Akram Belkaïd
E’ una Tunisia rurale, povera e desolata di cui a malapena si è parlato. Lontana dalle città costiere e dai borghesi, estremamente fieri della loro condizione di cittadini, lontana diverse ore dalle spiagge del Mediterraneo e dai suoi alberghi all-inclusive per turisti europei pressappoco senza un soldo: un altro paese. Quello dell’interno, quello degli oliveti e dei grandi spazi, per non citare le ribellioni tribali contro i beys ottomani o le incursioni guerriere nell’Algeria vicina, all’epoca in cui essa veniva annessa dalla Francia. Questa terra di lotte feroci durante la seconda guerra mondiale è stata al centro dell’attualità tra dicembre 2010 e gennaio 2011 durante la rivoluzione tunisina, una ribellione popolare, una repressione cieca fatta di cecchini appostati a sparare veri proiettili, di “martiri” - qui li chiamano così - che vengono seppelliti, prima di ricominciare a gridare ancora la propria rabbia. Una sequenza di lutti e violenze ripetutasi più volte. Il 14 gennaio 2011 il presidente Ben Ali scappa. Etthawra (la rivoluzione), scoppiata ai margini, ha sconfitto il potere centrale. Sette anni dopo, cosa rimane? Il documentario realizzato da Olfa Lamloum e dall’antropologo visuale Michel Tabet e girato dal direttore della fotografia Talal Khoury dà la parola agli abitanti della regione di Kasserine. Il risultato è un’immersione intimista nella delusione e nel perdurare della collera popolare.
Giovani ancora disoccupati
Da poche sequenze si può trarre una constatazione, la realtà è spietata: poche cose sono cambiate nella regione di Kasserine dopo la caduta del dittatore. Miseria e sotto sviluppo sono endemici . Manca l’acqua nelle case, non ci sono soldi per scavare dei pozzi , i pochi dinari delle pensioni o dei salari non sono sufficienti. I genitori ritirano i propri figli dalle scuole o dalle università per farli lavorare la terra insieme a loro o per raccogliere le piante dell’alfa. Simbolo della durezza delle condizioni di vita, questa pianta perenne scortica le mani di colui che la strappa dal suolo giacché, come racconta un artigiano, “ ognuna delle sue spine deve succhiare un po’ di sangue”. Talvolta gli uomini, esausti, scappano, abbandonando il lavoro e la famiglia. A quel punto spetta alla donna provvedere ai bisogno dei propri cari. E’ lei che raccoglie l’alfa , taglia la legna… Hassan Hajji, abitante della regione e poeta, ne ha tratto dei versi recitati in una lingua araba cristallina :
“ la povertà ha imperversato e non ha più lasciato la sua presa, come il salice, essa ha affondato le sue radici, si è radicata e propagata sulla nostra terra. Essa si è persino estesa durante la siccità. Se Dio non si fosse preso cura di noi, ci avrebbero sepolto senza sudario, mentre i padroni avrebbero atteso il momento buono per sguinzagliare i loro cani per tutta la città.”
La gioventù, laureata o meno, è ancora senza lavoro. O sei raccomandato oppure non hai alcuna possibilità: per sopravvivere in questa regione di frontiera diseredata molti non hanno altra scelta se non quella di fare del contrabbando. Ferro, benzina, gasolio, prodotti di prima necessità, medicinali in provenienza dall’Algeria dove costano di meno. Un mestiere pericoloso, come spiega un direttore scolastico che precisa che i contrabbandieri sono soltanto manovalanza al servizio di grandi reti che lasciano loro solo qualche briciola. Ma al Khobza (la pagnotta) li costringe a guadagnare a ogni costo questi dinari correndo il pericolo di venire arrestati dalla polizia.
“ A Kasserine il poveraccio fa quello che può” confessa un contrabbandiere dal viso segnato “Anche se si sforza di uscirne, lo gettano in prigione. E cosa fa quando esce? Odia il paese e la polizia, scappa in montagna, dice a se stesso che, morto per morto, tanto vale darsi alla macchia. Ai problemi di sempre si è aggiunto quello del terrorismo .”
