Tunisia, verso la cancellazione degli anni bui della dittatura

Jamel Baraket e sua madre Khira testimoniano sull'rapimento e  Crédit photo IVD Media Center

19 novembre 2016: Jamel Baraket e sua madre Khira testimoniano sulla tortura e l’uccisione del militante islamista Nabil Baraket avvenuta nell’ottobre 1991 Crédit photo IVD Media Center

Thierry Brésillon

Il 26 marzo 2018 l’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo (ARP, il Parlamento tunisino) ha rifiutato di accordare i sette mesi supplementari che l’Instance vérité et dignité (IVD) aveva deciso di concedersi. Il mandato di questa commissione, insediatasi nel giugno 2014 per mettere in opera la giustizia di transizione e affrontare l’eredità di cinquanta anni di dittatura(1)deve concludersi il 31 maggio. Lo scorso febbraio essa ha deciso, come autorizzato dalla legge, di prolungare il proprio mandato fino al 31 dicembre.Questa decisione avrebbe dovuto essere sottomessa all’approvazione del parlamento? Il testo della legge lasciava adito a dei dubbi, ma la direzione del Parlamento si è arrogata il diritto di tagliar corto e ha posto la questione all’ordine del giorno nella seduta del 24 marzo, una delle più burrascose mai viste nell’emiciclo tunisino. A seguito di una seconda seduta, si è votato in una situazione di completa confusione giuridica. Alcuni deputati hanno denunciato “ un colpo di Stato contro la giustizia di transizione”. In questo modo si sarà sancita la fine dell’IVD, nella stessa atmosfera che ha sempre circondato il suo lavoro: grande emotività, polemica e un sapore d’incompiutezza.

E’ fallito il modello tunisino di giustizia di transizione? In realtà, sin dall’origine l’IDV ha risentito del fatto di essere arrivata fuoritempo. Concepita nell’atmosfera “rivoluzionaria” dei primi anni successivi alla caduta del vecchio regime, essa si è messa al lavoro a giugno 2014, quando la configurazione politica era già cambiata con l’ascesa di Nidaa Tounes (e del suo leader, Béji Caïd Essebsi). Non soltanto questo partito rivendica l’eredità di Bourghiba, ma conta nei suoi ranghi numerosi quadri che hanno avuto responsabilità in seno al Rassemblement constitutionnel démocratique (RCD – il vecchio partito al potere, sciolto nel 2011 – o nelle sue organizzazioni. Del resto, Mohamed Ghariani, l’ultimo segretario generale dell’RCD, ci confidava nell’ ottobre 2013, mentre era all’opera dietro le quinte per costituire Nidaa Tounes : “Perchè lanciarsi ora nella giustizia di transizione se stiamo negoziando?”. Dal mese di agosto 2013, in effetti, Nidaa Tounes e il partito islamista Ennahda cercavano una soluzione alla crisi scoppiata il 25 luglio con l’assassinio del deputato arabo-nazionalista Mohamed Brahmi e il blocco dell’Assemblea Costituente. La gestione del passato faceva necessariamente parte dell’accordo. Una transizione, in effetti, non è un fatto meccanico, un assemblaggio di dispositivi istituzionali realizzati da gente di buona volontà. Essa viene totalmente attraversata dai rapporti di forza e la giustizia di transizione non fa eccezione. E’ così che l’IVD si è andata posizionando in questo ambiente intessuto di strategie politiche.

UN « PATTO DELL’OBLIO “ ALLA SPAGNOLA?

Gli organismi securitari non hanno mai visto nell’IVD un mezzo per riabilitarsi agli occhi del grande pubblico, tanto più che gli attentati del 2015 hanno riattivato il loro paradigma: diritti umani e sicurezza sono incompatibili. Al contrario, essi vi hanno sempre intravisto una minaccia. E’ stato vano aspettarsi da parte loro l’espressione di un pentimento. I quadri del vecchio regime in cerca di un futuro politico hanno sempre appoggiato un modello alla spagnola, un reciproco “patto dell’oblio (2), “una riconciliazione” senza verità né giustizia che sarebbe il prezzo da pagare (3) perché il percorso democratico possa svolgersi. Un modello opposto a quello di una riconciliazione che si produca dalla verifica del passato, secondo i pilastri, ormai ammessi, a livello mondiale, della giustizia di transizione e adottati per definire il mandato dell’IVD : accertamento della verità, resa dei conti davanti alla giustizia, riparazione dei torti, riforme che garantiscano la non ripetizione.

Appena eletto alla presidenza della Repubblica, nel dicembre 2014, Béji Caïd Essebsi d’altronde aveva affidato a Fethi Abdennadher, consigliere costituzionale del presidente deposto Zine El-Abidine Ben Ali, il compito di proporre una riforma della legge sulla giustizia di transizione. A suo avviso, come scriveva nella relazione sottoposta al capo dello Stato nel luglio 2015, una tale giustizia “porterà immancabilmente alla divisione della società tunisina che durerà per parecchi decenni, perché la battaglia per la costruzione si trasformerà in una battaglia per sopravvivere che susciterà rancori che, a loro volta, dureranno per generazioni”. Le sue proposte, contrastate da una resistenza coriacea, in particolare, della società civile, hanno finito per produrre solo una legge per la riconciliazione amministrativa votata nell’ottobre 2017 che concede l’amnistia ai funzionari che hanno deviato dalle procedure, senza trarne vantaggi personali, almeno in apparenza. Ma l’idea che far luce sul passato alimenterebbe il conflitto e lo spirito di vendetta ha sempre dettato la linea di condotta della presidenza e di chi la sostiene.

LE ESITAZIONI DELLA SINISTRA

Una parte della sinistra, sebbene vittima della repressione, non si è mai sentita a suo agio con l’IVD perchè, a loro dire, sarebbe stata influenzata dalla maggioranza che sin dalle origini era di Ennahda che aveva presieduto alla sua formazione. L’instance avrebbe così favorito gli islamisti nella distribuzione dei mezzi, sia quelle materiali sotto forma di riparazioni, sia quelle simbolici, atti alla costruzione di una memoria storica nella quale i loro avversari islamisti si sarebbero nel rango di vittime e non più in quello di minaccia per lo Stato e per il progetto modernista. Così alcuni miltanti di sinistra si sono rifiutati di presentare i loro dossier, convinti che la militanza non si potesse pagare un tanto al chilo e restii ad essere in debito con una istanza politicamente sbilanciata. Però, in extremis, l’ultimo giorno valido per depositare i dossier (il 15 giugno 2016), il sindacato e alcuni militanti dell’estrema sinistra, attivi negli anni ’70, hanno affidato i loro dossier all’IVD.

Alla fine anche per la direzione di Ennahda la giustizia di transizione è un’arma a doppio taglio. Certamente essa incanala la sofferenza accumulata dai suoi militanti di base durante due decenni di annientamento, permette loro di mantenere la pressione sui torturatori. Ma la dirigenza del partito teme che l’accertamento della verità sulla repressione e la conseguente parte giudiziaria fragilizzi il patto d’integrazione stabilito con Nidaa Tounes e alcuni alti quadri del vecchio apparato securitario, tuttora in grado di nuocere, con i quali intrattiene con discrezione dei contatti. Si preoccupa anche del peso che potrebbe rappresentare una indennizzo individuale alle vittime della repressione di cui il partito pagherebbe il prezzo politico, mentre si trova già sotto attacco per il costo della reintegrazione nella funzione pubblica dei suoi aderenti, beneficiari dell’amnistia generale decisa a febbraio 2011.

