“Era il pomeriggio dell’11 gennaio. I cecchini erano sul tetto della farmacia. Io ero all’angolo della strada, Mohamed stava portando il fratellino piccolo a casa, perché in strada era pericoloso. Quando l’ho visto cadere pensavo fosse inciampato, poi ho visto il sangue e la testa spappolata e ho capito che l’avevano ammazzato. E in quel momento ho visto la donna sul tetto, perché è stata una donna a sparare, ha alzato le braccia come se fosse felice di aver colpito il bersaglio”. Ali quei momenti non se li scorderà facilmente. La sua città, Qasserine, è quella che ha avuto più vittime: 61 morti, fatti fuori dalle milizie di Ben Ali spedite a dare man forte alla polizia locale seminando il terrore. Lui oltre a Mohamed Khadraoui, conosceva altri due martiri, tutti ragazzi del quartiere Zuhur. Il meccanico, Raouf Bouzid, un ragazzo di 21 anni ammazzato anche lui da un cecchino. E poi il francese, Saber Rtibi, un tipo di 25 anni nato a Qasserine ma che ormai viveva in Francia da una vita, con i genitori. Era sceso per una vacanza, era arrivato in città cinque giorni prima che cominciassero gli scontri che gli sono costati la vita.
E dalla Francia e da altri paesi stanno ritornando a Tunisi tanti espatriati. Gente comune, come il ventiquattrenne Nidham, che ha lasciato Parigi per vivere gli ultimi giorni della rivoluzione; giornalisti, come i redattori di Radio Kalima; e infine rifugiati politici, come lo zio di Ali, ex militante del partito islamico EnNahda, appena rientrato dopo 17 anni di esilio in Germania.
E il tema degli islamisti è un’altra patata bollente. Per adesso il popolo è unito. E i ragazzi di Sidi Bouzid solidarizzano con le barbe lunghe del comitato di Kairouan per le vittime della legge antiterrorismo. Tutti per ora vogliono la stessa cosa: la libertà e un taglio netto col regime. Ad ogni modo, piacciano o no, la loro presenza nel gioco democratico è fondamentale. Il dottor Gsouma, ex professore di matematica, appassionato lettore di Gramsci, con alle spalle 12 anni in carcere sotto il regime di Ben Ali proprio per la sua adesione al partito di opposizione islamico EnNahda, sulla questione non ha dubbi: “L’unica garanzia per la tenuta della democrazia è l’esistenza di un partito islamico. Ovviamente all’interno di una democrazia parlamentare e in un sistema di pluralismo. Ma prima gli uomini di Ben Ali devono dimettersi dal governo di transizione.”
Su questo punto però, non tutta la Tunisia la pensa allo stesso modo. E a fare da spartiacque è una questione di classi sociali. A parte avvocati, insegnanti e intellettuali, il settore produttivo del paese già guarda ai propri interessi. Oggi un centinaio di manifestanti ha coraggiosamente attraversato viale Bourghiba chiedendo la fine degli scioperi e la fiducia al governo, con momenti di tensione con le migliaia di persone in piazza contro quello stesso governo. “Il paese ha bisogno di stabilità altrimenti l’economia si blocca” ci spiega un facoltoso ingegnere, poco importa se gli attuali ministri sono gli stessi uomini del regime.
Ma i ragazzi di Qasserine e Sidi Bouzid non la pensano allo stesso modo. Vengono dalle regioni più povere del paese, da dove storicamente sono sempre nate le insurrezioni del paese a partire dall’indipendenza. In questa partita non hanno niente da perdere, ma solo una cosa da guadagnare: la libertà.
La stessa euforia assaporata in questi giorni nelle piazze della capitale con la riconquista degli spazi pubblici e della cittadinanza dopo un ventennio di oppressione. Il loro messaggio è racchiuso in un gesto simbolico. Quello di un misterioso gruppo di spazzini comparsi sul far del tramonto tra gli alberi di viale Bourghiba, una decina di ragazzi e ragazze armati di scope che hanno cominciato a ripulire il marciapiede, come dire che dopo aver spazzato via Ben Ali, adesso c’è da finire il lavoro di pulizia.
Ps il racconto si riferisce alla giornata del 25 gennaio 2011. In serata è arrivato un ulteriore annuncio di un previsto rimpasto del governo
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