Monica Scafati
In un periodo di isteria collettiva in cui la percezione della realtà dei migranti, deformata ad hoc da istituzioni e destre fascisteggianti, diviene più importante della realtà stessa, occorre fermarsi un momento e riflettere con mente lucida per ricontestualizzare storia, dati e informazioni.
E’ quello che ha fatto Monica Scafati, sviscerando la questione in un lavoro originale che ci sbatte in faccia le politiche migratorie nel loro intreccio con quelle economiche e nella loro banale e crudele razionalità.
Come Tunisia in Red abbiamo estrapolato solo una parte di questo brillante testo, quella che riguarda la Tunisia che, per dirla con le parole dell’autrice: “si presta…a diventare uno snodo fondamentale da cui si diramano irrinunciabili input di riflessione”.
Per accedere all’abstract e al testo completo : https://drive.google.com/drive/folders/1fuiCaEOryi9kQlUxctowPahXqAc5X0rK
In Tunisia , “secondo le statistiche delle competenti Agenzie nazionali (API e FIPA), risultano attive 850 imprese italiane (la maggior parte delle quali sono società totalmente esportatrici, off-shore). Le imprese italiane installate in Tunisia (miste, a partecipazione italiana o a capitale esclusivamente italiano) impiegano oltre 60 mila persone e rappresentano un quarto del totale delle imprese a partecipazione straniera”1. “Una tassazione vicino allo zero per i primi dieci anni, contributi da parte dello stato, salari ridotti del 40% rispetto a quelli europei, questi i vantaggi che hanno spinto centinaia di imprese italiane a delocalizzare in Tunisia”.2 Queste le parole della Direttrice dell’Istituto per il Commercio Estero di Tunisi, quando a rivoluzione avvenuta comunicava come la caduta di Ben Alì “ha rappresentato un sollievo per molti imprenditori che per anni sono stati costretti a lavorare in segreto. […] Qualora la famiglia del presidente avesse scoperto il buon andamento dei loro affari, avrebbe interferito sia negli affari che nel profitto con un atteggiamento spiccatamente mafioso”.
Anche nella già citata visita del 25 Novembre scorso, le questioni del profitto economico sono state di centrale importanza e ne ho in parte già scritto in altri testi richiamando qualche breve informazione sulla cooperazione transfrontaliera finalizzata al “buon vicinato”, e realizzata attraverso la costituzione di una “zona di prosperità condivisa”3.
In altre parole si tratta di creare intorno alla frontiera Schengen, nella sua parte esterna, una cintura di presenze economiche che funga da avamposto, territorio in cui l’amicalità delle relazioni bilaterali con i Paesi terzi possa essere incoraggiata dall’impresa e dal profitto. Scrivevo che “In attuazione dell’obiettivo CTE per il periodo di programmazione 2014-2020, l’Italia avrà a disposizione risorse per un totale pari a 1.136,8 milioni di euro. L’Italia è beneficiaria di 1.136,8 milioni di euro per la cooperazione transfrontaliera della Comunità Europea, a fronte dei 6, 5 miliardi totali, euro più euro meno”, e il programma ENI di cooperazione transfrontaliera Italia-Tunisia ne avrà a disposizione 37 milioni per il solo finanziamento dei progetti.4 Vedremo nel primo trimestre 2018 chi saranno i beneficiari, mentre vediamo subito che 6,5 miliardi in 6 anni, anche sommati ai 4,5 di Frontex e Eurosur, ne danno comunque in totale non più di 11, sempre molto pochi in rapporto ai 180 delle rimesse dei migranti economici.