Alcuni gruppi armati che a volte si rivendicano dell’Isis, si sono stabiliti sui massicci circostanti e la guerra che l’esercito tunisino combatte contro di loro, con l’appoggio del suo omologo algerino, sconvolge gli equilibri già precari della regione.“La povertà ha separato amici e compagni. Ha seminato in noi l’odio, invece dell’amore e ha trasformato le nostre montagne in un santuario del terrorismo.” prosegue il poeta. “La rivoluzione sta diventando un incubo, dice, dal canto suo, una donna. Parla di “sogni svaniti” e parla di una popolazione “ancora a lutto” perché i “martiri” non hanno avuto giustizia. Una scena impressionante la mostra mentre lava la tomba di una vittima uccisa da un cecchino. Spiega che “ annaffiare le tombe è come dare a bere ai morti”. Un gesto simbolico, in mancanza di un giudizio del tribunale contro gli autori e i mandanti dei massacri. A Kasserine, come a Thala, Majel Ben Abbes o Ayoun è lo stesso sentimento d’abbandono e di ingiustizia che prevale. Niente o pochissimo è stato fatto dopo la caduta di Ben Ali.
“ Il mio paese mi rende triste per quanto è calpestato” canta così Seif Dziri, un rapper locale. “Il povero, lascialo morire mentre respira: è uno di Kasserine. Il disoccupato, esaltalo, poi gettalo in prigione. L’idiota occupa un ufficio, raglia come un asino. Quanto al governatore…”
Questo rancore arriva da lontano. “ Qui la rabbia non è recente” recita un graffito notato dalla giornalista Laura-Mai Gaveriaux durante il suo passaggio a Kasserine alla fine del 2015 . Bisogna dire che la regione vive ancora con i ricordi della mano di ferro usata prima dai Beys ottomani, poi dalle autorità coloniali francesi. E i suoi abitanti pensano ancora di essere vittime della diffidenza degli attuali dirigenti a Tunisi, qualunque sia il loro colore politico.
“Consiglio al potere di aprire un libro”, dice ancora il poeta. “Noi (abitanti della regione) esistiamo nella letteratura e gli storici hanno scritto delle nostre terre, delle nostre steppe e hanno scritto di Ali Ben Ghedhahem che vi ha soggiornato”.
Una ribellione contro i beys… Ali Ben Ghedhahem…Qui il nome di questo capo tribale e rivoluzionario (1814-1867) che prese le armi contro il belicato è citato spesso. I racconti esaltano il suo coraggio, le storie si riferiscono alla sua intelligenza e da una generazione all’altra si tramandano poesie che narrano del suo carisma. L’uomo fu una delle figure emblematiche della grande rivolta del 1864, provocata della decisione di Sadok Bey ( nato nel 1813, regnò sulla Tunisia dal 1859 fino alla sua morte nel 1882) e dal suo ministro Mustapha Khanzadar di raddoppiare la “mejba, la tassa dovuta dalle tribù allo Stato centrale. Imprigionato alla Goulette, torturato e poi avvelenato, Ali Ben Ghedhahem è il simbolo di una lotta portata avanti contro ogni tipo di autorità centrale, fosse quella dei beys, quella del potere coloniale francese o di qualsiasi altro potere centrale della Tunisia indipendente. “ Habib Bourguiba, Zine El abedine Ben Ali hanno vietato al loro popolo di dire che Ali Ben Ghedhahem fu un capo rivoluzionario.” spiega uno dei personaggi del documentario. Alcune immagini mostrano quello che rimane della casa del loro eroe popolare : qualche pietra e muretti ricoperti d’ erbaccia. Gli abitanti denunciano questo volontario oblio. Ancora più grande sarebbe la loro amarezza se venissero a conoscenza della tesi che circola con molta insistenza, attualmente a Tunisi . In un contesto di riscoperta dello “ slancio riformatore e modernizzatore” di Sadok Bey e Mustapha Khaznadar, simbolizzato tra l’altro dall’adozione di una Costituzione ( e dall’aumento delle tasse), numerosi intellettuali tunisois (con questo termine si indicano persone che sono originarie della capitale. n.d.t.) pretenderebbero che sia stata la rivolta di Ali Ben Ghedhahem che, indebolendo lo Stato tunisino dell’epoca, avrebbe aperto la strada al protettorato e al colonialismo francese.
L’articolo è apparso nell’inserto bimestrale di “Le Monde Diplomatique”, Maniere de Voir, luglio-agosto 2018
Traduzione e adattamento dal francese a cura di Hamadi Zribi
Follow Us