Patrizia Mancini
Un sentimento di frustrazione e di incompiutezza attraversa costantemente lo spirito di chi si occupa delle vicende tunisine dal 2011. Di chi ha scritto, però, partecipando molto spesso in diretta , agli avvenimenti o cercando di riportare, il più fedelmente possibile, le opinioni e il pensiero degli autentici protagonisti di tante vicende e di tante lotte.Sentimento che va accentuandosi quando si vanno a leggere i sempre più rari articoli della stampa italiana su questo piccolo paese, sentendosi sulle spalle un compito che sarebbe degno di una piuma ben più valida di quella di una semplice “journaliste citoyenne”.
Eppure ripartiamo da qui, dall’archiviazione del caso tunisino come quello di una splendida success story all’interno di un modo arabo devastato da dittature e guerre civili.
Come rileva Ricard Gonzales nel suo articolo per El País , vi è una frattura profonda fra la percezione che leaders europei come Macron o Rajoy hanno della Tunisia e quella che ne hanno i suoi abitanti:
“l’80% dei tunisini, secondo i sondaggi, pensa che il paese vada nella direzione sbagliata”.
Cerchiamo di capire perché, estrapolando solo un paio delle possibili cause di questa disaffezione.
Ripresa delle migrazioni e situazione economica
Ribadiamo innanzitutto una banalità: alle élites politiche europee importa poco che si sviluppi una vera democrazia nei paesi del Maghreb e più in generale nel modo arabo. Il tipo di regime che vi si instaura è del tutto indifferente, è sufficiente che collabori a livello economico per creare condizioni favorevoli alla penetrazione dei mercati da parte degli investitori e segua i dictat delle istituzioni economiche internazionali, senza tenere conto delle problematiche specifiche a ciascun paese. All’Europa e all’Italia in particolare interessa anche fermare i flussi migratori a qualunque costo ,vedi i tragici accordi con la Libia e le compiacenti attività di alcune ONG italiane nella gestione dei campi profughi in questo paese.
Emblematici a questo proposito, tornando a focalizzarci sulla Tunisia, sono i prossimi incontri tra rappresentanti dell’Unione Europea e delle istituzioni tunisine. Il primo, iniziato in realtà il 17 aprile scorso, verte sul reinserimento (forzato, nella maggior parte dei casi) in patria dei tunisini espulsi dall’Europa, mentre si cerca di attuare una politica facilitatoria dei visti d’entrata solo per una immigrazione “di qualità”. Come osservano Marco Jonville e Valentin Bonnefoy in una recentissima analisi sul sito del Forum Tunisien pour les droits économiques et sociaux,:
“Nel quadro del libero scambio, l’Unione Europea organizza l’importazione di cervelli…Da un lato, essa facilita l’immigrazione per una élite tunisina che va a costituire un arricchimento in termini di “materia grigia”, servendo in questo modo gli interessi economici europei. Dall’altro, si osserva una caduta verticale (25%) del numero di laureati tunisini impiegati nel pubblico e nel privato fra il 2010 e il 2016”.
Mentre si restringono sempre di più le possibilità di una immigrazione legale per tutti gli altri… vittime ancora una volta di una non reciprocità nelle politiche dei visti: TUTTI i cittadini europei hanno diritto a un visto di tre mesi per entrare in Tunisia, ma ciò non è previsto per i tunisini che sono obbligati a rimettersi alla (buona?) volontà dei vari consolati. Nell’80% di quei tunisini e di quelle tunisine che hanno una visione negativa della direzione intrapresa dai governanti del loro paese, sicuramente è compresa quella fetta che ha ripreso recentemente la via del mare per sfuggire a condizioni di vita sempre più difficili, se non impossibili.
Il secondo incontro/trattativa previsto in Tunisia fra UE e rappresentanti tunisini inizierà il 23 aprile e verterà sulle condizioni del commercio fra UE e Tunisia avendo come fine la firma dell’ALECA (Accord de Libre-Echange Complet et Approfondi). Ciò avviene sotto la spada di Damocle di un prestito di 2,9 miliardi concesso dal Fondo Monetario Internazionale, da restituire in quattro anni e di una conseguente legge finanziaria 2018 che, secondo le parole dell’economista Clara Capelli:
“sebbene…si proponga di contenere i conti pubblici, …andrà a gravare in particolare sulle fasce economicamente più deboli della popolazione tunisina e sul ceto medio, proprio quei soggetti che hanno maggiormente risentito di un’altra impopolare misura, la svalutazione di fatto del dinaro tunisino. La valuta nazionale ha perso circa il 10 percento del proprio valore rispetto all’euro tra il 2015 e il 2016 e oltre il 20 percento tra il 2016 e il 2017, cosa che avrebbe dovuto dare una spinta alle esportazioni, ma che in un Paese con il profilo esportativo descritto ed estremamente dipendente dalle importazioni (corrispondenti a quasi metà del PIL, di cui 9 percento di importazioni alimentari e 20 percento di macchinari per la produzione) ha invece ulteriormente depresso il potere d’acquisto di tunisini, alimentato la frustrazione sociale.”
Se la Tunisia dovesse esitare nel firmare i termini proposti dall’Aleca, si troverebbe di fronte ad una vera e propria offensiva da parte dell’Europa che, per contrastare altri paesi concorrenti in questa zona, come la Cina e la Turchia e con i quali la Tunisia ha aumentato i propri rapporti commerciali, potrebbe utilizzare il ricatto del non rifinanziamento del budget tunisino, come temono Jonville e Bonnefoy nella loro articolata analisi. Un’altra parte di quell’80% di popolazione scontenta (per usare un eufemismo) della situazione economica e sociale è quella che ciclicamente, e anche un po’ disperatamente, scende in piazza a protestare, senza tuttavia aver trovato finora una seria rappresentazione politica dei propri bisogni e un soggetto politico in grado di proporre alternative concrete.
Scacco alla giustizia di transizione?
Sarà una corsa contro il tempo quella che l’Instance Verité et Dignité (IVD, l’istituzione costituzionale incaricata della giustizia di transizione) dovrà intraprendere per depositare i dossier più importanti e significativi alle camere specializzate entro la fine di maggio. Il Parlamento tunisino, infatti, con un voto ritenuto da molti giuristi illegale (anche per l’assenza di quorum) ha stabilito di non prolungare di sette mesi l’attività di questa fondamentale istituzione che ha raccolto 64.000 dossiers riguardanti crimini di corruzione e contro i diritti umani, commessi in un periodo che va dal 1955 al 2013. Anche secondo Sihem ben Sedrine, presidentessa eletta dell’IVD, secondo l’articolo 18 della legge che regola le attività di questa istituzione, è prerogativa dell’IVD la decisione di prolungare le proprie attività, senza dover passare per un voto parlamentare, ma semplicemente informandone l’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo (così si chiama il Parlamento tunisino).
Ora ci si trova in una pericolosissima incertezza riguardo quello che potrà succedere fra un mese, allo scadere del termine naturale delle funzioni dell’IVD, anche in mancanza di una Corte Costituzionale che possa tranciare su questa controversia.
Del resto, sin dall’inizio della sua attività l’IVD è stata fortemente boicottata dalla Presidenza della Repubblica e dal partito di governo Nidaa Tounes, come constatava lo scrittore Santiago Alba Rico già nel 2016 sul nostro sito. A tale boicottaggio si è andata aggiungendo in questi anni la mancanza di collaborazione da parte di alcuni Ministeri chiave, come quello degli Interni e quello del Demanio Statale, senza dimenticare la promulgazione della legge per la “riconciliazione” amministrativa”.A degno coronamento di queste intense attività ostruzionistiche contro la giustizia di transizione è arrivata la vergognosa seduta parlamentare del 27 marzo scorso in cui deputati di Nidaa Tounes esultavano in maniera sgangherata contro la “nemica” Ben Sedrine.
In questi giorni è stato pubblicato un appello di alcune associazioni e organizzazioni anche internazionali in difesa del percorso della giustizia di transizione, ritenuto essenziale non solo per voltare definitivamente la pagina della dittatura, ma anche per creare il nucleo essenziale della memoria di un paese, quel nucleo prezioso nato dalle testimonianze delle vittime.
Non so se quest’appello verrà ascoltato, così come altre voci in difesa di questo percorso, nel momento in cui i personaggi dell’ancien régime appaiono sempre più consolidati nelle loro funzioni di potere. So di certo che anche questa delicata fase costituisce motivo di preoccupazione e scontento per tunisini e tunisine, ma non scalfisce minimamente la vulgata europea della success story tunisina.
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