Dunque anche il mantra del famoso “aiuto a casa loro” finalmente sembra avere una sua logica, che certo non è quella dichiarata da Gentiloni di sostenere amichevolmente, per ragioni umane o forse perfino etiche, la ripresa dell’economia tunisina dopo la faticosa transizione democratica. Quando si dice di aiutare a casa loro si tratta di aiutare noi stessi a contenere la ricchezza che i migranti sono in grado di far circolare in direzione di casa loro, consegnandogli spontaneamente il 3/4% della ricchezza che potenzialmente sono in grado di acquisire legalmente circolando in casa nostra. Intelligente, senz’altro. Soprattutto se lo si fa giustificando il tutto con disinteressata ed impagabile generosità in favore di poveri sottosviluppati incapaci di autoprodursi progresso, civiltà e benessere. E soprattutto se mentre si fa questo si confezionano ulteriori possibilità per un guadagno proprio.
Pensiamo ad esempio alla Tunisia del post rivoluzione, e al modo in cui la transizione democratica è stata strumentalizzata dal Fondo Monetario Internazionale per imporre una determinata transizione economica. Anzi, pensiamo al fatto che il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, intervengono in Tunisia già dagli anni ’80, quando per uscire dalla crisi economica determinata dalla fine del boom petrolifero, con un deficit di vaste proporzioni e un debito incontenibile, la Tunisia ne chiese l’aiuto e adottò per ottenerlo riforme tese alla liberalizzazione dell’economia.
PICCOLE EVIDENZE GEOPOLITICHE: ESPORTAZIONI DI DEMOCRAZIA E LIBERO MERCATO
“La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato determinato dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia in cui si prevedeva tra le clausole contrattuali l’eliminazione dei sussidi alimentari. Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini. Risuonarono gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occuparono la città per sedare la ‘rivolta del pane’. Più di 50 manifestanti e passanti vennero uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi. (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984).
In seguito alla ritrattazione del presidente, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987.”5
La deposizione di Bourghiba e l’insediamento di Ben Alì, sono fenomeni in cui si condensano numerose dinamiche di politica estera. Bourghiba è stato il padre dell’indipendenza tunisina -ottenuta nel 1956-, dunque anche padre della nuova configurazione dei rapporti internazionali della Tunisia con l’Europa, che vede l’Italia “affiancarsi/sostituirsi” alla Francia in termini di paese di riferimento nell’ UE (a tal proposito si segnala che già 10 anni prima, nel ’46, gli italiani in Tunisia erano 100.000 su una popolazione di 2 milioni). Bourghiba fu il fondatore del movimento di massa e interclassista Neo Destur, poi trasformato in partito a seguito dell’indipendenza, fu un laico fervente e agguerrito che considerava la tradizione islamica un freno allo sviluppo economico e sociale della Tunisia.
L’integralismo religioso diverrà una sua ossessione personale, perché vedeva nel fondamentalismo musulmano una minaccia diretta al suo regime oltre che al percorso progressista della nazione. Nella sua valutazione, la Tunisia poteva essere l’ultimo anello della catena iniziata dalla rivoluzione di Khomeini che aveva ridato nuova linfa ai movimenti fondamentalisti già in Siria, Libano, Egitto, Afghanistan ed altri paesi arabi. L’ayatollah Khomeini, già da giovanissimo membro del movimento dei Taleban messo poi fuori legge nel 1925, nel 1963 organizzò una congiura contro lo Scià Mohammad Reza Palhavi che fallì e lo ridusse all’esilio. Il 16 gennaio 1979, lo scià fu messo in fuga dall’esplosione della rivolta e Khomeini tornò dopo 16 anni ad essere protagonista. Conquistato il potere lo esercitò secondo principi teocratici e instaurò in Iran una Repubblica islamica.
