Thierry Brésillon
Jihed Haj Salem è un ricercatore tunisino indipendente che lavora sui giovani dei quartieri popolari e sulle varie forme del loro impegno. In particolare ha studiato per sei anni i movimenti salafiti jihadisti e attualmente indaga sugli “ultras”, le organizzazioni dei supporter delle squadre di calcio.
Dopo le elezioni legislative e presidenziali segnate dal rifiuto dei partiti, dopo l’apparizione di nuovi protagonisti e l’elezione di un presidente, Kais Saied, particolarmente popolare nella fascia di età che va dai 18 ai trentacinque anni, sta cambiando il rapporto fra giovani e politica? Essi rappresentano una forza di trasformazione? Le loro richieste vengono maggiormente ascoltate?
Mentre a Tataouine e, in generale, nel sud della Tunisia i giovani protestano contro la disoccupazione e il sottosviluppo della loro regione, Jihed Haj Salem evoca per Middle East Eye le forme e i limiti di tale politicizzazione. Ritorna anche sull’evoluzione dei movimenti salafiti jihadisti e il perdurare della loro presenza in Tunisia.
Middle East Eye : Le elezioni del 2019 hanno rimescolato lo scacchiere politico. Sono emerse nuove formazioni. Forse ora le preoccupazioni delle fasce popolari sono meglio rappresentate?
Jihed Haj Salem : Non proprio! Si vede bene con quello che succede a Tataouine: le proteste per far applicare l’accordo del 2017, a seguito del movimento di El Kamour (nella primavera del 2017 i giovani di Tataouine avevano bloccato una stazione di pompaggio di petrolio, esigendo che una parte degli introiti delle compagnie petrolifere fosse consacrata alla creazione di posti di lavoro a livello locale e allo sviluppo regionale), sono degenerate il 19 giugno in scontri con la polizia.
In effetti, dalla fine del confinamento, la Tunisia sta vivendo un picco delle mobilitazioni sociali: per l’acqua nelle località rurali, per il versamento dei salari dei lavoratori del turismo a Gerba o nella zona industriale di Zaghouan, per il lavoro nel bacino minerario di Gafsa.
Ma nessuna di tali dinamiche trova eco né nella vita politica, né nei dibattiti parlamentari. Neppure la coalizione parlamentare Al-Karama, il cui leader Seifeddine Makhlouf è arrivato in testa di lista al primo turno delle presidenziali a Tataouine con il 24%, proprio riprendendo i contenuti delle proteste di El Kamour, ha proposto qualcosa. Invece si è assistito il 3 giugno allo spettacolo di un Parlamento che si è diviso sul voto a una mozione, proposta dal Partito Desturiano Libero (PDL di Abir Moussi) che condannava l’intervento turco in Libia, mozione che non aveva alcun valore giuridico, ma che voleva colpire il partito islamista di Ennahdha e il suo leader Rached Ghannouchi (presidente del Parlamento).
La settimana dopo la coalizione Al-Karama ha risposto proponendo una mozione per chiedere che la Francia presentasse le sue scuse per la colonizzazione, mettendo in discussione, allo stesso tempo, il ruolo di Habib Bourghiba. Tutti questi accesi dibattiti non hanno mai come oggetto le preoccupazioni del popolo.
MEE : Queste mobilitazioni sociali si traducono in proposte politiche?
JHS : Il paradosso di questi movimenti è che essi sono radicali nella forma: blocchi stradali o ferroviari, blocchi delle amministrazioni o delle fabbriche. In breve, bloccano il sistema, ma per chiedere di esserne integrati. Non si articolano in nessuna alternativa politica e sociale.
La democratizzazione in questi dieci anni fondamentalmente non ha cambiato questo paradosso. Bisogna capire che le persone hanno l’urgenza di trovare mezzi di sussistenza.
Persino a Tataouine, dove le proteste formulano una critica del modello economico estrattivista – che estrae le ricchezze di una regione per esportare i benefici – la risposta non è all’altezza. Circolano troppe leggende metropolitane sugli introiti “nascosti” dovuti all’estrazione del petrolio. Il fine della mobilizzazione è quello di poter beneficiare di una rendita sociale sotto forma di impieghi improduttivi. Non è una richiesta realistica. Lo Stato non ha i mezzi per mantenere questo tipo di promesse.
MEE : La libertà d’espressione e di organizzazione ha permesso, malgrado tutto, l’emergere di personalità in grado di dare una dimensione più politica, più strategica a questi movimenti?
JHS : In effetti ora è più facile, per gli individui così come per i coordinamenti, esprimersi, organizzarsi, agire. Ma in realtà i protagonisti sono in concorrenza tra loro e soprattutto cercano anche di intercettare risorse per i propri obiettivi .
Localmente e dal punto di vista delle loro strategie, i movimenti sociali sembrano totalmente sfasati rispetto al discorso ideologico, “rivoluzionario”, che si proietta su di loro.
Faccio l’esempio del mio quartiere, Douar Hicher (un quartiere della periferia di Tunisi). Esiste un movimento di laureati disoccupati che provengono dal sindacalismo studentesco che si ispira alla sinistra radicale.
Questa mobilitazione permette loro di posizionarsi come mediatori di fronte ai politici locali. Intrecciano una rete di relazioni con chi ha potere decisionale, ciò permette loro di ottenere vantaggi, impieghi, aiuti per i giovani da loro rappresentati, conseguendo in questo modo legittimità mentre indirizzano il movimento.
Ma in realtà utilizzano la mobilitazione come trampolino per una carriera politica, per una elezione nel consiglio municipale, oppure in Parlamento. Non hanno interesse ad uscire da questo inquadramento. Una tale modalità alla fine contribuisce al mantenimento dello statu quo, alla non-trasformazione.
MEE : Si è parlato, al momento dell’elezione di Kais Saied, di politicizzazione di un elettorato giovane e popolare. Ma che forma prende questa politicizzazione?
JHS : Esistono diverse logiche nella politicizzazione. Un tempo a Douar Hicher il salafismo era la forma principale di politicizzazione dei giovani. Dall’agosto 2013 e dopo la classificazione di Ansar Charia come organizzazione terrorista, questa strada si è chiusa. Le sconfitte dell’Isis in Siria e in Iraq, il fallimento dell’attacco a Ben Guerdane nel marzo 2016 hanno molto indebolito la sua capacità di attrazione.
E, come ho appena detto, le mobilitazioni dei disoccupati laureati non offrono molte prospettive.
Tuttavia, si sono sviluppate altre modalità. In particolare i club delle tifoserie di calcio, gli “ultras”. E’ un quadro molto importante: permette a giovani di accedere allo spazio pubblico, d’ avere voce, di organizzarsi. Ma essi sono in rottura con tutto.
E poi c’è un sotto-campo che va strutturandosi sin dalla rivoluzione, molto radicato nelle realtà locali. Si tratta di associazioni molto diverse, club sportivi, circoli di lettura, gruppi di solidarietà, organizzazioni cittadine per lo sviluppo di un quartiere… totalmente invisibili agli occhi dei partiti.
Percorrendo il paese sin dal 2012 per parlare del proprio progetto di riforma del sistema rappresentativo (fare eleggere con scrutinio uninominale rappresentanti locali per formare i consigli municipali, regionali e il Parlamento), Kais Saied è riuscito a intercettare la loro attenzione, costruendo così la sua base elettorale.
E’ riuscito a riunire queste”molecole” disperse ed eterogenee in una “macchina”politica, ma è capace di far funzionare questa macchina in maniera duratura, di organizzarla?
Quando si reca a pregare in un quartiere popolare, o partecipa alla distribuzione di aiuti, o visita una fabbrica di maschere durante il periodo del confinamento, mantiene questa connessione. Ma per il momento non si intravede la trasformazione di questo “rizoma” in una autentica forza.
C’è il desiderio di avere un leader carismatico democratico, in grado di andare oltre le forme obsolete dei partiti politici che non rappresentano più gli interessi della grande maggioranza della popolazione, pur preservando le libertà.
Ma per il momento Kais Saied non riesce a fornire la narrazione che trasformi tale desiderio in proposta federatrice e forza di trasformazione.
MEE : Lei ha accennato al salafismo jihadista. Malgrado la repressione cui è sottoposto, continua a manifestarsi ciclicamente. Abbiamo visto l’attentato sull’avenue Bourghiba nel giugno 2019 o l’attacco al posto di guardia all’entrata della ambasciata americana a marzo. Come si spiega tale persistenza?
JHS : Anche se tali attacchi si verificano sempre in momenti di fragilità della vita politica tunisina, credo che occorra legarli alla logica continentale dell’Isis, per la quale il Magreb è divenuto un terreno d’azione secondario, dopo il ritiro dalla Libia.
La sua priorità è piuttosto installarsi più a sud in Africa, alla frontiera algerina, nel Mali, fino al lago Ciad e nel Camerun. Seppure perpetrate da marginali, queste azioni terroristiche si iscrivono in un quadro globale.
Chi ha compiuto gli attacchi nel giugno 2019 proveniva da Hay Tadhamon (quartiere vicino a Douar Hicher), non aveva mai lasciato la Tunisia. Ma era in contatto con persone del quartiere che si trovavano in Iraq.
Per quanto riguarda l’attacco dello scorso marzo uno dei due assalitori aveva trascorso dei mesi in prigione, colpito dalla legge anti-terrorista, per aver pubblicato un post su Facebook. Ha frequentato perciò altri detenuti più o meno legati alla mouvance jihadista.
Io ipotizzo che un nuovo attore, molto radicale, che ha rotto con lo Stato Islamico per divergenze ideologiche, ispirato dallo sceicco saudita Ahmed ben Omar al-Hazimi, si stia imponendo sulla scena jihadista tunisina.
MEE : Come si spiega questo fenomeno?
JHS : Per capire occorre osservare come si è formato il movimento salafita jihadista in Tunisia. Sin dagli anni ‘80 esisteva un movimento tablighi di predicazione (che faceva proselitismo ed era e ultra-fondamentalista ).
Progressivamente, a partire dall’inizio degli anni 2000, alcuni non si sono accontentati di predicare, vedendo la sorveglianza della polizia nelle moschee, le molestie alle donne velate, quello che succedeva in Iraq, in Palestina…volevano cambiare l’ordine stabilito.
L’apparizione di Al-Qāʿida, l’influenza di Abou Moussab al-Zarkaoui nella resistenza all’occupazione americana in Iraq, il diffondersi delle antenne satellitari e degli internet caffè ha favorito lo svilupparsi di un salafismo jihadista in Tunisia.
Nel 2006 lo scambio di fuoco a Soliman ha portato alla luce questa evoluzione. Allora vennero arrestati più di 2000 sospetti, mentre solo 48 erano implicati nella sparatoria.
La prigione ha permesso loro di incontrarsi, formarsi e strutturarsi. Al momento dell’amnistia nel 2011 il movimento era già pronto e Ansar Charia ha potuto tenere il suo primo congresso nell’aprile 2011.
Tuttavia il movimento era attraversato da dibattiti dottrinali, strategici, teologici. In particolare, una parte di loro valutava la possibilità di una istituzionalizzazione come partito politico, ufficialmente dichiarato.
Ma soprattutto si crearono divisioni su una questione divenuta centrale: si doveva accordare a chi ha infranto la legge islamica la scusa dell’ignoranza? Oppure la sola infrazione avrebbe giustificato la “scomunica”? (takfir) del suo autore? Quest’ultima tesi era difesa dal saudita Ahmed ben Omar al-Hazimi che aggiungeva che colui il quale scusa l’infrazione a causa dell’ignoranza deve essere anche lui “scomunicato”.
Al-Hazimi venne a predicare in Tunisia per quattro volte, fra il dicembre 2011 e il maggio 2012, su invito di Abou Jaafar al-Hatab, allora imam in una moschea a Tunisi. Al-Hatab, in seguito partito per la Siria nel settembre 2013, ha giocato un ruolo importante nella formazione dello Stato Islamico poiché fu lui a fornire la giustificazione ideologica alla proclamazione di Abou Bakr al-Baghdadi come califfo.
Ora, per quest’ultimo come per l’Isis, le implicazioni delle tesi di al-Hazimi sui takfir erano pericolose perché bloccavano l’organizzazione delle popolazioni che dovevano amministrare, obbligandoli a epurazioni senza fine.
Alla fine Abou Bakr al-Baghdadi ha ordinato l’esecuzione di al-Hatab nel settembre del 2014 e di numerosi altri combattenti tunisini. In Tunisia è stato uno choc che non è stato ancora superato.
MEE : Si ha un’idea dell’ampiezza di questo tendenza?
JHS : Lo Stato non si è dato mezzi a sufficienza per conoscere bene questo ambiente. Attualmente ci sono più di 2000 persone in prigione, incriminate sulla base della legge anti-terrorismo. Si va dalla partecipazione a un gruppo jihadista, a un coinvolgimento in Siria, fino a una semplice pubblicazione sui social.
Ora, non si sa nulla di questa popolazione: quali sono gli attori, le correnti, le forme organizzative, come comunica questa gente con l’esterno?
La classificazione di Ansar Charia come organizzazione terrorista nell’agosto 2013, a seguito degli assassinii politici (dell’oppositore Chokri Belaid e del deputato Mohamed Brahmi) ha interrotto il suo ciclo di istituzionalizzazione. Una parte del movimento forse avrebbe potuto evolvere verso una normalizzazione e una integrazione nella vita democratica.
Ad oggi ci sono persone che si sono impegnate nell’azione violenta. Ma trattando tutti come terroristi, lo Stato si priva di una possibilità di integrare una parte di questi giovani.
Il salafismo rimane una via per la politicizzazione. Certamente, a differenza dei movimenti sociali il suo obiettivo non è di trovarsi un posto all’interno del sistema, ma di rovesciarlo e rifondarlo su una base completamente religiosa.
Ma occorre comprendere che per giovani che la società considera senza valore, che lo Stato maltratta socialmente, fisicamente, simbolicamente, l’identificazione con il jihadismo è una “ transustanziazione,” (la trasformazione di sé da feccia a eroe, n.d.T) e un modo per acquistare un valore e una posizione di potere. Cosa che non trovano altrove.
Ciò è anche il risultato dell’impasse di altre forme di politicizzazione negli ambienti popolari. Quello che apprendo dalle mie osservazioni a Douar Hicher è l’importanza essenziale di legare la democrazia rappresentativa alle questioni vitali per la gente: il lavoro, la salute, l’acqua, ecc. Senza questo è la democrazia tutta che viene squalificata.
L’intervista originale è apparsa il 25 giugno 2020 su Middle East Eye
Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini
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