Sadri Khiari
Come è ormai consuetudine, ogni nuovo attentato diventa il pretesto per un nuovo giro di vite securitario. Lo stato d’emergenza e la legge anti-terrorismo ne costituiscono sicuramente il quadro generale. L’assassinio, il 1° novembre, di un graduato della polizia, il comandante Riadh Barrouta per mano di un presunto membro dell’Isis, ha dunque riportato all’ordine del giorno il progetto di legge “relativo alla repressione degli attacchi alle forze armate “, presentato nell’aprile 2015, qualche mese dopo l’elezione di Béji Caïd Essebsi alla presidenza della repubblica.
Manifestazioni di poliziotti in diverse città della Tunisia (Gafsa, Tataouine…), fascia rossa al braccio in segno di protesta, intimazioni da parte dei sindacati di polizia che minacciano di mettere fine alla protezione dei deputati e delle personalità politiche, vengono a sommarsi agli ordini dati dal Presidente della Repubblica affinché questo progetto di legge venga esaminato e adottato dall’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo (il Parlamento tunisino n.d.t). Con il termine “forze armate”, come viene spiegato nelle “disposizioni generali” che fanno da introduzione al progetto di legge, si deve intendere l’insieme degli”agenti che portano armi e che appartengono alle forze armate militari, alle forze di sicurezza interna e ai doganieri” In realtà, la legge in questione riguarda soprattutto i differenti corpi della polizia e va ben al di là del ristretto quadro della loro protezione di fronte alla minaccia terroristica. Non mi dilungherò sui dettagli di questo progetto di legge. Da due anni, in effetti, i pericoli che esso nasconde dal punto di vista delle libertà individuali e dei diritti umani sono stati più volte evidenziati sia dai militanti politici e associativi che dai giornalisti. A giusto titolo questi ultimi hanno denunciato le gravi restrizioni alla libertà d’informazione che risulterebbero dalla sua approvazione. Allo stesso modo essi hanno messo in evidenza l’immunità e l’impunità che la legge accorda agli organi di sicurezza, in particolare nel momento in cui essi fanno ricorso alla violenza, anche quella letale, e per ragioni di cui essi soltanto sono giudici. Inoltre, l’ambiguità e l’opacità che circondano la più parte delle formulazioni di questo progetto di legge autorizzano la più arbitraria delle repressioni. L’articolo 11, ad esempio, punisce con tre anni di carcere e un’ altissima ammenda “chiunque , consapevolmente e col fine di portare attacco alla pubblica sicurezza, abbia ostacolato l’ attività quotidiana dei servizi, delle istituzioni e delle sedi appartenenti alle forze armate in qualunque maniera”. Non c’è neanche una parola in questa frase che non sia suscettibile di mille interpretazioni. Ogni atto di resistenza democratica o sociale, tutte le forme di protesta, un semplice atto di disobbedienza all’ingiunzione di un agente, potrebbero in questo modo essere criminalizzati, se così vuole l’organo di polizia. Non siete contenti, e lo dite? Allora rischiate due anni di carcere per “oltraggio alle forze armate”. E a dir la verità, anche se non dite niente e neanche aggrottate le sopracciglia, sappiamo bene che davanti a un giudice la voce di un poliziotto vale più di quella di un semplice cittadino.
Nella sua vaga intestazione destinata a far intendere che la sua finalià sia la protezione dei soldati in guerra contro il terrorismo, si nasconde lo scopo completamente diverso cui mira tale progetto di legge : assicurare l’invulnerabilià totale della polizia e la totale vulnerabilità del cittadino di fronte alla polizia. Si tratta di consacrare legislativamente le pratiche e l’arbitrarietà della polizia che caratterizzavano lo Stato tunisino sotto Ben Alì. Nessuno degli articoli lo menziona esplicitamente, ma questa legge è, in un certo modo, retroattiva. Giustificando a priori ogni abuso che in futuro potrebbero commettere alcuni poliziotti o in generale l’istituzione di polizia, in nome della pubblica sicurezza, essa giustifica a posteriori tutti i soprusi commessi, in nome di questa stessa pubblica sicurezza, ai tempi di Ben Alì e nei primi momenti della rivoluzione. In questo risponde perfettamente allo spirito di “riconciliazione” tanto caro ai nostri governanti.
Friedrich Engels diceva, a proposito dello Stato moderno, che si trattava in ultima istanza, “di una banda di uomini armati al servizio del capitale”. A leggere la legge che ci stanno preparando, sembrerebbe che il grande pensatore e militante rivoluzionario del 19° secolo non avesse del tutto torto.
L’articolo originale è apparso su Nawaat.org il 9 novembre 2017
Tradotto e adattato dal francese da Patrizia Mancini
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