In quello stesso anno in Afghanistan il nuovo governo di Taraki e la neonata Repubblica Democratica produssero lo scontento delle gerarchie ecclesiastiche del paese che non tardarono ad organizzare la resistenza armata dei mujaheddin (combattenti della fede). Dopo gli scontri armati tra l’esercito e la resistenza islamica, Mosca inviò 3.000 consiglieri militari sul posto. Alla caduta di alcuni di questi durante le rivolte, rispose con un bombardamento, mentre la rivolta fondamentalista veniva intanto sostenuta da Iran e Pakistan. Al bombardamento russo seguì il subentro esplicito degli Stati Uniti nella questione afghana e chiaramente, nella direzione della contrapposizione a priori verso qualunque forma di iniziativa comunista. Così, se la Russia interveniva in sostegno di un governo progressista e socialista, gli Stati Uniti fornirono aiuti bellici ed economici ai mujaheddin (tra questi già figurava Osama Bin Laden). Il 14 settembre del ’79 Tariki venne assassinato e sostituito con l’ex Primo Ministro Amin, che tornò a fare concessioni alle gerarchie ecclesiastiche, che rifiutò ogni aiuto da Mosca, e di cui si disse essere in contatto con la CIA. Il 27 dicembre arriverà a Kabul l’armata rossa. Gli Stati Uniti reagirono con l’embargo immediato e forniture ai pasdaran del Pakistan e dell’Arabia Saudita per arginare l’avanzata sovietica. Bisognerà attendere la salita al potere di Gorbaciov nel 1985 per l’avvio di un percorso di risoluzione diplomatica del conflitto, e solo nel 1988 con gli accordi di Ginevra, verrà stabilito il completo ritiro dell’armata rossa sotto la supervisione ONU. L’Afghanistan veniva finalmente affrancato dal ruolo di teatro dell’ultimo gioco di forza della guerra fredda, ma era stato condotto in balia di quella guerra civile di cui nel ’95 i talebani risulteranno essere i vincitori.6
In considerazione di questi eventi e del forte radicamento della tradizione islamica in Tunisia, a livello internazionale si ebbe a temere che il fortissimo contrasto esercitato da Bourghiba verso i movimenti integralisti -restò famoso il gesto simbolico del farsi addirittura riprendere a sorseggiare un’aranciata a mezzogiorno nel mese di Ramadam- avrebbe potuto determinare anche in Tunisia l’esplosione di una rivolta fondamentalista. Per queste ragioni, l’Europa e gli Stati Uniti ritennero di accordare maggiore favore ad un atteggiamento più diplomatico. In questo contesto di “disapprovazione” economica e politica dell’operato di Bourghiba, proprio come accadde in Afghanistan con l’omicidio del Presidente Taraki e il subentro del meno intransigente Amin in orbita CIA, va inserito in Tunisia il subentro di Ben Alì, rispetto al quale autorevoli voci si sono già pronunciate definendolo l’esito di un colpo di intelligence italiano.
Il Governo italiano, preoccupato per l’intransigenza contro i movimenti islamici che poteva sfociare in una guerra civile e determinare il sopravvento dei fondamentalisti in uno spazio geografico ed economico eccessivamente prossimo; preoccupato per le manovre dell’Algeria -chiusa tra Marocco e Libia che col benestare della Francia erano intente a stabilire intese sul Ciad- che preventivava un intervento in Tunisia nel territorio attraversato dal gasdotto (il presidente algerino lo rese noto a Craxi nel novembre del ‘84); dopo aver cercato di coinvolgere la Francia per una comune gestione delle problematicità e averne ottenuto rifiuto; prese a muoversi attraverso i Servizi Segreti per il passaggio di consegne a Ben Alì.
La chiave di lettura di una transizione pilotata dall’Italia trovo piena conferma nel 1999 attraverso le memorie dell’ammiraglio Fulvio Martini, a capo del Sismi dal ’84 al ’91, che nel suo libro scrisse che la stabilizzazione della Tunisia fu una lunga operazione di politica estera in cui i servizi ebbero un ruolo importantissimo.
Ben Alì era il candidato “italiano” alla successione di Bourghiba, atto sulla cui necessità convergevano le potenze internazionali, e infatti l’attività diplomatica tra Italia e Tunisia divenne particolarmente intensa.
A distanza di pochi mesi dall’insediamento di Ben Alì, l’Italia definì per il triennio ‘88/’90 un ammontare di 500 milioni di dollari di aiuti destinati alla Tunisia, soprattutto in considerazione degli sforzi di liberalizzazione in politica economica e di rafforzamento del modello pluralista e democratico disse l’allora sottosegretario agli esteri Raffaelli. Contemporaneamente l’Italia ristrutturava il suo quadro complessivo di cooperazione, riassegnando centralità al Mediterraneo anche in base alla consapevolezza che i differenziali economici e demografici divergenti avrebbero prodotto pressioni migratorie.
Intanto, il 9 novembre del 1989 cadeva il muro di Berlino.
COOPERAZIONE: BILATERALITÁ E PARTENARIATI TRA GUERRE E RIVOLUZIONI
Dalla Tunisia, all’inizio degli anni ’90 partivano circa 500.000 persone l’anno. Il tema dei flussi migratori rappresentò in quegli anni un fattore di divisione in seno alla rinnovata e più stretta alleanza. L’introduzione del regime dei visti venne giudicata inadeguata dalla dirigenza tunisina che avrebbe auspicato ad una convenzione bilaterale con quote annue di immigrazione. Negli anni ’90 si contavano circa 22.000 tunisini regolari in Italia e l’economia delle rimesse in Tunisia era seconda solo a quella del turismo, con un introito annuo pari a 7 miliardi di lire. Nel 2010, venti anni dopo, grazie alla politica dei visti, i Tunisini in Italia sono circa 30.000 su 60 milioni di italiani, con un aumento di sole 8.000 unità.
Altro elemento di frizione fu senza dubbio la guerra del Golfo, che impegnò non poco la Lega Araba in una delicata definizione delle alleanze, e che comunque sollevava imbarazzi impliciti se non problematicità esplicite in relazione al fatto che seppure i paesi arabi del Mediterraneo occidentale spinsero nella direzione di una mediazione del conflitto, ben note erano le loro generali simpatie per Saddam Hussein. Secondo uno sguardo da nord-ovest invece, seppure Saddam Hussein era stato “amico” quando oppose contrasto a Khomeini (cui dichiarò guerra nel 1980 con l’appoggio economico degli Stati Uniti e dei paesi del Golfo), non era più così ben visto giacché ancora nel 1988 non aveva sconfitto l’ayatollah e anzi, accettò prima di questo stesso la risoluzione ONU sul cessate il fuoco. Altra cosa furono poi le rivendicazioni di Saddam verso il Kuwait, e sappiamo com’è andata.
Intanto nel ’93 Craxi fuggiva in Tunisia per le questioni di Mani Pulite.
Dopo la fase di stallo seguita alla guerra del Golfo, nel luglio del 1994 si costituisce il Forum Mediterraneo e si avvia il Dialogo Mediterraneo della Nato, per rilanciare un approccio regionale alle questione dell’area mediterranea. Nel 1995 nasce anche la Banca del Medio Oriente, con l’intento di promuovere investimenti privati e cofinanziamenti per progetti interregionali di sviluppo. Il 27 novembre 1995 a Barcellona viene lanciato il Partenariato euro-mediterraneo (PEM), con l’obiettivo -tra gli altri- di istituire una zona di libero scambio nell’area mediterranea entro il 2010. La dichiarazione di Barcellona introduceva ufficialmente il principio del partenariato tra le due sponde. Nel febbraio 1995, Ben Alì aveva firmato un accordo di associazione con l’Unione Europea, il primo di questo genere tra Bruxelles e un paese mediterraneo. Contemporaneamente, lungo tutto il corso degli anni ’90, mentre già l’Italia era il secondo partner economico della Tunisia, il processo di democratizzazione si spostava in coda alla lista delle attenzioni e degli interessi sia interni che internazionali.
Nel ’98 si palesano nuove tensioni tra i due paesi rispetto ai flussi migratori.
