Il Cairo brucia. Le ultime notizie fanno rabbrividire. Decine e decine di morti uccisi dai cecchini della polizia appostati sui tetti intorno ai palazzi del potere. Il ministero dell’interno, le sedi del partito di Mubarak, la televisione nazionale. I medici sono stati chiari, la polizia colpisce per uccidere. Ormai è un massacro. Che ricorda molto quanto accaduto a Tunisi nella notte della caduta di Ben Ali. Quando la polizia e le milizie del regime seminarono il terrore, sparando sulla folla e braccando casa per casa i manifestanti per poi torturarli nei sotterranei del ministero dell’interno. Era il 14 gennaio. Sembra un secolo fa. Ma sono passate soltanto due settimane.
Qui a Tunisi la situazione si va normalizzando. Dopo i violenti scontri alla qasbah tra polizia e manifestanti, in cui si parla di almeno un morto, mentre si cercano ancora notizie su quattro dispersi, la maggior parte dei ragazzi di Qasserine e Sidi Bouzid che avevano animato il presidio sotto il palazzo del governo sono rientrati nelle proprie regioni. E oggi la polizia è tornata a usare la forza per sgomberare la piazza mobilitata dalla associazione delle donne democratiche. Gas lacrimogeni e manganelli sono piombati due volte sui manifestanti in viale Habib Bourghiba. Prima verso le dodici, e di nuovo intorno alle diciotto, con tanto di spedizioni punitive nei bar di via Parigi.
Najat, un’amica di Gafsa, era in uno di quei bar ed è stata colpita con una manganellata alla testa, è svenuta poco dopo per strada, mentre un gruppo di amici le bagnava la fronte insanguinata sotto la kefya in cui aveva raccolto i capelli. Adesso sta bene, è in ospedale. Ma la gente si interroga sul senso di queste violenze gratuite e impunite che danno un’idea della difficile sfida che si presenterà alla Tunisia per democratizzare 170.000 poliziotti da anni addestrati alla tortura. Certo che rispetto alla mattanza del Cairo, il paragone è insostenibile. Anche se tra le due rivolte ci sono almeno due cose in comune.
La prima è l’ispirazione che la rivoluzione tunisina ha dato al popolo egiziano e non solo. Il che è evidente anche dai manifesti comparsi a Tunisi dopo le prime manifestazioni in Egitto, come come quello che diceva: “Il popolo tunisino sostiene la rivoluzione egiziana”. O dal piccolo ma simbolico presidio tenutosi davanti al consolato egiziano di Tunisi al grido di “Dégage, dégage, dégage ya khemmaj!”, ovvero: andatevene farabutti. Il video ovviamente ha subito fatto il giro su youtube.
L’altra cosa in comune tra Tunisi e Il Cairo, che poi è il motivo per cui anche un sito come Fortress Europe segue queste vicende, è il tema della gioventù. Di questa gioventù sofferente sulla riva sud del Mediterraneo, di questa gioventù che per anni ha sfidato la morte attraversando il mare. Di questo gioventù che oggi si rivolta. Una gioventù con cui abbiamo tanto in comune. Ma solo a una condizione. Che mettiamo da parte gli scacchieri geopolitici della stabilità del più forte e che riconosciamo a tutti il diritto alla libertà.
Me lo spiegava bene una signora due giorni fa nella qasbah. “Datemi i diritti, non il pane, non il lavoro, datemi i diritti”. E lo diceva lei, una donna di 38 anni divorziata con un bambino di 8 anni da mantenere con uno stipendio come donna delle pulizie di 90 euro al mese. Una che non aveva mai potuto studiare ma non per questo si sentiva meno tenuta a parlare. Esattamente come gli studenti, i blogger dissidenti, gli artisti, gli avvocati o il sindacato. Chapeau a tutti quanti, ma senza i poveri del Cairo o del sud della Tunisia, le rivolte non sarebbero mai esplose. Sono loro che si sono fatti ammazzare per la libertà. È la loro rabbia, divenuta coraggio, ad aver sovvertito il sistema di uno stato di polizia, in cui è diventato chiaro a tutti che senza libertà non c’è futuro, senza dignità, senza giustizia, tutto il resto è ipocrisia. Le dittature sostenute dall’Europa e dall’America sono al capolinea. Così ha deciso il popolo. Dégage ya khemmaj!
originale dell’articolo: http://fortresseurope.blogspot.com/2011/01/degage-ya-khemmaj.html
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