Tunisia : il governo Fakhfakh non può permettersi di sbagliare

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Elyes Fakhfakh, nuovo capo del governo tunisino Crédit photo: AFP

Thierry Brésillon

Il 26 febbraio Elyes Fakhfakh ha ottenuto la fiducia del Parlamento con una maggioranza di 129 voti su 217, conquistata con grande difficoltà nell’ambito di aspre negoziazioni e al termine di una seduta-maratona di 18 ore.

Tale parto doloroso prefigura i pericoli, i problemi e le imboscate che attendono questo governo.

Ora, e non è un’espressione esagerata, questo governo non ha diritto all’errore e lo sa.

Per cominciare, è stata evidenziato il carattere eteroclita della coalizione di governo che riunisce , come ha sottolineato Elyes Fakhfakh, l’insieme delle sensibilità politiche: islamo-conservatori, desturiani (provenienti dai ranghi della mouvance burghibista del movimento nazionale, al potere prima della rivoluzione), nazionalisti arabi piuttosto statalisti, neoliberali…sotto la direzione di un capo di governo social-democratico.

I motivi di litigio non mancheranno. Il memorandum firmato dai presidenti dei gruppi parlamentari della maggioranza evoca, ad esempio, la necessità di “ristrutturare le imprese pubbliche per avere più efficacia e performance e assicurare la loro stabilità”

Non solo questo “cantiere” solleverà dibattiti ideologici sul tipo di management e di quadro giuridico applicabile al settore pubblico, ma la forma lascia aperta la questione della loro privatizzazione, già intrapresa.

I negoziati sul’ Accordo di libero scambio completo e approfondito (ALECA) con l’Unione Europea, sospesi dalla scorsa estate a causa del periodo elettorale, suscitano anch’essi controversie sull’equilibrio delle relazioni con l’Europa, sulle conseguenze per l’agricoltura e il mondo rurale o sui diritti di proprietà, per esempio, dei farmaci,

Il riferimento a “l’eguaglianza fra cittadini e cittadine e[la necessità di] consolidare e migliorare le conquiste della donna”, l’intenzione di “applicare le raccomandazioni della giustizia di transizione” prefigurano sin da ora divergenze. Tuttavia, tali prevedibili tensioni non sembrano preoccupare la squadra di Elyes Fakhfakh che ha in programma di costituire una struttura permanente per la concertazione e che sia d’impulso, riunendo gli stati maggiori dei partiti alleati.

La spada di Damocle di una mozione di censura

La durata del governo è, in realtà, messa in pericolo a causa dell’ambivalenza del partito islamista Ennahdha nei suoi confronti.

La pressione esercitata da Ennahdha sul futuro capo di governo perché allargasse la coalizione a Qalb Tounes, il partito di Nabil Karoui, è stata solo provvisoriamente allentata, giusto il tempo di votare la fiducia per evitare la prospettiva della dissoluzione. Ma il partito di Rached Ghannouchi pensa , secondo una costante strategica in atto sin dall’inizio degli anni 2000, che un accordo con la componente più forte del “sistema”, ancora al suo posto nonostante la rivoluzione, sia una condizione per la sua sopravvivenza.

Qalb Tounes, per i suoi legami con una parte delle élites statali, con le reti affaristiche e i media influenti, appare oggi come tale componente. Questo partito si da come obiettivo la caduta del governo Fakhfakh, ai suoi occhi illegittimo perché emanazione iniziale della scelta del presidente della Repubblica Kais Saied, essendo stato trascurato l’accordo con Ennahdha.

Anche se Ennahdha detiene un numero considerevole di portafogli ministeriali, l’aritmetica parlamentare gli consente si trovare facilmente una maggioranza con Qalb Tounes e un’altra ventina di deputati, per votare un’eventuale mozione di censura e riprendere in questo modo completamente la mano sul governo.

Elyes Fakhfakh non avrà altra scelta che mantenere l’equilibrio costi/benefici per Ennahdha in favore della sua partecipazione al suo governo e di neutralizzare la capacità di nuocere di Qalb Tounes. In prospettiva del suo congresso durante l’anno, il partito islamo-conservatore ha invece bisogno di un ambiente stabile e di un’atmosfera costruttiva.

Per il momento la rappresentatività del partito in seno al governo consacra gli equilibri interni del partito. La decisione di uscire dalla coalizione non mancherebbe di suscitare tensioni, a qualche mese dal congresso che dovrà gestire la successione di Rached Ghannouchi.

Tale calendario darà un po’ di respiro al governo. Il tempo di consolidare la propria posizione con risultati rapidi e un approccio fondato su motivi convincenti delle questioni a medio termine.

Capire il messaggio delle elezioni

Tali trabocchetti propri della classe politica tunisina non sono niente in confronto ai pericoli che sono in agguato nel mondo esterno.

Le ultime elezioni hanno dato la misura del discredito dei partiti e della delusione nei confronti della transizione, ma anche dell’attesa di una trasformazione sostanziale e di risultati tangibili per un più ampio numero di persone.

La diminuzione del potere d’acquisto, le umiliazioni vissute nel rapporto quotidiano con i servizi pubblici, in pieno disfacimento e l’insicurezza costituiscono l’esperienza concreta del dopo-rivoluzione per la maggioranza dei tunisini, al punto da minacciare direttamente la scelta della democrazia.

Un’esperienza che è accomuna sia le classi popolari, colpite dall’indebolimento dello stato, sia una parte della élite borghese che vive la rivoluzione come una minaccia per i propri privilegi. Il Partito Destourien Libre (PDL) di Abir Moussi, con il suo discorso antirivoluzionario e la promessa di cancellarne i risultati per stabilire un regime autoritario, dispone di una eccezionale tribuna in Parlamento con i suoi diciassette seggi.

Questa collera, questa delusione e tali aspettative si sono espresse nelle urne con il successo della tematica della sovranità nazionale, come rileva l’ultimo briefing del think tank internazionale International Crisis Group (ICG).

Con diverse sfumature, la coalizione Al Karama (islamista), il PDL, il Movimento del Popolo (nazionalisti arabi), candidati come Safi Said e, soprattutto il vincitore delle presidenziali Kais Saied hanno fatto di tale volontà di riprendere il controllo del destino nazionale da parte dello Stato e del popolo il cuore delle loro proposte.

Indebitata e alla mercé dei prestatori di fondi, radiografata sotto ogni punto di vista dall’esterno, sottomessa a valutazioni, a raccomandazioni, a ingiunzioni in tutti gli aspetti della propria esistenza, da quelli istituzionali a quelli più intimi (come la sessualità o l’eredità), la società tunisina prova un sentimento di espropriazione, associato all’esperienza di una vita divenuta più difficile e precaria dal 2011 in poi.

Attacchi alla Francia, accusata di sfruttare le risorse naturali, messa in discussione della lealtà dei bi-nazionali, assimilazione della rivoluzione a una cospirazione dall’estero, accuse di influenze straniere nella trasformazione dei costumi, richiesta di re-equilibrare le negoziazioni commerciali con l’ Europa o annullazione del debito…: il sovranismo prende varie forme, ma esprime lo stesso malessere. La stessa aspettativa di volontarismo e di efficacia politica.

La  sovranità, una nozione frammentata

Il problema è che in Tunisia, come in altri paesi a economia dipendente e attraversati da profonde diseguaglianze territoriali, la nozione di sovranità è stata costruita su una frattura sin dalla costituzione dello Stato moderno a partire dal XVIII° secolo.

Da una parte il sovranismo delle élites, assemblaggio di borghesia autoctona e cittadina e di aristocrazia ottomana o mamelucca, progressivamente “tunisificatasi”, si unisce nel XX° secolo, al il movimento nazionale, una nuova classe, amministrativa e intellettuale che deve la propria ascesa allo Stato. La sua legittimità si è andata costruendo per mezzo della volontà di affrancarsi dalla tutela straniera, ottomana e poi francese. Ha sempre diffidato della “massa” delle tribù, indisciplinata e pericolosa per lo Stato, strumento esclusivo dell’indipendenza nazionale, e hanno cercato di trasformare la società “dall’alto” e per mezzo della legge per conformarla ai propri disegni.

Dall’altra, il sovranismo della maggioranza della popolazione, in particolare nelle regioni dell’interno del paese, che pensa che le élites cittadine siano più legate alle potenze esterne per interessi e per cultura. Questa parte della popolazione ha vissuto la riforma e la modernizzazione spinta dallo Stato come aggressione ai suoi quadri sociali e ai riferimenti arabo-islamici.

Questo antagonismo ha sovra determinato, da duecento anni, tutti gli altri, dal conflitto fra Bourghiba e Salah Ben Youssef (uno dei principali leader del movimento nazionale tunisino) al momento dell’indipendenza, all’opposizione fra “modernisti” e “islamisti” a partire dagli anni ‘80. Le élites cittadine, appoggiandosi su dinamiche economiche e geopolitiche più fruttuose, hanno sempre vinto. Ma la rivoluzione ha rimesso in discussione l’egemonia della narrazione elitaria senza però imporre un’altra.

Il primo periodo dopo la rivoluzione può essere letto come quello della delegittimazione delle vecchie élites e della loro concezione dello stato. Il secondo, con Béji Caïd Essebsi, come la promessa di rilanciare la modalità elitaria burghibista, depurata dalle perversioni affaristiche.

Entrambi hanno fallito.

Risultato, il bilancio della rivoluzione lascia tutti scontenti. Lo Stato ha perso la sua efficacia senza essersi sbarazzato delle sue collusioni con il denaro dei potenti, e il popolo non ha ottenuto né il potere, né la dignità.

Un sovranismo “pragmatico”

E’ questo cocktail esplosivo per la stabilità politica che occorre oggi disinnescare, dando un contenuto “pragmatico” a tale sovranismo e costruendo spazi allargati per la concertazione fra attori di tutte le provenienze politiche per definire “i grandi orientamenti strategici nazionali a lungo termine”, secondo i termini dell’ICG.

Non più formando alleanze fra forze politiche rivali per preservare i propri rispettivi interessi (legami d’affari, dossier giudiziari), ma per accorpare le due dimensioni della sovranità: il consolidamento dello Stato come strumento dell’indipendenza nazionale e come garante dell’optimum sociale con la creazione di spazi per la partecipazione politica popolare e la promozione della capacità della società a essere agente del proprio sviluppo e della propria evoluzione.

Tale convergenza fra questi due pilastri della costruzione nazionale può essere vista come il compito storico dei nuovi dirigenti tunisini, ed è questo lo spirito che sembra ispirare l’equipe formatasi attorno a Elyes Fakhfakh.

Ed effettivamente possiamo trovare elementi di questo sovranismo pragmatico nel memorandum che serve come riferimento per il governo, in cui possiamo distinguere tre grandi tematiche.

Innanzitutto, la ridefinizione dell’architettura dello Stato attraverso la continuazione della decentralizzazione, anche con le elezioni regionali per fare delle regioni, il cui perimetro resta da definire, gli agenti del proprio sviluppo; la promozione della “partecipazione effettiva e continuativa dei cittadini alle decisioni sul tipo di sviluppo nelle regioni”.

E poi, la ricostituzione del patto sociale, grazie alla riforma del sistema educativo per adattarlo ai bisogni di una democrazia, la riabilitazione del sistema sanitario che sta collassando.

Infine, la ridefinizione di un modello di sviluppo, per mezzo della transizione digitale ed energetica, ma soprattutto dotando la Tunisia di una vera strategia nazionale sia che orienti e negozi il proprio inserimento nell’economia globalizzata sia che ridefinisca la vocazione economica dei suoi territori, mentre attualmente è ancora iscritta nel modello estrattivo delle risorse dell’interno per favorire la crescita delle zone dl litorale.

La politica agricola e la valorizzazione di 800.000 ettari di terre demaniali saranno determinanti.

La promessa di lottare contro la corruzione per rispondere alla richiesta di moralizzazione delle vita pubblica dovrà evitare gli atteggiamenti e le operazioni spettacolari e selettive come quelle portate avanti nella primavera del 2017 dall’allora primo ministro Youssef Chahed sia per indebolire il suo rivale per il controllo del partito Nidaa Tounes, sia per promuovere la propria immagine.

La collusione fra le potenze del denaro e il potere politico in Tunisia ha radici ben più profonde che la venalità di alcuni funzionari e la dubbia moralità di alcuni politici.

Il rischio di una escalation

Mentre si proietta in queste prospettive di medio termine, il governo dovrà affrontare i pericoli a breve termine.

A cominciare dalla necessità di far quadrare il budget 2020 per cui la Tunisia dovrà prendere in prestito quasi nove miliardi di dinari dall’estero (2,8 miliardi di euro). Senza contare gli effetti potenzialmente devastanti della pandemia di corona virus sulla salute pubblica, il turismo e la bilancia dei pagamenti.

Vi è anche un rischio politico. Il persistere delle frustrazioni nutre ogni tipo di escalation: identitarie e nazionaliste, religiose, la ricerca di capri espiatori e teorie del complotto, nostalgia de la dittatura e dello Stato forte… che possono avvelenare il dibattito pubblico e contaminare il discorso dl governo.

L’antagonismo fra i due sovranismi storici, quello delle élites e quello popolare, in mancanza di una sintesi convincente ed efficace, potrebbe di nuovo polarizzare la classe politica e favorire manovre di destabilizzazione, come avvenne nel 2013 o nel 2015, quando era sembrato possibile, per attori ostili alla democratizzazione, aprire un fossato di sangue fra le forze presenti per accelerare una soluzione autoritaria.

Per disinnescare l’insieme di queste tensioni, il governo Fakhfakh sa che dovrà inviare rapidamente segnali convincenti e tangibili perché venga miglioratala condizione dei più.

Riduzione della criminalità, qualità nell’atteggiamento dei funzionari con chi si rivolge ai loro servizi ed efficacia dell’amministrazione, controllo della filiera dei beni correnti di consumo per controllarne i prezzi, rilancio delle attività delle imprese: la cosa più difficile per il governo sarà di fare in modo che il tempo lavori per lui, consolidando la sua posizione, e non contro di lui.

L’articolo è apparso il 4 marzo 2020 su Middle East Eye

Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini