Thierry Brésillon
Il dramma delle braccianti morte a causa delle condizioni di trasporto disumane ha sollevato il velo sulle profonde diseguaglianze che attraversano l’ambiente rurale in Tunisia.
In poche ore, durante il week-end di fine aprile 2019, un foulard verde, a fiori rosa e blu come quello con il quale le braccianti si coprono il capo, è divenuto l’emblema della collera dei poveri e dei dimenticati della Tunisia centrale.
Sabato a Blahdia, nella parte ovest del governatorato di Sidi Bouzid, una famiglia in lutto l’aveva issato sul tetto di casa dopo la morte della madre in un terribile incidente stradale.
All’alba dello stesso giorno dodici persone, fra cui sette donne, avevano trovato la morte (la tredicesima morirà poco dopo) nella collisione fra due camion, uno che trasportava del pollame e l’altro le braccianti che si recavano al lavoro nei campi.
La tragedia delle invisibili
Immediata l’emozione. La domenica si è svolta una manifestazione a Sidi Bouzid davanti alla statua che raffigura il carretto di Mohamed Bouazizi, la cui immolazione aveva innescato la rivoluzione tunisina il 17 dicembre 2010. Lunedì la sede regionale del sindacato UGTT ha proclamato lo sciopero generale, osservato soprattutto a Sebbala, la località vicino al luogo dell’incidente. In questa occasione la gente ha sventolato il foulard a fiori come simbolo di questa tragedia delle invisibili.
L’emozione non è stata provocata soltanto dalla violenza delle immagini che sono circolate rapidamente sui social networks, ma anche dalla frequenza degli incidenti che coinvolgono i camion che trasportano le donne, stipate nei cassoni.
Il giorno prima nove donne erano cadute rovinosamente sulla strada nella regione di Kairouan. L’11 aprile altre due avevano trovato la morte vicino a Zaighouan.
In cinque anni, secondo il conteggio del Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES), questo tipo di incidenti ha provocato la morte di 40 persone e il ferimento di 496.
Tale pesante bilancio conferisce una dimensione tragica alle condizioni scandalose di trasporto della mano d’opera agricola, essenzialmente femminile e, più generalmente, al loro sfruttamento.
Le braccianti vengono assunte giorno per giorno, secondo la buona volontà di un samsar, un intermediario che fa le veci del padrone. Poi vengono installate a decine su un cassone di un camion sul cui fondo (particolare sordido) viene versata dell’acqua per impedire loro di sedersi, in modo da guadagnare più spazio.
Nonostante la maniera indegna in cui viaggiano, il costo del tragitto, fra 1 e tre dinari, viene prelevato dal salario, che è tra 10 e 15 dinari al giorno (1 euro= 3,4 dinari).
Teoricamente questa modalità di trasporto è proibita, ma raramente viene sanzionata e quando il conducente è fermato dalla polizia, sono le stesse braccianti che chiedono il suo rilascio. Non tanto per sollecitudine, quanto per garantirsi la giornata di lavoro.
A seguito dei numerosi incidenti è stato firmato un protocollo fra il ministero delle Donna e le organizzazioni sindacali, il 14 ottobre 2016 per garantire migliori condizioni di trasporto.
« Solo le donne possono accettare tali condizioni di lavoro»
Ma dato che il Parlamento non ha rivisto la legge sul trasporto terrestre, l’accordo è rimasto lettera morta. L’8 marzo 2018 era stata lanciata una linea d’autobus pilota nella regione di Jendouba, esperienza rapidamente abbandonata in quanto troppo costosa per essere generalizzata.
Il costo della mancanza di azione, denunciato oggi dal Forum insieme a una coalizione di organizzazioni, da allora si è convertito in vite umane.
Ma il problema non si limita alle condizioni di trasporto. Un’inchiesta portata avanti dall’organizzazione La Voix d’Ève (la voce di Eva) ha accertato che il 94% delle braccianti lavora senza contratto, che il 97% non gode di alcuna copertura sociale e che il 20% è minorenne.
Secondo la stessa inchiesta, la maggioranza delle donne (quasi il 60%) trascorre più di dieci ore fuori casa (dove oltretutto devono occuparsi delle faccende domestiche) e raramente sono a casa la domenica. Prive di dotazioni di sicurezza, maneggiano prodotti tossici che provocano bruciature e problemi respiratori.
« Gli stessi datori di lavoro, secondo Khawla Omri, presidentessa dell’associazione La Voix d’Ève, “si rifiutano di ingaggiare degli uomini per i compiti manuali perché solo le donne possono accettare tali condizioni di lavoro.” Gli uomini, dal canto loro, vengono assunti il più delle volte come 2supervisori” con salari superiori, non c’è neppure bisogno di dirlo.
A seguito dell’ultima tragedia il governo ha reagito annunciando una serie di misure a favore delle famiglie delle vittime: un aiuto economico per andare a visitare i parenti feriti negli ospedali di Susa e Sfax, un sussidio per fare dei miglioramenti alle loro abitazioni, la presa in carico della scolarizzazione dei figli e il finanziamento di micro progetti.
Nello stesso tempo ha approfittato dell’occasione per annunciare un dispositivo, preparato da più di un anno, che permetta di fornire una assicurazione sociale a circa 500.000 lavoratrici agricole non dichiarate.
Le donne, punto debole di un’agricoltura sinistrata.
Ma queste misure non intaccano minimamente la dimensione strutturale del problema, di cui gli incidenti sono solo l’aspetto estremo.
Una ex sottosegretaria di stato, Faten Kellal, ha chiarito, in modo freddamente realista, alla tragedia di Sebbala: “Quello che non si dice è che la sopravvivenza del settore agricolo, già sinistrato, si basa su queste donne e questo modo di trasporto primitivo è vantaggioso in termini di costi, per cui proibirlo priverebbe il settore di mano d’opera. Lo Stato non ha i mezzi per sviluppare l’infrastruttura dei trasporti pubblici”. La frase ha suscitato un’ondata di indignazione sui social.
La sua logica puramente economica era fuori luogo nel momento della commozione, ma descriveva correttamente il dramma, inserendolo nella situazione di una agricoltura “sinistrata”.
Di fatto le braccianti sono il punto debole, il parametro più flessibile dell’economia agricola.
Invece, la rassegnazione all’impotenza dello Stato davanti a un problema di trasporto così micidiale non è stato ben vista e a questa dichiarazione è mancato un invito ad affrontare le cause del’”incidente”. Tanto più che è proprio dalla disperazione e dalla collera delle regioni rurali che è partita la rivoluzione.
Una lunga storia di sfruttamento a beneficio del litorale
La situazione dell’agricoltura tunisina è di fatto l’eredità più pesante della storia economica con la quale le politiche attuali devono confrontarsi.
La formazione dello Stato centrale si è sempre basata su una relazione di sfruttamento delle risorse delle regioni dell’interno. Lo Stato beycale, già prima del protettorato francese, si finanziava con i prelievi fiscali che provenivano in gran parte dalla produzione agricola.
L’entrata della Tunisia nella sfera commerciale europea che la colonizzazione, a partire dal 1881, ha spinto al parossismo, ha assoggettato la Tunisia ai bisogni del mercato estero.
L’indipendenza nel 1956 sostanzialmente non ha invertito la tendenza: il mondo contadino è rimasto sottomesso al potere delle città.
La collettivizzazione delle terre, tentata nel 1964 e nel 1969, aveva come scopo di liberare surplus per finanziare l’industrializzazione, mentre il blocco dei prezzi agricoli puntava a nutrire la popolazione delle città a buon mercato.
Tali politiche hanno fatto dei piccoli contadini dei proletari, schiacciati socialmente e culturalmente, incapaci di accumulare risorse per partecipare allo sviluppo regionale.
Gli unici orizzonti sono così diventati un lavoro faticoso e sottopagato sulle terre di altri, o la disoccupazione o l’emigrazione.
Il paradosso agricolo
Eppure le regioni agricole sono ricche. Ma vi sono molte disuguaglianze : il 54% di chi sfrutta la terra possiede meno di cinque ettari e gestisce soltanto l’11% delle superfici agricole utili, mentre l’1% possiede aziende di 100 ettari e anche più, gestendo il 22% delle superfici agricole utili” secondo uno studio del ministero dell’Agricoltura del 2006.
Il governatorato di Sidi Bouzid fornisce da solo il 30% della produzione agricola del paese. E’ una delle regioni più attrattive in termini di investimenti, eppure è una delle più povere.
« Nonostante lo “sviluppo globale dell’agricoltura” afferma il geografo Habib Ayeb” l’investimento agricolo eccezionale, particolarmente del settore privato, dagli anni 1980-1990 […] il tasso di povertà è ancora più elevato per la regione di Sidi Bouzid con il 42,3% nel 2011 contro il 13,4% di Tunisi e il 24% della media azionale.
Habib Ayeb spiega in questo modo il paradosso: “I capitali provengono essenzialmente dal Sahel, in particolare da Sfax e da Tunisi. Quando non è direttamente esportata all’estero, la produzione viene avviata verso i mercati di Tunisi e di altre città del paese, oppure verso siti di trasformazione, per lo più a Sfax (le olive per farne olio destinato in gran parte all’esportazione) oppure verso il Cap Bon ( i pomodori per fabbricare il concentrato, in parte anch’esso esportato).”
Una frattura territoriale
Tale struttura diseguale delle regioni agricole s’intreccia di fatto con una frattura territoriale a vantaggio del litorale dove si situano, allo stesso tempo, le ricchezze e la legittimità culturale del modernismo (opposto al tradizionalismo delle popolazioni rurali).
Una frattura che lo Stato ha fatto propria con il piano regolatore di pianificazione del territorio del 1996, in una ripartizione di ruoli tra una Tunisia dell’economia e una Tunisia del sociale che ha come unica vocazione quella di sostenere la prima nel suo inserimento in una mondializzazione sempre più competitiva, fornendole risorse e mano d’opera a buon mercato.
La prospettiva della conclusione di un accordo di libero scambio (ALECA) con l’Unione Europea è vista come una minaccia fatale per quello che resta dell’agricoltura famigliare e dei piccoli contadini.
E’ così è tutta una stratificazione di dominazioni – sociale, patriarcale, culturale, politica, territoriale, geopolitica – a pesare sulle spalle delle braccianti che, tutti i giorni all’alba, montano su quel rimorchio di camion, a rischio della vita.
Il foulard a fiori, sventolato come bandiera di una vecchia collera, riuscirà a ricordare ai responsabili politici l’imperativo di una trasformazione profonda del modello economico?
L’articolo originale è apparso il 6 maggio 2019 sul sito middleeasteye.net
Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini
Follow Us