Uscire dall’ALECA e dal sistema alimentare mondiale per una nuova sovranità alimentare

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Fotogramma dal documentario “Couscous – i semi della dignità” realizzato da Habib Ayeb

Habib Ayeb

Un/a tunisino/a su due attualmente si nutre con prodotti che vengono dall’estero. La nostra dipendenza alimentare oltrepassa già il 55% del nostro fabbisogno. Eppure una tale situazione non è dovuta a una fatalità. Contrariamente a quanto afferma la grande maggioranza degli esperti e di chi prende le decisioni, contro ogni evidenza, la Tunisia dispone di sufficienti risorse naturali (acque, terre…) e umane (un savoir faire contadino estremamente ricco) per nutrire la totalità della sua popolazione attuale e probabilmente anche di più.

Sono decenni che la Tunisia sprofonda, di anno in anno, in una dipendenza alimentare sempre più opprimente. Dopo il 2011 eravamo numerosi ad augurarci un cambiamento di rotta e a sperare in una totale rottura con le politiche che erano state attuate dopo l’indipendenza. Ahimè, tutti i governi che si sono succeduti hanno ciecamente proseguito le politiche dei loro predecessori, in una fuga in avanti verso l’incognito e contro gli interessi vitali del paese.

Una tale schiacciante dipendenza rischia di diventare ancora più grave nel caso in cui si arrivasse alla firma dell’ ALECA (Accordo di libero scambio completo e approfondito) da parte dei responsabili politici nazionali. Il nostro mercato agricolo e alimentare si aprirebbe totalmente ai produttori e distributori europei, mentre l’accesso dei nostri prodotti agricoli e alimentari sul mercato europeo resterebbe sottoposto a severe barriere doganali. Nel migliore dei casi continueremo a subire, senza poter reagire, le conseguenze politiche degli “svantaggi” comparativi. Continueremo a esportare frutta e verdura fuori stagione per le tavole degli europei e l’olio d’oliva, prodotti grazie al sole abbondante, allo sfruttamento delle risorse naturali locali (la terra, l’acqua…), alla politica dei bassi salari e all’ingiustizia e all’ineguaglianza nella situazione fondiaria. In contropartita continueremo a importare massicciamente cereali che costituiscono la base dell’alimentazione di tutt*i tunisin*.

Se disgraziatamente le nostre scelte politiche, qualunque fossero, non dovessero più corrispondere a quelle dei nostri “amici” occidentali e a quelle delle Istituzioni Finanziarie Internazionali, ci rimarrebbero da mangiare solo le mani. I recenti eventi geopolitici nel mondo arabo (Iraq, Siria, Sudan, Libia, Yemen…) provano in maniera incontestabile come un embargo commerciale, compreso quello alimentare, possa essere deciso e messo in atto in pochi giorni. Le conseguenze sociali, politiche e persino securitarie di un tale scenario sarebbero devastanti per l’insieme dei cittadin*.

Paradossalmente le negoziazioni in corso sull’ALECA, costituiscono la prova eclatante della nostra dipendenza alimentare. Alcun*, ed io ne faccio parte, spingono i negoziatori ed il governo a rifiutare questi accordi. E’ una posizione politica di principio che continuerò a difendere. Ma abbiamo coscienza di quanto potrebbe costarci cara una scelta così radicale? Se la firma degli accordi Aleca aggraverebbe di certo la nostra dipendenza alimentare, non firmare potrebbe trasformarsi in un vero incubo sociale, economico e politico. Di fronte a un rifiuto degli accordi dell’ALECA, l’Europa e il mercato alimentare mondiale attuerebbero sicuramente delle ritorsioni che potrebbero arrivare fino alla chiusura totale dei mercati internazionali nei confronti dei prodotti tunisini. Si verificherebbero perdite per migliaia di dollari, facendoci sprofondare in una crisi economica di un’ampiezza mai vista finora. Ciò evidentemente è contraddittorio. Firmare l’ALECA sarebbe una vergognosa sottomissione senza resistenza. Non firmare, un’assunzione notevole di rischi, nel caso in cui una tale decisione non fosse immediatamente accompagnata dall’adozione, con assoluta urgenza, di una nuova politica agricola e alimentare che rompa definitivamente con quella attuale. Un tale cambiamento dovrà rompere al tempo stesso con il principio dei “vantaggi comparativi”e basarsi su un principio semplice nella sua formulazione e relativamente facile nella sua applicazione “Le risorse naturali, fra cui l’acqua e la terra, devono servire innanzitutto a nutrire la popolazione”.