Nell’estate di quell’anno, gli sbarchi clandestini a Lampedusa e Pantelleria si fecero intensi, e per l’Italia che aveva ottenuto da poco la piena ammissione nell’area Schengen (firmata nel 1990 ma entrata effettivamente in vigore solo il 26 ottobre del ’97), questo era un banco di prova determinante, tanto che si prese a contrattare l’elargizione degli aiuti non più tanto in riferimento allo sviluppo economico, né tantomeno al pluralismo politico e al rispetto dei diritti umani, ma in relazione alla gestione dei flussi migratori.
Il 3 agosto di quell’anno si riunì la Commissione mista italo-tunisina e il 7 agosto i due Ministri degli Esteri siglavano il documento finale concernente la riammissione delle persone in posizione irregolare.
Nel 2001 invece, i fatti dell’11 settembre producevano un generale sconvolgimento degli assetti internazionali. L’amministrazione Bush indicò nel governo di Ben Alì, una delle poche certezze del Medio Oriente. Nell’aprile del 2002 la Tunisia subiva il suo primo attentato terroristico alla sinagoga di Djerba, e nel 2003 verrà varata la prima legge anti-terrorismo. Nel 2004 il G8 di Sea Island confezionava il concetto di Grande Medio Oriente (GMO) e indicava una strategia per la promozione della democrazia e dello sviluppo economico, che l’Italia appoggiò con grande convinzione.
La Tunisia fu molto più cauta se non più scettica e infatti Ben Alì, in visita a Washington nel 2004, esaltò in linea generale la dimensione strategica a cui assurgevano i rapporti bilaterali tra Tunisia e Stati Uniti, ma non certo nello specifico i disegni americani di esportazione della democrazia nel mondo; anche perché nella percezione statunitense l’assenza di democrazia di queste aree era da spiegarsi semplicemente con la loro “arretratezza” e risultava quindi in ultima analisi fondata su un pregiudizio. Va poi detto che più in generale, il GMO venne visto dai paesi arabi come strategia di dominazione e schiacciamento.
In quegli stessi anni, gli sviluppi del processo di pace israelo-palestinese producevano nuove divergenze tra Roma e Tunisi. Il governo Berlusconi rivedeva la posizione italiana di equidistanza in favore di un approccio decisamente filo-israeliano allineato alla Casa Bianca. Al contrario la Tunisia, dopo lo scoppio della seconda intifada nel settembre del 2000, rivedeva la sua storica posizione di mediatrice e rompeva tutti i rapporti economici stretti con Israele nel decennio precedente.
Intanto nel 2002 prendeva corpo l’idea di una politica di vicinato (PEV) in considerazione del nuovo vicinato che si prospettava in conseguenza dell’allargamento ad est dell’UE, un discorso successivamente esteso in maniera analoga anche al Medio Oriente e il Mediterraneo. La PEV si differenzia dal processo di Barcellona (PEM) per una molto più perimetrata attenzione alla questione economica e infatti, prese piede l’orientamento bilaterale piuttosto che multilaterale e regionale, innescando la dinamica dell’incentivo ai paesi che più si avvicinavano ai parametri fissati dall’Europa piuttosto che quella del finanziamento per lo sviluppo della macro area.
Nel 2007, la Dichiarazione di Roma a seguito di un summit tra Prodi, Sarkozy e Zapatero, reintegrava nel solco comunitario il progetto dell’Unione Mediterranea che prende il nome ufficiale di Unione per il Mediterraneo (UpM). Nel 2008 intanto, ancora linee di credito per l’aiuto alla bilancia dei pagamenti e contemporaneamente l’assunzione come priorità del contrasto all’emigrazione clandestina. Il 29 gennaio 2009, un nuovo accordo bilaterale tra i due Ministri dell’Interno sancisce l’attribuzione di una somma di 50 milioni di euro alla Tunisia per il rinforzo dei controlli alla frontiera e il finanziamento dei programmi di rimpatrio assistito. Ad aprile 2010 altri 200 milioni di euro per la cooperazione economica e la promozione dello sviluppo locale.7 Il 17 dicembre 2010 la rivoluzione!
La Tunisia arriva alle soglie della Rivoluzione, che esploderà appunto il 17 dicembre 2010, ma a giudicare dalla narrazione italiana ed europea sul paese, nessuno avrebbe mai potuto sospettarlo. Ben Alì era il candidato italiano alla successione di Bourghiba -che più che vecchio e senile come si disse, tra la questione del fondamentalismo e l’alzata di testa contro il FMI in occasione della rivolta del pane dell’‘84, era diventato controproducente e quindi sgradito alle potenze internazionali-, ed è rimasto per tutti i suoi 23 anni di regime, salvo brevi momenti di frizione, l’ottimo referente di un’Italia che evidentemente tra un partenariato commerciale e l’altro, si è sistematicamente fatta sfuggire tutto un insieme di questioni che a partire dal pluralismo per finire col rispetto dei diritti umani, hanno caratterizzato uno spaccato della Tunisia di Ben Alì in cui imperversavano la corruzione, la speculazione, l’abuso di potere, il familismo, la censura, la violenza e la repressione. Certamente non fu una svista soltanto italiana.
Nel 2008 ad esempio, il Presidente Sarkozy in visita a Tunisi per concludere accordi commerciali su forniture aereonautiche e centrali termiche, rilasciò dichiarazioni di elogio a Ben Alì per i progressi in tema di libertà d’espressione, anche se meno di un anno prima aveva ricevuto un appello delle ONG che denunciavano violazioni, a cui rispose dicendo che si sarebbe impegnato a rilanciare il peso del rispetto dei diritti umani nelle dinamiche di cooperazione con la Tunisia. Per ironia della sorte, appena una settimana prima della visita di Sarkozy, degli accordi milionari e degli elogi, una missione della Federazione Internazionale dei Diritti Umani diretta in Tunisia in vista delle elezioni 2009, era stata bloccata perché Il Ministero dell’Interno tunisino la dichiarava per la seconda volta non gradita.8
Nel 2005 invece, Il secondo Summit Mondiale sulla Società dell’Informazione (SMSI) si riuniva proprio in Tunisia come da accordi del ’98. Presenti una cinquantina di Capi di Stato e di Governo, rappresentanti e delegati del settore privato e della società civile con l’intento di connettere tutti i villaggi del mondo ad internet entro il 2015.9 Appuntamento finanziato con circa 500.000 milioni di dollari per infrastrutture e utilità varie, che grazie ad un corposo coro di voci10 vide emergere il paradosso del dover discutere di libertà di informazione e governance globale di internet in un paese in cui propaganda di regime, censura del dissenso e repressione anche violenta degli oppositori, erano state già largamente denunciate a caro prezzo da numerosissimi avvocati, giudici, prigionieri assortiti (politici, giornalisti, difensori dei diritti umani, cittadini).
Nel 2011 il popolo tunisino, con il sangue dei suoi 338 martiri ha deposto il dittatore. I governi europei hanno sorriso alla primavera della democrazia che trionfava come se mai nulla avessero avuto a che fare con quel potere sconfitto nel sangue.
Sui fatti del 1987, il già citato Fulvio Martini disse anche che il colpo di stato per la deposizione di Bourghiba fu un lavoro ben fatto, perché non venne versata una sola goccia di sangue e a cadere fu solo la poltrona di un membro dei servizi il cui governo era orientato ad un diverso candidato alla successione. Interessante. Forse queste due cose considerate insieme possono significare che la rivoluzione dei gelsomini è stata veramente del popolo, e non orchestrata da “occulti” poteri superiori; anche se a sette anni dai fatti è forse ancora presto per leggere simili memorie. Possiamo però leggere i fatti, e da questi comprendere che la narrazione per le masse, oggi, esattamente come in occasione della caduta di Ben Alì, è stata infarcita di democratica retorica su pluralismi e sviluppi, condita con sempre più cospicue linee di credito sul doppio canale del partenariato economico e del contrasto all’immigrazione clandestina, e poco più.
Al contempo, In Tunisia la questione dei diritti umani torna a riemergere con urgenza al fianco delle sempre più forti contestazioni di popolo contro le imposizioni economiche internazionali e contro il governo nazionale che le avalla, mentre in Italia e in Europa la propaganda sulle migrazioni economiche viene fatta sempre più progressivamente coincidere a quella sulla questione identitaria di vecchia impronta nazionalista e nuova manifattura fascista.
Quindi in sintesi e per concludere, sembrerebbe in realtà che ad una lettura meno romanzata, lo sviluppo di alcuni paesi -forse più di quanti siamo in grado di pensare- non possa avvenire se non nel solco di un percorso già tracciato, di un programma che persegue il profitto economico a discapito del benessere complessivo e della dignità dei popoli, che non ha a cuore nessun diritto umano se non quello di pochissimi al totale eccesso.
Discutiamo in Italia dello sviluppo della democrazia in Tunisia o altrove, o dello sviluppo economico dei terzi e del supporto che a questo siamo in grado di fornire, fingendo di poter ancora considerare il sistema socio-economico dominante che esportiamo come funzionale allo “sviluppo”. In Italia le ricette del FMI hanno forse sortito effetti diversi da quelli sortiti in Tunisia? Liberalizzazioni e privatizzazioni hanno prodotto benefici reali per i cittadini? Il libero mercato del lavoro precario e sottopagato ha determinato lo sviluppo delle persone? L’indebitamento vertiginoso e l’austerity necessaria a ripagarlo ha prodotto benessere della società? E il pluralismo che si risolve nella larghissima intesa di una classe politica coesa nel mantenimento della comune posizione privilegio è davvero democratico? Quelle del 4 marzo 2018 saranno le 7° elezioni politiche italiane dopo Mani Pulite, e abbiamo avuto 15 governi in 6 legislature. Insomma più di un governo su due non è stato democraticamente eletto, ma ha comunque progressivamente e indipendentemente dal colore politico, eseguito direttive economiche internazionali che hanno ridotto diritti e potere d’acquisto.
Sull’opposizione dei popoli a tutto questo, alla politica economica del G8 e quindi della Banca Mondiale e del FMI, in riferimento all’Italia possiamo dire che già nel 2001 costò agli oppositori dai vari luoghi del mondo i fatti di Genova, anche se nessuno direbbe mai che siamo sotto dittatura.
1http://www.infomercatiesteri.it/paese.php?id_paesi=115#slider-4
2https://incontromeditaly.wordpress.com/2011/09/16/1710/
3http://www.italietunisie.eu/images/po_2014-2020_it%20tu%20sintesi%20in%20italiano%20v2.pdf
4http://www.storiemigranti.org/spip.php?article1102
5https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/1201-michel-chossudovsky-la-tun=
6http://www.instoria.it/home/invasione_sovietica_afghanistan.htm
7La breve ricostruzione presentata nelle ultime due pagine è prevalentemente impostata sulla base del capitolo relativo ai rapporti tra l’Italia e la Tunisia contenuto nel testo di M. Pizzaglio “Il ponte sul Mediterraneo. Le relazioni tra l’Italia e i paesi arabi, 2010”.
https://books.google.it/books?id=ynRXnamTMWUC&pg=PA265&lpg=PA265&dq=ben+ali+rapporti+con+washington&source=bl&ots=3xSc5fJQ6x&sig=EfKQJ3m94VwnJCMSRcpZ6Fbvlbk&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjegPHfjIXZAhURKywKHZt4DUwQ6AEIMDAB#v=onepage&q=ben%20ali%20rapporti%20con%20washington&f=false
8http://www.nigrizia.it/notizia/tunisia-per-sarkozy-modello-per-i-diritti-umani
9http://www.radioradicale.it/tunisi-16-novembre-05-sommet-mondial-sur-la-societe-de-linformation
10https://www.peacelink.it/mediawatch/a/12056.html
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