TUNISI – Sindacalisti arrestati e torturati. Manifestanti uccisi dalla polizia. Giornalisti in carcere. E una potente macchina di censura per evitare il dilagare della protesta. Non è una lezione di storia sul fascismo, ma la cronaca degli ultimi dieci mesi in Tunisia. Una cronaca che non lascia dubbi sulla natura del regime di Zine El Abidine Ben Ali – alla guida del paese dal 1987 – e che svela il lato nascosto di un paese visitato ogni anno da milioni di turisti e ogni anno abbandonato da migliaia di emigranti. Per scriverla ho dovuto raggiungere clandestinamente la città di Redeyef, cuore della rivolta, nel sud ovest del Paese, e incontrare i testimoni chiave di quello che i circoli democratici di Tunisi già definiscono come il movimento sociale più importante e duraturo degli ultimi 20 anni in Tunisia. Quando la polizia mi ha scoperto, era già troppo tardi. Da quel giorno sono stato sorvegliato da agenti in borghese, giorno e notte. Il mio telefono è finito sotto intercettazione. Sono stato intimidito. Ma all’aeroporto di Tunisi, perquisendo i miei bagagli non hanno trovato quello che cercavano. Le interviste erano arrivate in Italia prima di me, grazie a un rodato sistema di posta clandestina e a una buona connessione internet.
Il movimento è decapitato. Nessuna donna però è stata arrestata. Sono loro, le mogli dei sindacalisti e dei militanti detenuti a tornare in piazza, il 27 luglio, per chiedere la liberazione dei detenuti. In mezzo a loro c’è anche Zakiya Dhifaoui. Classe 1966, giornalista, poetessa e insegnante di storia e geografia al liceo Rue de Fez, a Kairouan. Scrive sul giornale Muatinun, del partito di opposizione Forum democratico per il lavoro e le libertà, di cui è membro. È riuscita ad eludere i controlli della polizia e a raggiungere Redeyef per scrivere un reportage. Appena finisce la manifestazione, la polizia fa irruzione nella casa di Jomaa, la moglie di Adnane Hajji, dove si trova la giornalista. Il suo è un arresto simbolico. Un messaggio a tutti i giornalisti tunisini di non recarsi a Redeyef e di non scrivere sulle rivolte. È l’altro lato della repressione: il controllo totale dell’informazione.
Il 10 settembre 2008 Zakiya Dhifaoui viene condannata in via definitiva a quattro mesi e mezzo di carcere. Ma non è l’unica giornalista dietro le sbarre. A finire sotto processo è la stessa libertà di espressione. Durante le proteste, le informazioni su Redeyef vengono diffuse in due modi. Sui giornali di opposizione e sul canale televisivo al-Hiwar. Tra i giornali di opposizione, il quotidiano del vecchio partito comunista tunisino, Tareq al Jadid, può contare su un corrispondente da Redeyef, Amor Gondher. Che però, a causa delle sue denunce, viene prima minacciato e poi pestato da due agenti di polizia, la sera del 26 giugno, vicino casa, a Nefta. La stessa sorte era toccata un mese prima a Masoud Romdhani, membro della Lega tunisina dei diritti umani e portavoce del Movimento nazionale di sostegno al popolo delle miniere, malmenato da agenti in borghese all’autostazione di Tunisi e da allora mantenuto sotto strettissima sorveglianza.
Il video delle manifestazioni e delle violenze poliziesche a Redeyef erano invece registrati in modo amatoriale da un fotografo del posto, Mahmoud Raddadi, e poi mandati in onda dalla tv satellitare italiana Arcoiris nella fascia oraria tra le 20:00 e le 22:00, all’interno di un programma curato da un’equipe della televisione tunisina El Hiwar. Si tratta degli stessi video-denuncia distribuiti clandestinamente in tutta la Tunisia su dvd masterizzati, e poi diffusi da Al Jazeera e caricati su Youtube e Dailymotion.
Internet è stata fondamentale per rompere la cappa del silenzio. On line si possono vedere le immagini dei feriti dalle armi da fuoco, delle manifestazioni e dei comizi di Hajji. Tuttavia Youtube e Dailymotion in Tunisia sono oscurati dal novembre 2007, proprio per dei video che denunciano la tortura e insultano Ben Ali. Arcoiris invece si continua a vedere, ma il programma di El Hiwar è scomparso. Il fotografo, Raddadi, è in carcere. E Fahim Bouqaddous, che si occupava del montaggio, è scappato di casa il 5 luglio, per sfuggire al mandato d’arresto. Entrambi sono accusati di diffusione di informazioni tese a destabilizzare l’ordine pubblico. Rischiano fino a dodici anni di carcere. Saranno presto giudicati insieme ad altri 38 imputati, tra cui 14 sindacalisti. Il dibattimento inizierà alla fine di novembre. L’accusa è di associazione a delinquere. Si tratta di uno dei più grandi processi politici dell’era Ben Ali. Molti dei detenuti hanno denunciato di aver subito torture e di essere stati costretti a firmare dichiarazioni mai rese. Adnan Hajji, Bechir Laabidi e Tayeb Ben Outhman, i tre leader sindacali della protesta, sono detenuti nelle prigioni di Kasserine e Sidi Bouzid, a 150 km da Redeyef. Gli altri sono tutti a Gafsa. Dove si celebra il processo.
Fuori dal tribunale, Ben Ali sorride in uno degli onnipresenti poster che tappezzano ogni città tunisina. Il 7 novembre si festeggia il ventunesimo anno della sua presidenza. Nel novembre 2009 si tornerà a votare. I morti di Redeyef non basteranno a intaccare la rete clientelare di consenso del Partito democratico costituzionale (Rdc). Né a far rinascere l’opposizione dopo anni di repressione del dissenso. Gli avvocati della difesa lo sanno, che il giudizio è già pronto. Ma nella storia c’è un accumulo… dice uno di loro sotto anonimato. Dopotutto lo scriveva già un secolo fa il giovane poeta di Tozeur, Abou el Kacem Chebbi: “quando il popolo sceglierà la vita, il destino dovrà rispondere, la notte si rischiarerà e si romperanno le catene”.
articolo originale:http://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/tunisia-la-dittatura-sud-di-lampedusa.html
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