Michael Ayari
(intervistato da Benoît Delmas, corrispondente a Tunisi per Le Point Afrique)
Le Point Afrique : Com’è riuscita la rivoluzione a rovesciare la dittatura di Ben Alì?
Michael Ayari: Quando è arrivata quella che viene chiamata “Primavera araba in Tunisia vi era un regime autoritario, con una estetica particolare, erede del movimento di liberazione nazionale e con una verniciatura di populismo. Un regime dotato di un partito unico con una opposizione di facciata, fidelizzata per mezzo di quote a lei riservate nelle municipalità e in Parlamento. Si contavano alcuni partiti clandestini e vi era una società civile debolissima, a parte quella che era emanazione del regime. Anche se tutti gli analisti si interrogavano sulla durata dell’autoritarismo, erano ben lontani dall’immaginarsi un tale sconvolgimento. Pensavano che Ben Alì non finisse di finire! Da qui a immaginarsi che sarebbe caduto…
Tuttavia vi erano stati alcuni segni premonitori legati alle questioni economiche e sociali e alla questione della sicurezza. Il regime stava perdendo molte delle sue intermediazioni. Non riusciva più a spegnere alcuni conflitti sociali, a soffocarli prima che scoppiassero. Si assisteva anche alla recrudescenza di scontri fra il partito egemone, l’UGTT -lo storico sindacato- e differenti clan al potere. Due eventi seminarono dubbi. Nel gennaio 2007 un gruppo formato da una decina di jihadisti viene individuato a Soliman. E viene mobilitato tutto l’apparato poliziesco, il che pose il problema della capacità del regime a mantenere l’ordine, nonostante la sua ossessione securitaria. E la questione sociale esplosa a Gafsa, nel 2008, nel bacino minerario. Un movimento estremamente combattivo che è durato sei mesi, malgrado il dispiegamento di un gigantesco dispositivo poliziesco e militare.
Si trattò di due avvertimenti.
Due anni più tardi, è stata l’immolazione di Mohamed Bouazizi il 17 dicembre 2010 a scatenare la rivoluzione?
Fu un avvenimento del tutto inedito. Ciascuno poi ha interpretato il movimento secondo la propria griglia ideologica. C’è chi vi ha visto una vera rivoluzione, in maniera un po’ romantica, con gli oppressi e la gente delle regioni dell’interno del paese che si risvegliavano. Altri, alcuni islamisti, vi hanno visto un segno di Dio, la fine delle tirannie, altri ancora vi videro una rivoluzione quasi socialista. E altri una normalizzazione del sistema con il suo inserimento nella mondializzazione, contro delle élites predatrici che rubavano a tutto spiano e soffocavano ogni velleità imprenditrice. Dopo la fuga di Ben Alì, vi è stata una lotta per imporre una definizione di quanto fosse accaduto. Si è pensato che si trattasse di una rivoluzione democratica, paragonabile alla caduta del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica, che la Tunisia si dirigesse verso un regime politico democratico con una crescita economica spinta dal liberalismo. Questa era l’idea generale. I finanziatori giudicarono in quel momento che la Tunisia fosse matura per questo e che il freno fosse stato il clan di Ben Alì, con le élites al potere che si accaparravano un terzo delle ricchezze rapinando tutto il paese. I “transitologi”- gli specialisti in transizione democratica- spiegavano che la Tunisia era pronta. Tasso di scolarizzazione, numero di laureati, diritti acquisiti delle donne, la transizione demografica…Bastava che se ne andasse Ben Alì perché si mettessero in opera le riforme e la Tunisia diventasse la Corea del Sud.
E’ da qui che provengono le delusioni odierne, perché non è andata così.
Eppure la Tunisia rimane l’unica Primavera araba riuscita..
… Quello che si è evitato è stata la vera violenza politica. Ci sono stati momenti di tensione,due assassinii politici, la crescita di un movimento jihadista radicale, ma non c’è stata la guerra civile, i regolamenti di conti, malgrado la guerra in Libia, paese vicino con una frontiera porosa. Cosa c’è di positivo? La capacità da parte delle èlites politiche ad arrivare a un consenso, a dialogare. Il dialogo nazionale che si è avuto nel 2013 è una esperienza originale e che ha funzionato. Si è svolto abbastanza bene in termini di prevenzione dei conflitti. Poi chi pensava che la democrazia acquisita fosse un dato irreversibile ha cominciato a dubitare. Le leggi più importanti in temini democratici – libertà di creare un’associazione, un partito politico…- erano state fatte nel 2011. Mentre si assiste oggi a una dispersione dei poteri. Nessuno degli attori della scena politica è abbastanza forte per imporre la sua visione delle cose. Questo relativo rispetto delle libertà pubbliche molto presto è diventato come la conseguenza della debolezza dello Stato. Siamo più in una forma di democrazia negativa. Non un qualche cosa di radicato, che crea consenso, ma una scelta per esclusione perché nessuno è in grado di fare qualcosa di diverso. Il movimento democratico ha cominciato a indebolirsi con l’arenarsi delle Primavere arabe [….]
Oggi abbiamo come l’impressione che la Tunisia sia in sospeso, perché la parentesi delle Primavere arabe si è chiusa. Essa resta l’ultima sopravvissuta. Ma la democrazia non viene più analizzata come principio superiore comune, ma come utilità. Che cos’è l’utilità? La crescita economica, più giustizia sociale… Cosa che non si è realizzata. E le popolazioni delle regioni interne ritengono di non aver guadagnato nulla da questa transizione e sono sempre più pronte a ritornare a un regime più duro, anche se ne saranno le prime vittime. Il fatto di voler tornare a questa fantasia di uno Stato di giustizia, con la corruzione contenuta, un’amministrazione neutra e razionale, un’uguaglianza di chance, una forma di meritocrazia, uno Stato benefattore, potrebbe spingere la popolazione a chiedere un regime dittatoriale in maniera plebiscitaria. Il che andrebbe di pari passo con i tentativi regionali di mettere fine all’esperienza tunisina. Otto anni dopo la disillusione è grande, almeno pari alle illusioni che si ebbero all’inizio. Non siamo più sotto un regime autoritario, ma a livello economico e sociale c’è molta resistenza e inerzia. Vi è paura per l’avvenire. Nessuna forza politica ha un vero programma, una strategia, una visione. Neppure il governo. La cosa più difficile in Tunisia non è avere delle idee, ma poterle realizzare . Essendosi spezzata la catena di comando in seno all’amministrazione e in assenza di collaborazione interministeriale, si comprende l’incapacità a realizzare riforme strutturali, politiche pubbliche. La parola Democrazia è diventata quasi una bestemmia per le élites così come per una parte della popolazione. Si sente dire che “occorre salvare il paese”, si osserva la montata del sovranismo, il ritorno di membri del vecchio regime – che furono messi all’indice fino al 2014 perché corrotti e tirannici…La mancanza di visibilità, a livello regionale e internazionale, non aiuta. Gli amici della Tunisia mandano messaggi contradditori . A un certo momento si lodava “l’eccezione tunisina”, persino in maniera naif a volte, i tunisini gentili che diventeranno dei grandi democratici. Questo discorso si sente sempre di meno. E’ molto più difficile realizzare delle vere riforme che lodare le intenzioni. Nel Golfo gli Emirati arabi uniti e l’Arabia Saudita vedono di mal’occhio il consenso tunisino che ha integrato un partito della corrente dei Fratelli Musulmani. Dal 2011 si sono accumulati tutti i problelmi, e ogni volta sono stati risolti solo per un terzo il che signifia che non vengono risolti, ma che si prende tempo. Tutti gli effetti negativi si possono manifestare d’un sol colpo, esplodere.
Cosa impedisce l’attuazione di ideali repubblicani?
Questa domanda ci fa ritornare al problema dello Stato, al modo in cui è stato creato, formato. Si tratta di uno Stato che è sempre stato debole, contrariamente a quanto si possa pensare. Ha sempre cercato di imporsi con la forza e in alcune parti di territorio non ci è riuscito. Nè con la forza nè in virtù di un patto sociale. Non ha tessuto alleanze nelle campagne come è successo nei paesi dell’Europa occidentale, per esempio. Trae la propria legittimità dal fatto di redistribuire cose, dal fatto che può essere duro impedendo alla gente di contestarlo. E’ temuto quando è forte, ma viene sfidato quando non distribuisce abbastanza, le persone non possono farne a meno perché imponendosi, ha tolto ogni capacità di iniziativa dal punto di vista economico, a ogni livello. E la maggior parte dei cittadini lo detesta. In assenza di un vero contratto sociale, per il fatto d’essere percepito come lo Stato solo di alcuni, gli ideali repubblicani non possono essere realizzati. Tutto funziona per reti di favoritismi, ci troviamo in un sistema clientelare dove ci sono più clienti che cittadini. A seconda delle origini socio-regionali, alcune persone sono escluse dalla rete dei favoritismi e subiscono le decisioni statali come arbitrarie. Il concetto di istituzioni al servizio del bene comune non esiste, ma si è convinti che esse siano al servizio di chi sa come funziona l’apparato, di chi sa come avvicinare le persone giuste per poter beneficiare dei loro favori.