Il cambiamento di paradigma diventa urgente

Non si tratta di tornare alle politiche delle cooperative degli anni ’60, ma questo cambiamento delle politiche agricole e alimentari chiede soltanto un paio di decisioni politiche coraggiose e proattive: 1) Far uscire il settore agricolo dalla sfera degli investimenti capitalistici e speculativi che vanno in cerca di benefici finanziari; 2) Rimettere i contadini e le contadine , oggi stigmatizzat*, impoverit*, sfavorit* e marginalizzat*, al centro dell’agricoltura tunisina. Ess* ne hanno bisogno e l’insieme del paese ha bisogno di loro. Non si tratta di farsi carico di loro e ancora meno di farne degli assistit*, ma di restituire loro le chiavi del settore e ridare loro la funzione principale che consiste nel nutrire gli umani e nel proteggere le nostre risorse naturali e l’ambiente. Si tratta semplicemente di restituire loro la dignità di cui sono stat*e spogliat*.

Oggi il 3% dei produttori agricoli possiede, a testa,  più di 100 ettari, si accaparra più del 30% della terra coltivabile e produce essenzialmente per il mercato estero (anche se non tutti). Nello stesso tempo il 97% degli agricoltori, le cui terre misurano meno di 100 ettari, non occupano che i 2/3 delle terre agricole rimanenti e producono per lo più per i mercati locali e/o nazionali, per i più grandi fra questi. Precisiamo inoltre che il 75% degli agricoltori tunisini possiede meno di 10 ettari. Questi agricoltori, tutti insieme, occupano solo il 25% del totale delle terre coltivabili e producono esclusivamente per il mercato locale e nazionale. Anche solo da queste cifre, è facile capire la dipendenza alimentare del paese poiché una gran parte dei terreni agricoli producono essenzialmente per i mercati esteri.

Solo una riforma agraria proattiva può correggere queste diseguaglianze ingiuste e penalizzanti

Occorre mettere in opera una riforma agricola radicale che fissi dei limiti massimi e minimi alla proprietà agricola, controlli i meccanismi dei mercati fondiario, agricolo e alimentare, proibisca, con un sistema di tassazione adeguato, gli investimenti speculativi nel settore agricolo e alimentare e ri-orienti la produzione agricola verso i mercati locali, a detrimento dell’export verso i mercati internazionali che l’attuale potere continua a favorire.

In un paese economicamente dipendente come il nostro, il settore agricolo è economicamente e politicamente strategico. Deve essere protetto. Tutti i paesi del nord proteggono i loro settori agricoli e il loro mercato con barriere doganali che non possono essere violate. Pochi paesi al mondo difendono i loro agricoltori come gli Stati Uniti e l’Europa. Ricordiamoci che il trattato di Roma, firmato il 25 marzo del 1957 in Italia, fra sei paesi (Germania dell’Ovest, Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) puntava precisamente alla creazione di un “mercato economico europeo” e nacque dalla presa di coscienza di alcuni capi di stato europei sulla necessità di difendere il loro settore agricolo dalle pressioni estere, in particolare quelle americane.

Oggi le politiche agricole tunisine vanno completamente nel senso opposto: tolgono ogni protezione del settore agricolo. Una cecità criminale e irresponsabile. Una pesante minaccia alle generazioni attuali e quelle future. Una vergogna.

Mi rendo conto di come l’esperienza catastrofica delle cooperative degli anni ’60 che portava in sé le ragioni intrinseche del suo fallimento, anche senza i giochi politici che hanno accelerato la caduta del suo fautore, Ahmed Ben Salah, abbia reso improponibile e impensabile qualunque idea di riforma agraria per la maggior parte della popolazione e delle élites politiche ed economiche del paese. Però altre due esperienze meriterebbero di essere esaminate più da vicino, prima di rifiutare in blocco ogni riflessione e/o proposta di riforma del sistema fondiario agricolo e, più in generale, delle strutture agrarie.

Il primo esempio è quello della riforma agraria che gli Stati Uniti, leader e guardiani del mondo capitalista, hanno imposto alla Corea del Sud, all’indomani della guerra di Corea. Il suo principale obiettivo (non il solo) era che i Coreani del Sud producessero da soli il loro fabbisogno alimentare, invece di dipendere dagli aiuti americani e occidentali. Fu senza dubbio una riuscita che ha contribuito alla comparsa del “miracolo” coreano così come lo conosciamo oggi. E Marx non ha niente a che fare con questa esperienza portata avanti dalla prima potenza capitalista nel mondo, in un paese che, al termine della guerra, si lanciava anima e corpo in una traiettoria capitalista liberale. I liberali tunisini che si offuscano e si spaventano quando sentono l’espressione “riforma agraria”, dovrebbero leggere di più sulla storia del capitalismo e della ideologia in cui si identificano…

La seconda esperienza è quella di Cuba, di cui non si può non tenere conto. Sottomessa a un embargo commerciale e alimentare draconiano, imposto dal suo importante vicino americano all’indomani della rivoluzione castrista, Cuba ha messo in opera, soprattutto a partire dall’inizio degli anni ’90, una reale politica di sovranità alimentare basata su: a) una riforma del demanio agricolo e delle strutture agrarie basata su un principio semplice “la terra a chi la lavora per nutrirsi e per nutrire la popolazione”. Tale scelta ha permesso al paese che gli USA volevano letteralmente asfissiare per evitare ogni sorta di “contagio” marxista, non soltanto di evitare la carestia ma anche di ridurre drasticamente la propria dipendenza alimentare dall’ l’estero e perciò anche di evitare pressioni politiche dei nemici come degli amici; b) la limitazione draconiana dell’uso di pesticidi con un duplice obiettivo : rafforzare la propria indipendenza nei confronti del mercato mondiale dei prodotti chimici per l’agricoltura ed evitare gli effetti di questi prodotti tossici sulla salute dei coltivatori e dei consumatori. Tutti conoscono le conquiste innegabili del sistema sanitario cubano che pone la popolazione locale nei posti alti della scala di speranza di vita alla nascita; c) la pratica sistematica dell’agro-ecologia per proteggere i suoli agricoli dall’impoverimento e dalla sterilità che provocano le monoculture. Tutti gli studi e le ricerche disponibili dimostrano come, grazie a queste diverse riforme, l’agricoltura cubana sia divenuta più produttiva di quanto non lo fosse con i precedenti metodi produttivistici. Oggi Cuba è riconosciuta come un modello di sovranità alimentare. Di più: grazie all’aiuto diretto e indiretto di Cuba molti paesi africani hanno potuto evitare sicuramente carestie che le potenze occidentali non avrebbero potuto né evitare né arginare.

Certamente la Tunisia non è né la Corea del Sud, né Cuba e non si possono mettere a confronto contesti geopolitici così diversi. Non si tratta in nessun caso di importare l’una o l’altra esperienza, ma di ispirarsene “politicamente” e di trarne alcuni elementi positivi per immaginare soluzioni locali che tengano conto del contesto geografico, agricolo, ecologico, sociale, economico e politico della Tunisia, al fine di consolidare la sovranità alimentare e di ri-orientare le politiche agricole e alimentari verso una maggiore indipendenza, verso una maggiore giustizia sociale e ambientale e meno rischi ecologici, economici e politici.

Un settore agricolo sviluppato, sbarazzatosi degli investimenti speculativi e orientato nello stesso tempo verso la sovranità alimentare e il diritto delle generazioni attuali e future a una alimentazione sufficiente, equilibrata, sana e protettrice dell’ambiente…è un settore che garantisce una vera sicurezza alimentare per i produttori, così come per i consumatori, protegge le risorse naturali e la biodiversità e attira i giovani, oggi devastati dalla mancanza di lavoro e di opportunità e in buona parte spinti verso soluzioni estreme e spesso suicide. La sovranità alimentare crea un legame organico tra i produttori e i consumatori e li integra in un modello che “protegge” gli interessi di entrambe le parti.

Ciò è quanto i politici attuali rifiutano senza neanche prendere il tempo di discuterne e di dibatterne, Il nostro dovere è di portarli, con tutti mezzi, preferibilmente pacifici, ad accettare il dibattito, il confronto e l’argomentazione politica basata sull’ analisi dei diversi processi in corso nel settore agricolo.

E’ ciò che noi esigiamo e ci auguriamo di cuore, per una maggiore indipendenza alimentare e più rispetto per il diritto fondamentale all’alimentazione. Ciò ci sembra urgente e indispensabile, se si vuole, allo stesso tempo, ridurre la marginalità sociale rurale e urbana, offrire delle opportunità ai giovani, proteggere il nostro ambiente, premunirci dalla conseguenze catastrofiche dei cambiamenti climatici in corso, ridurre la nostra esposizione alle pressioni esterne e lasciare una Tunisia e un mondo migliori alle future generazioni.

L’uscita dall’ALECA e più in generale dal mercato alimentare mondiale è un’urgenza assoluta. Ma uscirne senza riforme radicali delle nostre politiche agricole sarebbe come saltare dalla cima di un grattacielo senza una rete di protezione.

Possiamo orientarci verso una sovranità alimentare reale, senza ridursi a una forma di sciovinismo o di nazionalismo cieco e suicida. Chiudere completamente porte e finestre significa condannarsi a morire d’asfissia e per soffocamento. Aprirle completamente significa rischiare di essere portati via dalle correnti d’aria.

Dobbiamo esigere un cambiamento radicale delle nostre politiche agricole e alimentari per una maggiore sovranità alimentare individuale e collettiva, per più dignità, più sicurezza e giustizia sociale, economica, ambientale, regionale e intergenerazionale.

Possiamo farlo. Dobbiamo farlo.

L’articolo/appello è apparso il 30 dicembre 2018 sul blog dell’autore Dammer

Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini