado Ennahda di diventare un partito di governo non solo grazie al retaggio della sua identità islamica, ma anche per una specificità programmatica? Può essere credibile sia nel campo secolarizzato dell’esercizio del potere che in quello dell’islam politico? Questa esperienza dimostrerà “il fallimento dell’islam politico” o piuttosto il suo dispiegarsi in uno spazio ampliato dalla democratizzazione? La risposta dipende sia dalla capacità di Ennahda di tradurre il suo referenziale e la sua esperienza in politiche pubbliche, sia dall’autenticità del pluralismo democratico in Tunisia. Vale a dire che la prossima versione di Ennahda sarà il prodotto del proprio lavoro, ma anche dell’ambiente che lo circonda.
L’articolo originale è apparso il 14 giugno 2017 sul sito Orient XXI
Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini
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