Un capitalismo di rendita?
Quando diciamo rendita, pensiamo al petrolio, al gas. Nel nostro caso si tratta di uno Stato clientelare che fa il bello e il cattivo tempo, che cerca di redistribuire per comprarsi la pace sociale, ma conserva le sue risorse più importanti per un piccolo circolo di privilegiati storicamente vicini a lui. E’ una logica della rendita. E’ l’idea che vi sia un dolce, che ciascuno ne abbia una fetta, ma aumentare la grandezza del dolce, no. La stessa cosa in Libia. Molti parlano dello Stato come una mucca da latte, l’obiettivo è mungere più latte possibile senza far morire la mucca. E da questo schema non si è usciti. Molti analisti hanno sottovalutato l’importanza di tale sistema. Una volta partiti il cattivo Ben Alì e i Trabelsi (la famiglia della moglie di Ben Alì, n.d.t.), si pensava che il problema sarebbe stato risolto. E invece ci si rende conto che le logiche clientelari sono rimaste. Guardate i media! I mercenari dell’uno, i mercenari dell’altro. Fanno Ben Alì, senza Ben Alì. Si è compreso che il problema non era Ben Alì, ma il sistema. Nel momento in cui per qualunque cosa bisogna passare per lo Stato, prosperano corporativismo e clientelismo.
La Tunisia è un paese bloccato, irriformabile?
Il tempo per le riforme è un tempo lungo. Occorrono riforme strutturali che vengano attuate un poco alla volta. Occorre una strategia a medio e lungo termine. Esistono anche elementi imprevedibili che non possono essere pianificati dalle élites. Occorre una dinamica che oggi non si intravede. Nel 2011 vi era un orizzonte di riforme. Si andava verso la democrazia, si scriveva una Costituzione, il paese sarebbe andato meglio. Gli obiettivi erano chiari e raggiunti. Ora gli obiettivi che furono raggiunti dalle élites rappresentative del popolo, quasi all’unanimità, vengono rimessi in questione. Si rimette in questione la natura del regime. Si ritorna al peccato originale tunisino: cioè all’idea che le riforme possano essere fatte solo dall’alto, da un piccolo cerchio di persone e imposte con la forza ad una società che sarebbe, per sua natura, refrattaria. Si cerca il consenso, ma poi arriva la forza. Cambiando dall’alto questa società arretrata rispetto alle élites il paese avanzerà. E chi contesta questa visione è un oscurantista o un idiota. E’ un problema immenso. Dalla metà del 19° secolo è stato questo il riformismo tunisino, si vuole trasformare il popolo a immagine delle sue élites. Ci sono momenti in cui su alcuni punti ciò può funzionare. Ma la temporalità del cambiamento nella realtà è molto più lenta che nella testa delle élites. Élites che non si mettono a confronto con l’Italia, ma con la Francia, la Germania, gli Stati-Uniti, la Svezia… Il che genera frustrazioni. Le due cause del pessimismo diffuso: un governo di unione nazionale che ha screditato tutta la classe politica. Se un governo di unione nazionale fallisce chi rappresenterà l’alternativa? Nessuno incarna l’opposizione. E i cittadini che sono disgustati da quanto accade incolpano un responsabile: tutta la classe politica! Ciò è conseguenza di questa scelta di unione nazionale. Vi è un abisso fra l’alto e il basso, fra il basso e le istituzioni, una crisi di fiducia. Da ciò l’idea che la corruzione sia dappertutto, a volte esagerata. Ci troviamo ormai in una situazione di clientelismo decentralizzato, all’immagine della dispersione dei poteri. Non c’è più il boss che sbloccherà la vostra pratica.
Secondo fattore di pessimismo?
La svalutazione del dinaro. Molti economisti credevano che ciò avrebbe rilanciato la competitività dei prodotti tunisini per l’esportazione. Di fatto ha contribuito all’aumento dell’inflazione in misura enorme. Il dinaro cala, si sparge la voce, e ciò pone un problema di visibilità per gli investitori. Al punto che gli oligopoli privati hanno inviato i loro soldi all’estero e alcuni speculano sul ribasso del dinaro. Conseguenza: vi è questa battaglia cruciale fra una concezione tecnocratica, “bonapartista”, che afferma che sia necessario un esecutivo forte, che bisogna mettere da parte i partiti politici che sono piccole camorre, un virus che divide il paese, e dall’altro parte la concezione politica classica: che vinca il migliore. In presenza di tutte le attuali sfide vi è questa lotta tra la logica politica delle persone che sono state elette e la logica tecnocratica. Si ritorna a questa idea che bisogna ridare il potere alle persone che hanno senso dello Stato contro gli eletti che sono incompetenti e corrotti.
E’ possibile una restaurazione?
Non vi è una restaurazione possibile. Vorrebbe dire tornare allo stesso tipo di regime, con la stessa estetica, ritratti di Ben Alì nelle strade, canali televisivi che eseguono ordini, un sistema clientelare regolato, accordi nell’ombra di un partito unico, a mio parere, tutto questo è finito! Però, un regime in cui la legittimità sia tecnocratica, con rappresentanti dei vari corpi, governi di salvezza nazionale, con una logica elettorale ridotta al minimo, così come un controllo molto forte a livello di società, un controllo sui sindacati, sulle associazioni, sui giornalisti… è possibile che ci si avii, piano piano, in questa direzione. Come Sissi in Egitto. Si ritorna all’equazione di inizio 2011: se si vogliono delle vere elezioni libere e concorrenziali, che lascino la parola al popolo, saranno sempre gli islamisti che arriveranno in testa. E se vincono, si pensa che vorranno cambiare la società e no, questo non deve accadere. Ecco una idea profondamente antidemocratica.
In Tunisia c’è Ennahdha, lo si può vedere come un partito d’ispirazione islamista, sempre vago, con alcuni quadri che provengono dall’estremismo degli anni ’80, ma ormai molto imborghesiti. Giustificano la loro assenza di linea politica con il gradualismo: ai loro militanti più duri dicono: “Non vi preoccupate, faremo uno Stato Islamico fra vent’anni” come Mitterand prometteva nel 1981 uno Stato socialista…Il loro solo principio politico è quello di non averne. Ennahdha evolve nell’arco del tempo e cerca bene o male di preservare la propria esistenza, perché non ha fiducia nei suoi avversari. Tenta di preservarsi senza apportare un gran valore aggiunto agli altri,. Può permettere l’integrazione di gente tradizionalmente esclusa dalla politica, come chi vive nelle regioni interne del paese, ma non è un partito islamista come negli anni ’80. Non è il FIS algerino e non lo era neppure negli anni’80. E’ liberale e conservatore, ha dei riferimenti religiosi, ma non ha obiettivi, se non quello di restare al potere, sicuramente quello di preservare la propria esistenza. Non ha delle specificità proprie rispetto agli altri partiti. E’ il custode di un certo conservatorismo culturale e sociale della società. Nel caso la società si diriga verso un cambiamento, verso una nuova rottura dei legami famigliari o verso una sessualità più aperta, in questo caso Ennahdha può essere un freno. Si muove all’immagine del conservatorismo della società. Se questa è conservatrice, allora il partito non ha un programma. Se la società non è più conservatrice, in questo caso lo diviene. Rimane un difensore della famiglia. Si opporrà alla questione dell’uguaglianza fra uomo e donna nell’eredità, ma non ha un programma tipo charia, Stato Islamico, no. E’ l’unico partito strutturato in Tunisia, con militanti, una struttura interna, elezioni della dirigenza e segreteria. E’ una organizzazione politica efficiente. Dato che rimane l’unico partito organizzato, le forze non islamiste cercano di mettersi insieme.
Non sono conflitti di società che si oppongono. E’ questione di controllo delle articolazioni dell’amministrazione pubblica, di potere formale e informale. Se continueranno ad avere buoni risultati elettorali, cambieranno i rapporti di forza e gli equilibri nelle reti economiche e quelle dei poteri. A chi dare tale autorizzazione, chi farà dell’import? E come tutti i partiti, tenderanno a dare le autorizzazioni a gente a loro vicina, sociologicamente . Ma non rompono lo schema clientelare. Ciò non li incoraggia a stendere un vero programma. Sanno che possono essere nel sistema, ma dato che non hanno le stesse origini degli altri (1), si sono adattati al fatto di accontentarsi del 30%, ossia un terzo di presenza nelle istituzioni formali e informali. E’ il compromesso che vige nell’Africa del Nord, salvo in Egitto.Il ruolo di Ennahdha è centrale nel gioco politico.
Nella regione coloro i quali vogliono chiudere definitivamente la parentesi delle Primavere arabe sono gli Emirati arabi uniti e l’Arabia Saudita. Pensano che occorra indebolire, se non sradicare, tutti i partiti che si ispirano ai Fratelli musulmani.
Il che significherebbe la fine della democrazia.
1) Sin dal periodo post-indipendenza sono state le élites della regione del Sahel, da cui proveniva lo stesso Bourghiba, a detenere la maggioranza dei posti chiave del potere.
L’intervista di Benoît Delmas a Michael Ayari è apparsa il 12 gennaio 2019 su Le Point Afrique
Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini
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