UNA CORSA CONTRO IL TEMPO

Questo insieme di pressioni politiche non poteva che intralciare la realizzazione degli obiettivi teorici della giustizia di transizione, anche se l’IVD era dotata di poteri che le permettevano di obbligare le altre istituzioni a cooperare. In quattro anni l’IVD non è riuscita ad accumulare abbastanza forza per imporsi. Al contrario, le contraddizioni esterne hanno contaminato il suo funzionamento, mentre una parte delle energie sono state assorbite dalla gestione di un conflitto interno quasi permanente. Nel corso del suo mandato, su 15 commissari , quattro hanno dato le dimissioni e altri tre sono stati revocati. La presidenza del Parlamento non hai dato seguito alle sollecitazioni dell’IVD per rimpiazzare i commissari mancanti (eccetto per il primo dimissionario). La personalità affatto ecumenica della presidente Sihem Ben Sedrine e la sua gestione interna potrebbero spiegare le dimissioni, ma gli oppositori dell’IVD hanno approfittato immediatamente delle falle che si erano aperte, aprendo il fuoco con una serie di attacchi personali per indebolire questa istituzione.

Qualunque siano gli errori dell’IVD e della sua presidentessa, non arrivano a spiegare l’assenza di volontà politica nel sostenere il percorso della giustizia di transizione come una delle componenti dell’azione dello Stato. Per stabilire la verità sui crimini della dittatura, l’IVD dispone dei dati raccolti nel corso di circa 50.000 audizioni private (su 62.000 dossier ricevuti). Tunisini e tunisine hanno potuto ascoltare i racconti più rivelatori nel corso di una dozzina di audizioni pubbliche alle quali la presenza ufficiale è stata più che discreta.

Ma il lavoro d’investigazione dell’IVD è stato ostacolato dal rifiuto costante del ministero degli Interni ad autorizzare l’accesso ai propri archivi. E anche dal fatto che un terzo degli archivi della presidenza della Repubblica non sono più accessibili da quando sono stati trasferiti agli archivi nazionali.

L’Instance è stata dotata di una competenza inedita nel campo della giustizia di transizione: i crimini economici e finanziari che essa può trattare per mezzo di un meccanismo di arbitraggio. “Dei 24.000 dossier d’arbitraggio consegnatici dai beneficiari disposti a restituire il denaro al Tesoro, noi ne abbiamo presentati 685 al contenzioso dello Stato. Bene, quest’ultimo ha dato seguito solo a quattro di essi”, si lamenta Sihem Ben Sedrine.

Il fondo El-Karama creato per decreto lo scorso febbraio non verrà dotato che una sola volta di 10 milioni di dinari (3,3 milioni di euro),somma ben inferiore a quanto richiederebbe il piano di riparazione globale elaborato dall’IVD, a dimostrazione del debole coinvolgimento dello Stato nel riconoscere la propria responsabilità. Il resto dovrebbe provenire dai risultati degli arbitraggi (peraltro bloccati) e da ipotetici finanziamenti esterni.

Infine, le camere specializzate sono state create solo a marzo 2018. L’IVD è impegnata in una corsa contro il tempo per consegnare il massimo di dossier a queste camere. Ad oggi tre dossier che riguardano in totale 47 responsabili del vecchio regime sono stati trasmessi alle camere di Gabès e di Nabeul. La prospettiva di vedere dei responsabili securitari e politici messi a processo è proprio quella che gli appelli alla “riconciliazione” cercano di sventare, sin dall’inizio del percorso. «Proprio perché stiamo cominciando a trasmettere i dossier ai tribunali hanno voluto abbreviare il nostro mandato”, ha affermato Sihem Ben Sedrine.“ Però con una decina di casi che ci permettano di risalire sufficientemente in alto nella catena delle responsabilità possiamo riuscire a chiamare in causa il cuore dell’apparato repressivo tunisino”. Ultima battaglia dell’IVD controcorrente rispetto al compromesso fra i partiti dominanti: due processi che sono già stati programmati (29 maggio e 29 giugno) e nei quali alcuni ministri del vecchio regime sono chiamati a presentarsi.

IL TEMPO LUNGO DEI RICORDI TRAUMATICI

All’IVD rimane il compito di finalizzare una relazione che debba sintetizzare i dati raccolti durante l’esame del dossier delle vittime, preconizzare una serie di riforme e proporre i criteri di selezione dei quadri amministrativi dopo una verifica degli antecedenti (il vetting) A rigor di legge il governo ha tempo un anno per mettere in pratica queste raccomandazioni, sotto il controllo di una commissione parlamentare. Ma a che serviranno questi obblighi senza volontà politica? Nel momento in cui si richiamano i vecchi quadri si mette in pratica il vetting? E la giustizia sarà abbastanza indipendente per portare a compimento le procedure lanciate dall’IVD? « E’ prevedibile che le stesse pressioni che stiamo subendo noi verranno trasferite sulla giustizia” pensa Sihem Ben Sedrine.Che ne sarà di tutte le informazioni, delle migliaia di ore di testimonianze, della documentazione raccolta nel corso di questi quattro anni di lavoro? Non è stato messo in funzione alcun progetto per la creazione di una “istituzione per la conservazione della memoria nazionale”, come era stato evocato nella legge. In mancanza di ciò, compete agli archivi nazionali la trasmissione di questa materia. Ma né il loro mandato, né le regole di apertura al pubblico (non prima di trent’anni) che vengono applicate, né la pesantezza burocratica che caratterizza la loro gestione si prestano ad una valorizzazione di questa memoria vivente. Non sarà dagli angoli nascosti degli scaffali di questa istituzione che potrà essere rielaborata una rilettura della storia tunisina più aperta ai vinti, agli esclusi del vecchio ordine politico. La memoria storica prodotta dall’IVD viene fuori da un dispositivo troppo estraneo allo Stato per divenirne la nuova dottrina, troppo legato al tempo breve dei rapporti di forza politici per essere autorevole di fronte agli storici, e infine troppo istituzionale per arrivare al grande pubblico.

Attualmente sono in corso trattative serie fra Ennahda e Nidaa Tounes che potrebbero sfociare nella creazione di una nuova istanza destinata a prendere la staffetta dell’IVD. Tuttavia anch’essa dipenderà, come l’attuale IVD, dalla volontà dello Stato di cooperare e dall’equilibrio delle forze politiche di cui le elezioni municipali, previste per il 6 maggio, daranno una rappresentazione attualizzata. Ma il significato del voto del 26 marzo indica una cancellazione delle norme a profitto delle necessità politiche, come avvenne con i ritardi nell’adozione della Costituzione nel 2014. Il costituzionalismo si rivela ancora una volta nella storia tunisina uno strumento debole di fronte alla capacità di riprodursi dei poteri consolidati.

Con la fine accelerata della IVD si conferma la tendenza al riflusso dello slancio di rottura con l’ l’ancien régime. Al di là dei simboli, come la reinstallazione della statua di Bourghiba al centro di Tunisi, la tentazione bonapartista che attraversa il campo politico, il ritorno di figure del passato, il discredito del momento rivoluzionario dominano oggi lo spazio pubblico. La giustizia di transizione avrebbe dovuto essere il motore della dinamica della rigenerazione per contrastare questa forza d’inerzia del vecchio ordine, che invece appare attualmente essere la più forte. Nel lungo periodo che effetto potrà produrre nel contratto sociale il sentimento delle decine di migliaia di vittime e dei loro discendenti di essere stati sacrificati sull’altare del compromesso politico?

Tuttavia, l’esperienza ci insegna che il passato continua a risorgere e che i ricordi traumatici alimentano un bisogno duraturo di giustizia e di trasformazione che la politica e i rapporti di forza non possono mai completamente imprigionare. Ormai spetterà alle associazioni delle vittime, a chi conserva la memoria, agli storici, agli artisti appropriarsi di questa memoria vivente della violenza dello Stato e assicurare l’avvenire di questo passato.

1Il suo mandato ricopre il periodo che va dal 1 luglio 1955, inizio dell’autonomia interna della Tunisia, fino al dicembre 2013, data in cui è stata votata la legge.

2Danielle Rozenberg, « Le ‟pacte d’oubli” de la transition démocratique en Espagne. Retours sur un choix politique controversé », Politix, vol. 74, no. 2, 2006. — p. 173-188.

3Sandrine Lefranc, Politiques du pardon, Presses universitaires de France, 2002.

L’articolo originale è apparso il 30 aprile sul sito Orient XXI

Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini