Tunisia: chi paga il prezzo del corona virus?

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Mohamed Slim Ben Youssef

Il confinamento generale che sta vivendo la Tunisia e che è stato appena prolungato fino al 3 maggio, accentua le diseguaglianze fra la popolazione di fronte al costo sociale di una tale situazione. Ma fa anche emergere delle modalità di resistenza da parte dei salariati e dei precari.

Ufficialmente la Tunisia ha dichiarato lo stato di pandemia il 2 marzo 2020. Una serie di misure sono state prese per frenare la propagazione del corona virus. Il 20 marzo il presidente Kais Saïed ha proclamato il confinamento generale, insieme al divieto di spostamento interurbano. Questa decisione presuppone la capacità, anche se distribuita in maniera ineguale, di sopportarne il costo, capacità che tuttavia rischia di mancare nel momento in cui si (sopra) vive col proprio lavoro. Se in alcuni settori è stato possibile ricorrere al telelavoro, tale possibilità è lungi dal poter essere generalizzata in un paese in cui una grande parte della popolazione attiva è precaria.

In occasione di un suo discorso alla televisione lo scorso 21 marzo il capo del governo Elyes Fakhfakh ha annunciato un dispositivo di misure sociali che ha tre obiettivi: il primo è di non lasciare nessun Tunisino nel bisogno, il secondo di non perdere nessun posto di lavoro, e il terzo di non veder scomparire nessuna impresa e di prepararne il rilancio, una volta che la crisi sia finita.

I LAVORATORI DEL SISTEMA INFORMALE ESCLUSI

Le misure annunciate comprendono una linea di finanziamento di 300 milioni di dinari (96 milioni di euro) per i lavoratori in cassa integrazione, di 150 milioni di dinari (48 milioni di euro) in aiuti sociali per le fasce precarie e a basso reddito , il rinvio dei rimborsi dei crediti bancari per i salariati le cui entrate non superino i 1000 dinari ala mese (319 euro).

Tale dispositivo è stato in seguito completato e ampliato, in particolare con l’aumento dei budget messi a disposizione. Nel corso di una intervista televisiva diffusa in diretta il 19 aprile il capo del governo ha annunciato un secondo pacchetto di misure di aiuti finanziari per le famiglie e i pensionati più poveri, in occasione del Ramadan (che comincerà il 23 o il 24 aprile). Eppure tali misure restano insufficienti . Così, Leyla Riahi, membro del gruppo di lavoro per la sovranità alimentare punta il dito, sui social networks, contro il carattere diseguale di tali misure. Si tratta in particolare dell’esclusione di intere fasce di popolazione attiva, fra cui i lavoratori del settore informale, cioè più della metà dell’economia tunisina , i giornalieri, gli interinali e gli apprendisti (CIVP )

Queste categorie sono talmente marginalizzate che, a volte, fanno fatica a farsi riconoscere come tali dall’amministrazione pubblica. Di fatto sono numerose le persone senza un reddito stabile che non sono registrate dalle autorità e che faticano perciò a provare la loro condizione di precarietà nel momento in cui chiedono sussidi. Alcuni reportage televisivi mostrano fitti assembramenti di gente che chiede aiuti statali, perdendosi nel dedalo dell’amministrazione tunisina. In uno di questi video si può vedere una donna che si lamenta: “Per il formulario da riempire, vado agli Affari Sociali che mi rimanda alla circoscrizione, che di nuovo mi manda dallo cheik…Dallo cheik, niente! Nel frattempo, moriamo di fame!”

Altro problema, la penuria di prodotti alimentari di prima necessità. Le ragioni di questa penuria non si riducono agli acquisti compulsivi seguiti al panico e che si sono visti in tutto il mondo. In Tunisia anche la speculazione è una causa importante di tale problema. Nel suo discorso del 21 marzo Fakhfakh di conseguenza ha annunciato procedimenti penali contro gli speculatori, qualificati come “criminali di guerra” nella terminologia ufficiale.

Tuttavia la soluzione penale, da sola, non è stata all’altezza della situazione. La distribuzione della semola e di altri beni di importanza vitale rimane largamente diseguale. In effetti se le grandi città del litorale, in particolare Tunisi, conoscono un approvvigionamento più o meno normale, non è così negli agglomerati, nei quartieri e nei borghi periferici, ai margini dei circuiti di approvvigionamento. Nelle regioni impoverite video e  filmati, ripresi dai social networks,  mettono in luce la miseria sociale di una popolazione che fa fatica a rifornirsi. Si vedono abitanti di quartieri popolari e di territori periferici del centro-ovest affollarsi compatti e spintonarsi per procurarsi della semola. Nei borghi frontalieri del nord ovest, che dipendono dai circuiti di approvvigionamento delle città vicine, l’isolamento imposto con la restrizione dei movimenti si è tradotto nella mancanza di derrate alimentari, il che ha provocato movimenti di protesta. Nel momento in cui il Libano sperimenta “proteste della fame”, decine di cittadini contestano collettivamente le penurie alimentari nel quartiere popolare di Hay Intilaka a Tunisi

« LE NOSTRE VITE VALGONO PIÙ’ DEI LORO PROFITTI”

Fra i salariati, l’applicazione delle misure di confinamento è problematica. Di fatto all’annuncio del confinamento totale, il governo ha deciso la sospensione di tutte le attività “non essenziali”. “Un milione e mezzo di tunisini lavorerà per gli altri dieci milioni”, così aveva dichiaro Elyes Fakhfakh. Tuttavia migliaia di salariati, sebbene “non essenziali”, si trovano costretti a continuare a rendersi sul luogo di lavoro. Sfidando le misure di confinamento annunciate, troppe aziende hanno imposto ai loro dipendenti la continuità della produzione, minacciando di non versare gli stipendi o il licenziamento. E’ il caso di molti call center: migliaia di consulenti telefonici sono pregati di assicurare la loro presenza sul luogo di lavoro. Poiché, se alcuni grandi centri hanno potuto, in accordo con i sindacati, realizzare un dispositivo per il lavoro a distanza, altri hanno continuato a esigere la presenza fisica dei loro dipendenti.

Queste aziende offshore, i cui servizi sono destinati in grande maggioranza al mercato francese, beneficiano di una politica fiscale molto vantaggiosa e del plus-valore generato da una mano d’opera qualificata e molto meno costosa che in Europa. Impiegando più di 30.000 persone, questo settore sintomatico dell’estroversione dell’economia tunisina, rimane tuttavia poco sindacalizzato. Con l’esigere dai loro “consulenti “ che continuino ad assicurare il subappalto dei servizi post-vendita e dell’assistenza tecnica per mercati non tunisini, queste aziende sfidano le misure di confinamento, senza veramente rispondere a bisogni interni.

Altre imprese del settore industriale privato, come le fabbriche di biscotti, fabbriche in subappalto e filiali – reparti di multinazionali, in particolare dell’industria automobilistica, cercano allo stesso modo di imporre il mantenimento della continuità produttiva.

Di fronte a queste ingiunzioni al lavoro, viene organizzata in qualche modo una resistenza da parte di questi lavoratori e dai loro rappresentanti sindacali sui social networks. In un comunicato dell’Alleanza sindacale internazionale dei call center firmato anche dall’UGTT, fa bella mostra lo slogan “Le nostre vite valgono più dei loro profitti”. Ali Ourak, segretario generale della Federazione della tecnologia dell’informazione e dei servizi, combatte contro questo tipo di pratiche nei call center.

I PADRONI CONTESTATI

Alternando negoziazione, pubblica denuncia delle imprese che trasgrediscono (il confinamento) e richieste al governo di intervenire, questa lotta è riuscita finora, non senza difficoltà, a imporre il confinamento ad alcuni centri, inizialmente refrattari. I dipendenti di questo settore, da parte loro, hanno creato un un gruppo Facebook nel quale trasmettono, svelano e denunciano le aziende che violano il confinamento totale. Più ampiamente, la pagina “Denuncia il tuo covid padronale”, creata da un gruppo di sindacalisti e militanti della società civile, riporta le testimonianze di lavoratori sottoposti a intimidazioni, richieste di fare la spia e minacce di licenziamento da parte dei superiori.

Durante un intervento in Parlamento il 17 marzo il ministro delle finanze Mohamed Nizar Yaiche ha annunciato deduzioni fiscali per le aziende private che contribuiscano al fondo 1818 creato per affrontare la crisi sanitaria. Ora, il contributo di queste aziende è stato ampiamente considerato modesto, per ammissione stessa del capo del governo Elyes Fakhfakh, considerando quanto potrebbero fare le grandi fortune del paese. In un discorso del 21 marzo ha previsto “misure unilaterali” nei confronti delle grandi imprese nazionali che si mostrino poco generose. A tutt’oggi alle parole, non sono seguiti i fatti.

Da parte sua, Samir Majoul, presidente dell’associazione padronale, si mostra “preoccupato” per quella che definisce “una fase di pre-nazionalizzazione”. Il 25 marzo dichiara a una televisione privata che le aziende non possono pagare nello stesso tempo i salari, le tasse e i contributi. Il 15 aprile l’organizzazione padronale fa marcia indietro su un accordo firmato con il sindacato che garantiva il versamento degli stipendi del mese di aprile per i dipendenti del settore privato. Con un comunicato pubblicato in quella data l’”Union tunisienne de l’industrie, du commerce et de l’artisanat” (Utica, l’equivalente della Confindustria italiana, n.d.T.) si è attirata le ire dei sindacalisti e di molti militanti sui social networks, dichiarando essere decisa a trasformare la sospensione del lavoro in ferie pagate.

Dall’inizio della crisi sanitaria le prese di posizione pubbliche del padronato sono state fortemente contestate. Walid Besbes, che partecipa al blog collettivo indipendente Nawaat, sottolinea in un articolo pubblicato il 3 aprile la scarsità del contributo economico e fiscale del settore privato. Si contesta fortemente, in questo modo, l’appropriazione del valore aggiunto nazionale da parte di alcune banche e imprese private, di fatto in condizione di oligopolio sotto la cupola di una ricchissima minoranza. E tale contestazione arriva persino dall’alto. A margine di una riunione del consiglio di Sicurezza Nazionale del 31 marzo, il presidente della Repubblica pronuncia un discorso in cui chiede al governo di “prendere i soldi lì dove si trovano”. Ricordando le misure di redistribuzione che aveva proposto durante la campagna elettorale, , Kaïs Saïd raccomanda la compilazione di una lista di uomini d’affari più corrotti, per obbligarli a finanziare progetti di infrastrutture nelle regioni più colpite.

UN «MODELLO DI SVILUPPO » NELL’IMPASSE

A un altro livello, lo spettro delle ripercussioni economiche della crisi sanitaria agita il dibattito politico tunisino sin dall’inizio delle prime misure di confinamento. Per il governo, come per l’opposizione, il corona virus rivela i malfunzionamenti del “modello di sviluppo” e dei servizi pubblici fortemente deteriorati per l’effetto delle politiche di austerità imposte dai finanziatori internazionali. Tuttavia, le proposte per affrontare la situazione solo politicamente differenziate. Nella sua audizione in Parlamento il ministro delle Finanze aveva sottolineato l’importanza della crisi finanziaria del paese, aggravata, a suo parere, dall’abbassamento anticipato delle entrate fiscali e dalle spese eccezionali imposte dalla situazione sanitaria. E aveva insistito sulla necessità imperativa di riforme strutturali: riforma del metodo di contabilità delle spese pubbliche, ristrutturazione delle imprese pubbliche in deficit, integrazione del sistema informale.

Nello stesso tempo venivano formulate delle proposte alternative , in particolare a sinistra. Hamma Hammami, figura storica della sinistra radicale, in una lettera aperta al Presidente della Repubblica, propone una serie di misure economiche fra cui una imposta una tantum sui grandi profitti, una moratoria del debito pubblico e la sospensione dei benefici annuali delle imprese straniere presenti sul territorio tunisino.

Da parte sua , in un articolo apparso il 7 aprile su Nawaat, Layla Riahi raccomanda delle misure che considera come “pilastri di un’economia sovrana”. L’organizzazione di una tale economia passerebbe in particolare per il pieno riconoscimento dell’economia “informale” e dalla sua integrazione nel sistema previdenziale del paese, ma anche dal salvataggio del settore agricolo. A suo parere, “sostenere la produzione consiste operativamente a liberare disponibilità liquida per i produttori con una moratoria sui debiti agricoli e quelli con la società tunisina del gas e dell’elettricità (STEG) [… ] , nella revisione dei prezzi dei cereali e a fissare i prezzi del prodotto fresco a livello delle colture, garantendo un margine di guadagno sufficiente ai produttori e infine, a rivedere la strategia di incoraggiamento agli investimenti, puntando sul mercato locale e sull’agricoltura di autoconsumo” .

Intanto, sebbene l’azione pubblica sia stata piuttosto preventiva e finora abbastanza riuscita nella lotta contro la propagazione del Covid-19 (901 casi casi confermati e 38 decessi alla data del 21 aprile), nelle prossime settimane si dovranno fare sforzi maggiori. Ora, la mobilizzazione delle risorse materiali necessarie per farvi fronte richiede molto più che del volontarismo statale. Ad un certo momento, occorrerà fare delle scelte politiche precise, in particolare sulle questioni della redistribuzione e sul debito pubblico.

L’articolo originale è apparso su Orient XXI il 21 aprile 2020

Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini